sia Giappone, nuova interpretazione costituzionale sulla rinuncia alla guerra Natalino Ronzitti 18/08/2014 |
Una “Cabinet Decision”, con cui s’intende reinterpretare l’art. 9 della Costituzione giapponese: quello conclusosi il 1° luglio è stato un processo di “reinterpretazione” e non “emendamento”, poiché questa seconda via sarebbe politicamente impraticabile, dato lo spirito profondamente pacifista che permea la società giapponese.
La volontà di reinterpretare la Costituzione e la possibilità di introdurre nuove opzioni per l’uso della forza armata è stata oggetto di numerose manifestazioni contrarie, che hanno raggiunto l’apice con un suicidio: o tempora, (anzi o loca), o mores, verrebbe da esclamare pensando ai tentativi di riforma domestici!
La Costituzione giapponese, entrata in vigore nel 1947, è figlia dei suoi tempi e dello stato di occupazione in cui si trovava lo stato asiatico alla fine della II Guerra Mondiale. La Carta fu sostanzialmente imposta, essendo stata scritta dai collaboratori del Generale Mac Arthur, Capo delle Forze di occupazione, e tradotta in giapponese.
Non vi fu quindi un dibattito, quale quello che si ebbe in Italia in seno all’Assemblea Costituente, in occasione della scrittura dell’art. 11, altra disposizione “pacifista” di uno stato sconfitto. Pur imposta, la Costituzione giapponese si è insinuata profondamente nello spirito e nelle coscienze della società.
L’art. 9 della costituzione giapponese
Ma che cosa dice l’art. 9? La disposizione consta di due commi: nel primo sono consacrati due obblighi:
a) la rinuncia alla guerra;
b) la rinuncia alla minaccia e all’uso della forza per risolvere le controversie internazionali.
Nel secondo vengono stabiliti due obblighi strumentali rispetto ai doveri enunciati nel primo, cioè:
a) l’obbligo di non mantenere forze di mare, terra ed aria, nonché altro potenziale di guerra;
b) l’obbligo di non riconoscere il diritto di belligeranza dello Stato.
La disposizione va letta congiuntamente al Preambolo, secondo cui tutti i popoli del mondo hanno diritto a vivere in pace, e all’art. 13, secondo cui essi hanno diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità.
Prima reinterpretazione
La guerra di Corea, iniziata nel 1950, fece da propulsore per una reinterpretazione dell’art. 9. L’obbligo di cui al par. 2 dell’art. 9 è stato inteso nel senso di consentire la legittima difesa individuale, strettamente intesa, ovvero solo in caso di attacco al territorio giapponese.
Una forza di legittima difesa è stata istituita nel 1954, composta di forze di terra, mare e aria (Sfd: Self-Defence Forces). Più volte oggetto di contestazione, la legittimità delle forze di autodifesa (il cui bilancio occupa ormai il quarto posto della scala mondiale, ma ha un tetto non potendo superare 1% del prodotto nazionale lordo) non è mai stata messa in discussione dalla Corte suprema giapponese, che funziona anche come corte costituzionale.
Un ulteriore passo è stata la stipulazione del Trattato di sicurezza con gli Stati Uniti del 19 gennaio 1960, che sostituisce quello concluso nel 1951 e contiene obblighi di carattere reciproco, peraltro limitati, da parte giapponese, agli attacchi delle forze armate statunitensi stanziate in territorio giapponese.
Anche la partecipazione alle operazioni delle Nazioni Unite è avvenuta tardivamente e in modo attenuato, sebbene il Giappone ne fosse divenuto membro fin dal 1956. Una prima legge, varata nel 1992, aveva autorizzato il Giappone a partecipare solo a operazioni non militari, come il soccorso alla popolazione civile, ma la legge è stata emendata nel 2001, per consentire operazioni di supporto logistico, che non comportassero però l’uso della forza.
È stato inviato anche un contingente in Iraq, dopo l’occupazione anglo-americana, e in effetti il Giappone ha fatto parte della Coalition provisional authority (Cpa), l’autorità investita dell’amministrazione dell’Iraq occupato.
Le contingenze politiche recenti hanno fatto il resto: l’aspirazione del Giappone a diventare membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, che mal si concilia con una politica di quasi neutralità; le mire della Cina sul Mar cinese meridionale, rivendicato come acque storiche, che impedirebbero una effettiva libertà di navigazione per uno stato, la cui sopravvivenza dipende dal mare; la controversia sulle Isole Senkaku, di cui Cina e Giappone reclamano la sovranità; la crescente minaccia missilistica (e atomica) della Corea del Nord. Per non parlare delle Kurili sotto amministrazione russa, ma rivendicate dal Giappone.
Legittima difesa collettiva
La Decisione ministeriale del 1° luglio non è una rivoluzione interpretativa dell’art. 9. Una delle proposte più incisive consiste nell’ammettere che l’art. 9 consente il ricorso alla legittima difesa collettiva, cioè che si possa intervenire in difesa di un terzo stato, quantunque il Giappone non sia immediatamente oggetto di un attacco armato.
La legittima difesa collettiva è accordata sia dalla Carta delle Nazioni unite, sia dal diritto internazionale consuetudinario. La proposta ministeriale confina la legittima difesa collettiva a un ambito molto ristretto, nel senso che l’intervento diverrebbe ammissibile, solo quando venga attaccato un paese legato da una stretta relazione con il Giappone e l’aggressione costituisca una minaccia anche nei confronti del Sol Levante. Il tutto sempre dietro autorizzazione della Dieta nazionale, l’organo legislativo giapponese, preventiva o ex post facto.
Per altri settori, la decisione ministeriale propone una reinterpretazione che consentirebbe una serie di azioni che comportano forme minori di uso della forza armata: ad es. azioni volte a rimediare intrusioni nelle acque territoriali giapponesi o interventi per salvare cittadini giapponesi all’estero in pericolo di vita o ancora per far fronte a contingenze che si verifichino in aree vicine a isole remote.
Per quanto riguarda le operazioni di mantenimento della pace sotto l’egida delle Nazioni Unite, il Giappone, secondo la decisione ministeriale, dovrebbe giocare un ruolo più incisivo e proattivo.
Si tratta di operazioni che non comportano l’uso della forza armata. Invece per quelle che lo comportano, intraprese o autorizzate dalle Nazioni Unite, la decisione ministeriale non preconizza una partecipazione diretta, ma solo un supporto logistico non qualificabile come uso della forza.
Scontro con l’ala pacifista
La Decisione ministeriale dovrà ora passare lo scoglio della Dieta dove lo scontro con l’ala pacifista sarà piuttosto acceso. La reinterpretazione non comporterà nessuna modifica scritta della Costituzione, ma sarà condensata in una o più leggi ordinarie che, ovviamente, restano subordinate all’art. 9 e sono soggette al vaglio della Corte suprema, qualora ricorrano i motivi per sollevare una questione di costituzionalità. La Corte potrebbe abrogare la legge ritenuta incostituzionale.
Tutto sommato la nuova interpretazione dell’art. 9, agli occhi del giurista, è ben poca cosa e appaiono infondati i timori dei pacifisti e dei vicini del Giappone, memori della tragedia della II Guerra Mondiale.
Il Giappone integrato economicamente e politicamente con l’Occidente abbisogna di un’interpretazione della Costituzione che lo metta in grado di una partecipazione attiva anche con lo strumento militare.
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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La volontà di reinterpretare la Costituzione e la possibilità di introdurre nuove opzioni per l’uso della forza armata è stata oggetto di numerose manifestazioni contrarie, che hanno raggiunto l’apice con un suicidio: o tempora, (anzi o loca), o mores, verrebbe da esclamare pensando ai tentativi di riforma domestici!
La Costituzione giapponese, entrata in vigore nel 1947, è figlia dei suoi tempi e dello stato di occupazione in cui si trovava lo stato asiatico alla fine della II Guerra Mondiale. La Carta fu sostanzialmente imposta, essendo stata scritta dai collaboratori del Generale Mac Arthur, Capo delle Forze di occupazione, e tradotta in giapponese.
Non vi fu quindi un dibattito, quale quello che si ebbe in Italia in seno all’Assemblea Costituente, in occasione della scrittura dell’art. 11, altra disposizione “pacifista” di uno stato sconfitto. Pur imposta, la Costituzione giapponese si è insinuata profondamente nello spirito e nelle coscienze della società.
L’art. 9 della costituzione giapponese
Ma che cosa dice l’art. 9? La disposizione consta di due commi: nel primo sono consacrati due obblighi:
a) la rinuncia alla guerra;
b) la rinuncia alla minaccia e all’uso della forza per risolvere le controversie internazionali.
Nel secondo vengono stabiliti due obblighi strumentali rispetto ai doveri enunciati nel primo, cioè:
a) l’obbligo di non mantenere forze di mare, terra ed aria, nonché altro potenziale di guerra;
b) l’obbligo di non riconoscere il diritto di belligeranza dello Stato.
La disposizione va letta congiuntamente al Preambolo, secondo cui tutti i popoli del mondo hanno diritto a vivere in pace, e all’art. 13, secondo cui essi hanno diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità.
Prima reinterpretazione
La guerra di Corea, iniziata nel 1950, fece da propulsore per una reinterpretazione dell’art. 9. L’obbligo di cui al par. 2 dell’art. 9 è stato inteso nel senso di consentire la legittima difesa individuale, strettamente intesa, ovvero solo in caso di attacco al territorio giapponese.
Una forza di legittima difesa è stata istituita nel 1954, composta di forze di terra, mare e aria (Sfd: Self-Defence Forces). Più volte oggetto di contestazione, la legittimità delle forze di autodifesa (il cui bilancio occupa ormai il quarto posto della scala mondiale, ma ha un tetto non potendo superare 1% del prodotto nazionale lordo) non è mai stata messa in discussione dalla Corte suprema giapponese, che funziona anche come corte costituzionale.
Un ulteriore passo è stata la stipulazione del Trattato di sicurezza con gli Stati Uniti del 19 gennaio 1960, che sostituisce quello concluso nel 1951 e contiene obblighi di carattere reciproco, peraltro limitati, da parte giapponese, agli attacchi delle forze armate statunitensi stanziate in territorio giapponese.
Anche la partecipazione alle operazioni delle Nazioni Unite è avvenuta tardivamente e in modo attenuato, sebbene il Giappone ne fosse divenuto membro fin dal 1956. Una prima legge, varata nel 1992, aveva autorizzato il Giappone a partecipare solo a operazioni non militari, come il soccorso alla popolazione civile, ma la legge è stata emendata nel 2001, per consentire operazioni di supporto logistico, che non comportassero però l’uso della forza.
È stato inviato anche un contingente in Iraq, dopo l’occupazione anglo-americana, e in effetti il Giappone ha fatto parte della Coalition provisional authority (Cpa), l’autorità investita dell’amministrazione dell’Iraq occupato.
Le contingenze politiche recenti hanno fatto il resto: l’aspirazione del Giappone a diventare membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, che mal si concilia con una politica di quasi neutralità; le mire della Cina sul Mar cinese meridionale, rivendicato come acque storiche, che impedirebbero una effettiva libertà di navigazione per uno stato, la cui sopravvivenza dipende dal mare; la controversia sulle Isole Senkaku, di cui Cina e Giappone reclamano la sovranità; la crescente minaccia missilistica (e atomica) della Corea del Nord. Per non parlare delle Kurili sotto amministrazione russa, ma rivendicate dal Giappone.
Legittima difesa collettiva
La Decisione ministeriale del 1° luglio non è una rivoluzione interpretativa dell’art. 9. Una delle proposte più incisive consiste nell’ammettere che l’art. 9 consente il ricorso alla legittima difesa collettiva, cioè che si possa intervenire in difesa di un terzo stato, quantunque il Giappone non sia immediatamente oggetto di un attacco armato.
La legittima difesa collettiva è accordata sia dalla Carta delle Nazioni unite, sia dal diritto internazionale consuetudinario. La proposta ministeriale confina la legittima difesa collettiva a un ambito molto ristretto, nel senso che l’intervento diverrebbe ammissibile, solo quando venga attaccato un paese legato da una stretta relazione con il Giappone e l’aggressione costituisca una minaccia anche nei confronti del Sol Levante. Il tutto sempre dietro autorizzazione della Dieta nazionale, l’organo legislativo giapponese, preventiva o ex post facto.
Per altri settori, la decisione ministeriale propone una reinterpretazione che consentirebbe una serie di azioni che comportano forme minori di uso della forza armata: ad es. azioni volte a rimediare intrusioni nelle acque territoriali giapponesi o interventi per salvare cittadini giapponesi all’estero in pericolo di vita o ancora per far fronte a contingenze che si verifichino in aree vicine a isole remote.
Per quanto riguarda le operazioni di mantenimento della pace sotto l’egida delle Nazioni Unite, il Giappone, secondo la decisione ministeriale, dovrebbe giocare un ruolo più incisivo e proattivo.
Si tratta di operazioni che non comportano l’uso della forza armata. Invece per quelle che lo comportano, intraprese o autorizzate dalle Nazioni Unite, la decisione ministeriale non preconizza una partecipazione diretta, ma solo un supporto logistico non qualificabile come uso della forza.
Scontro con l’ala pacifista
La Decisione ministeriale dovrà ora passare lo scoglio della Dieta dove lo scontro con l’ala pacifista sarà piuttosto acceso. La reinterpretazione non comporterà nessuna modifica scritta della Costituzione, ma sarà condensata in una o più leggi ordinarie che, ovviamente, restano subordinate all’art. 9 e sono soggette al vaglio della Corte suprema, qualora ricorrano i motivi per sollevare una questione di costituzionalità. La Corte potrebbe abrogare la legge ritenuta incostituzionale.
Tutto sommato la nuova interpretazione dell’art. 9, agli occhi del giurista, è ben poca cosa e appaiono infondati i timori dei pacifisti e dei vicini del Giappone, memori della tragedia della II Guerra Mondiale.
Il Giappone integrato economicamente e politicamente con l’Occidente abbisogna di un’interpretazione della Costituzione che lo metta in grado di una partecipazione attiva anche con lo strumento militare.
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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