Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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venerdì 15 dicembre 2017

mercoledì 26 luglio 2017

CS1 - 2012 FS2 Paesi Limitrofi in Conflitto

Fattore di Rischio = Paese/i Limitrofi in conflitto (FS.2) A2  della Capacita Sicurezza CS.1

   Paese/i Limitrofo  con conflitto in corso = 1
   Paese/i limitrofo con conflitto terminati nell’ anno:  (anno di riferimento 2012) = 2
   Paese/i limitrofo con conflitto terminato tra 1 e 5 anni (2011-2007): 3
   Paese/i limitrofo con conflitto terminato tra 6-10 anni  (2006-2002): 4
   Paese/i limitrofo con conflitto terminato tra 11-15 anni  (2001-1997): 5
   Paese/i limitrofo con conflitti terminati tra 16-20 anni (1996-1992): 6
   Paese/i limitrofo con conflitti terminati da 21 anni (1991): 7
   Paese/i limitrofo con Conflitti terminati da 22 anni (1990): 8
   Paese/i limitrofo con Conflitti terminati da 23 anni (1989): 9
   Paese/i limitrofo con Conflitti terminati da oltre 24 anni  ( ante 1989): 10

giovedì 13 luglio 2017

.CS1. FS1 -2012

Fattore di Rischio = Fattore Storico dei Conflitti (FS.1) A.1 della Capacita Sicurezza CS.1

   Conflitto in corso = 0,5  (anno di riferimento 2012)
   Conflitti terminati da 1 anno (2011): 1
   Conflitti terminati da 2  (2010): 1,5
   Conflitti terminati da 3 (2009): 2
   Conflitti terminati da 4 (2008): 2,5
   Conflitti terminati da 5 (2007): 3
   Conflitti terminati da 6 (2006): 3,5
   Conflitti terminati da 7 (2005): 4
   Conflitti terminati da 8  (2004): 4,5
   Conflitti terminati da 9  (2003): 5
   Conflitti terminati da 10 (2002): 5,5
   Conflitti terminati da 11(2001):  6
   Conflitti terminati da 12 (2000): 6,5
   Conflitti terminati da 13 (1999): 7
   Conflitti terminati da 14 (1098): 7,5
   Conflitti terminati da 15 (1997): 8
   Conflitti terminati TRA 16-20 (1999-1992): 7
   Conflitti terminati da 21-25 (1991-1987): 7,5
   Conflitti terminati da 26-30 (1986-1982): 8
   Conflitti terminati da 31-35 (1981-1977): 8,5
   Conflitti terminati da 36-40 (1976-1972): 9
   Conflitti terminati da 41-45 (1971-1971): 9,5
Conflitti terminati tra 46-50 (ante 1970): 10

domenica 9 luglio 2017

Orizzonte Cina



Bentornati al bimestrale OrizzonteCina (ISSN 2280-8035). In questo numero articoli su:
•China 2025 e politiche commerciali: asimmetrie di potere e difficoltà nella cooperazione sino-europea | Giuseppe Gabusi e Giorgio Prodi
• La Belt & Road Initiative: oltre gli ostacoli alla cooperazione fra Cina ed Europa? | Yuan Li
• Controlli e regolamentazione dei capitali: un vincolo alla crescita degli investimenti diretti esteri? | Xavier Richet
• Pechino, tra ordine economico liberale e governance con “Chinese characteristics” | Anna Caffarena
• Europa&Cina | Il rilancio economico della Cina passa per la nuova Via della seta in Europa | Nicola Casarini e Lorenzo Bardia
• Cinesitaliani | Milano e Prato rappresentano davvero due diversi modelli di integrazione tra cinesi ed italiani? | Daniele Brigadoi Cologna
• China Media Observatory | Il manhua contemporaneo e la satira politica. Il “caso australiano” di Ba Diucao | Martina Caschera
• Recensione | Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, Chinamen: un secolo di cinesi a Milano | Giuseppe Gabusi

domenica 18 giugno 2017

Hon Kong. Venta anni infelici

Un compleanno non troppo felice per gli abitanti di Hong Kong, quello celebrato il 1° luglio scorso, a vent’anni dal ritorno dell’ex colonia britannica alla Cina continentale. In una città divisa tra sostenitori dell’indipendenza e della democrazia – che ancora rimpiangono le manifestazioni di piazza della rivoluzione degli ombrelli del 2014 -, e nazionalisti – quegli hongkonghesi che rivendicano con orgoglio la loro “cinesità” -, è stato accolto l’ospite d’onore: il presidente cinese Xi Jinping. L’anniversario, inoltre, ha offerto anche l’occasione per l’insediamento della nuova chief executive Carrie Lam, la filo cinese che ha ottenuto il comando dell’esecutivo della città lo scorso marzo.
Ingenti misure di sicurezza sono state applicate per la tre giorni della visita del leader della Repubblica popolare: per proteggere Xi e assicurare un clima di “festa” sono scese in campo oltre 11.000 forze dell’ordine hongkonghesi.
Nelle arterie della città si è respirata un’aria pesante e tesa. Da mesi, infatti, gli indipendentisti avevano promosso manifestazioni in segno di protesta contro il governo di Pechino e il nuovo ordine politico configuratosi con la recente vittoria di Carrie Lam. E gli arresti, ovviamente, non si sono fatti attendere.
La visita di Xi
Per Xi Jinping è stata la prima visita ad Hong Kong da quando è salito al potere: il presidente è apparso determinato nel difendere – se non promuovere – il sentimento di unione che vi è tra Pechino e l’ex colonia britannica. Durante una breve conferenza stampa tenutasi nella pista dell’aeroporto, Xi ha elencato le motivazioni della sua visita, finalizzata a mostrare la presenza concreta e solidale del governo cinese nella Regione amministrativa speciale di Hong Kong, definendone il futuro politico ed economico nel rispetto della formula “un Paese, due sistemi”, come sancito dalla Hong Kong Basic Law.
Ad anticipare le intenzioni di sinizzazione dell’hub finanziario è stato il Global Times, la costola del Quotidiano del Popolo, che ha sottolineato il ruolo di “super connettore” che Hong Kong può avere nello sviluppo e nel successo della Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta. E di certo non sarà passato inosservato il nuovo gioiello delsoft power cinese: un video realizzato dall’agenzia di stampa Xinhua che celebra, in chiave rap, il successo del sistema “un Paese, due sistemi”.
Il prosieguo della visita del presidente ha fornito l’occasione per mostrare i muscoli della macchina militare cinese e, forse, per intimidire i moti indipendentisti dell’ex colonia britannica: Xi ha visitato la base militare di Shek Kong (nelle vicinanze di Shenzhen) e ha risposto al saluto delle 3.1000 truppe dell’Esercito popolare di liberazione con un “Salve, compagni!”, mentre sfilava su una jeep scoperta.
Contemporaneamente, i media raccontavano anche del breve arresto degli esponenti della League of Social Democrats e del partito Demosisto (erede del movimento degli ombrelli), tra cui Joshua Wong, per aver manifestato la sera prima davanti alla Golden Bauhinia Statue, la statua d’oro che raffigura l’orchidea simbolo di Hong Kong (che proprio Pechino aveva regalato alla città dopo il ritorno alla madrepatria).
La strategia di Carrie Lam
La cerimonia di insediamento della nuova chief executive, organizzata non a caso nella giornata della celebrazione del ventennale del trasferimento della sovranità da Londra a Pechino, ha visto il passaggio di testimone dal governatore uscente Leung Chun-ying, elogiato da Xi per la gestione dei tumulti studenteschi del 2014, a Carrie Lam.
In un abito dalla foggia cinese, Carrie Lam ha illustrato, sotto gli occhi di Xi Jinping, il suo manifesto politico nel tentativo di arginare la rottura che si è creata tra la popolazione, in particolare la fascia più giovane, e l’establishment. La Lam ha invitato ad entrare a far parte della nuova squadra di governo ciascun rappresentante politico interessato a risolvere i problemi strutturali della città, a prescindere dallo schieramento. Il rapporto con Pechino e i moti indipendentisti passano in secondo piano se si considerano le problematiche che nel quotidiano affliggono gli hongkonghesi: la speculazione immobiliare, l’incremento della disoccupazione giovanile, la perdita del primato fiscale e commerciale, solo per citarne alcuni.
Dopo il giuramento della leader della Regione amministrativa speciale, il presidente cinese, nel suo discorso, ha fugato ogni dubbio sull’approccio di Pechino alla questione di Hong Kong, sottolineando la necessità di rafforzare il sistema educativo e scolastico attraverso lo studio e la comprensione della Basic Law e degli elementi culturali e storici nazionali. Xi ha sottolineato che le sfide allo status quo di Hong Kong non saranno tollerate e che qualsiasi azione che possa mettere in pericolo la sovranità e la stabilità della Cina sarà considerata “assolutamente inammissibile”.
L’ex colonia nella morsa cinese 
Hong Kong non è più l’oca d’oro del secolo scorso, quando Margaret Thatcher e Zhao Ziyang firmarono, nel 1984, la Dichiarazione congiunta sino-britannica, decretando il passaggio dalla sovranità britannica a quella cinese secondo la formula “un Paese, due sistemi”, nel 1997.
Allora il potere economico dell’hub finanziario avrebbe garantito la realizzazione delle riforme economiche di Deng Xiaoping. Un quadro che è tuttavia cambiato: se nel 1997 il Pil hongkonghese costituiva il 18,5% di quello cinese, attualmente ne rappresenta circa il 2,9%. La Regione amministrativa speciale dipende prevalentemente dalla Cina continentale per l’approvvigionamento alimentare, mentre l’80% della spesa turistica proviene dalle tasche dei cinesi della terraferma.
Le preoccupazioni di una prevaricazione di Pechino culminano nelle incertezze sulla vitalità di Hong Kong come centro finanziario e commerciale. Nel decennio scorso, ad esempio, il terminal container di Hong Kong era il più importante ed attivo al mondo; ora, il porto ha perso il suo primato mondiale, scendendo al quinto posto della classifica, dietro Shanghai, Singapore, Shenzhen e Ningbo.
I duri colpi inflitti all’economia della metropoli asiatica e la graduale erosione dei diritti civili portano Hong Kong sotto il cappello politico del Partito comunista cinese. Forse è proprio questo il successo della formula “un Paese, due sistemi” celebrata dal presidente Xi, tanto che le immagini delle gloriose proteste sotto gli ombrelli gialli sembrano già materiale d’archivio.

Nucleare sotto la lente

lla prova delle sanzioni
Corea del Nord: tra povertà e sviluppo nucleare
Francesco Celentano
31/05/2017
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La questione nordcoreana, in queste settimane oggetto dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, solleva una serie di problematiche insite nell’ordinamento internazionale, anzi tutto concernenti la liceità delle attività volte ad attivare o implementare programmi nucleari creati ufficialmente, come spesso spiegato dal regime alla guida della Corea del Nord, quale strumento di autotutela da potenziali attacchi esterni e che risultano, invece, come affermato nel marzo 2016 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, “a clear threat to international peace and security”.

In questa cornice s’inserisce il ruolo sanzionatorio svolto dall’Onu che, nel caso di specie, ha implementato, dal 2006, mediante atti di soft law e risoluzioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza, i propri sforzi per portare Pyongyang ad assumere un comportamento più dialogante fondato sulla diplomazia e non sulla minaccia dell’utilizzo di armi nucleari.

Sviluppo nucleare e arretratezza economico-sociale
La storia del nucleare nordcoreano inizia negli Anni ‘60 sotto la supervisione sovietica. A tal proposito giova ricordare che sino agli Anni ’90 Pyongyang appariva tendenzialmente dialogante, tanto da aderire, nel 1985, al Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) entrato in vigore nel 1970. Nel 1993, però, il regime comunicò la decisione di recedere dal Trattato, poi sospesa in cambio d’ingenti aiuti ricevuti dagli Stati Uniti di Bill Clinton e ufficializzata, infine, nel 2003.

Oltre che per il programma nucleare, il Paese asiatico, indipendente dall’ex potenza coloniale giapponese dal 1945, è noto soprattutto per il peculiare regime al governo, divenuto dinastico nel corso dei decenni, incentrato sulla famiglia Kim.

Al regime spetta il diritto, auto assegnatosi, di controllare l’esistenza dei 25 milioni di abitanti che, dal 1946, ricevono razioni di cibo stimate dalla Fao, in un rapporto del 2016, in 540 grammi al giorno, in cambio del lavoro nei campi e nelle fabbriche di proprietà dello Stato, godendo, tra l’altro, di un insolito diritto/dovere all’istruzione fortemente influenzata dall’esecutivo e basata sul culto della personalità del Kim di turno al potere.

I report pubblicati dalle agenzie specializzate Onu, Fao e Unicef in primis, descrivono un Paese arretrato non solo economicamente, ma anche, e soprattutto, culturalmente. Nel 2013, infatti, l’Unicef segnalava come, nonostante i progressi della scienza medica, la Corea del Nord fosse lo Stato con il tasso di mortalità infantile tra i più alti, mentre malaria e tubercolosi sono ancora all’ordine del giorno.

Arretratezza anche in agricoltura che, come segnalato dalla Fao nel già citato report, pur essendo l’attività economica principale, occupante più del 35% della popolazione, è svolta ancora senza l’ausilio di macchinari e di prodotti utili a garantire il rapido riutilizzo delle terre, risultando, tra l’altro, gravemente insufficiente rispetto al fabbisogno nazionale.

Una storia decennale di sanzioni internazionali
In questo desolante quadro socio-economico, il 14 ottobre 2006, dopo alcuni esperimenti nucleari condotti dalla Corea del Nord, il Consiglio di Sicurezza ha approvato la risoluzione 1718 con cui s’imponevano controlli doganali, il congelamento di risorse finanziarie all’estero e un embargo pressoché assoluto sulle armi chimiche e nucleari. Tale scelta sanzionatoria è stata poi ribadita in numerosi altri provvedimenti adottati dal Consiglio negli ultimi anni.

Il 2 marzo 2016, con la risoluzione 2270, ripresa ed ampliata a novembre dello stesso anno con la risoluzione 2321, il Consiglio, riaffermando la volontà di non colpire la popolazione, che secondo i Paesi componenti del consesso “have great unmeet needs”, ha imposto nuove sanzioni individuali, previsto la chiusura di società finanziarie estere che possano aiutare le operazioni militari del regime, implementato la vigilanza doganale e, tra le altre decisioni, previsto un nuovo e definitivo divieto di vendita di armi anche leggere.

La risoluzione ha previsto, inoltre, l’inedita possibilità di espellere i diplomatici nordcoreani qualora si ritenga che, grazie al loro status, eludano le previsioni sanzionatorie. Intanto, il rappresentante nordcoreano nell’Assemblea generale scriveva all’ex segretario generale Onu Banki-Moon che il programma nucleare sarebbe stato regolarmente implementato in quanto unica tutela dai fini espansionistici statunitensi che “minacciano costantemente” il territorio dello Stato.

Un futuro incerto
Questo complicato quadro giuridico e geopolitico si arricchisce, però, di una significativa novità: la recente elezione del democratico Moon Jae-in quale nuovo presidente della Corea del Sud, che sembra possa aprire uno spiraglio in questa decennale diatriba recentemente aggravata dalle rigide posizioni della nuova presidenza Usa.

Moon, infatti, ha previsto nel proprio programma elettorale il riavvio delle trattative con il Nord, richiamando il ricordo dei poco fruttuosi ma inediti Six Party Talks, fra le due Coree, Cina, Russia, Usa e Giappone, rendendosi pronto ad offrire aiuti, fino ad ora unico strumento utile quanto meno per avviare un dialogo, e promettendo di rivedere gli accordi decennali che pongono gli Stati Uniti quale Paese protettore del Sud, con una presenza di oltre ventimila soldati causa costante di dichiarazioni belligeranti del Kim di turno al potere.

A tal proposito non va dimenticato che il caso iraniano, simile per molti aspetti, ha raggiunto un punto di svolta, sia pur tra numerose criticità e tanti distinguo, grazie al dialogo. Qualcosa di troppo spesso escluso a priori, invece, nella vicenda nordcoreana.

Francesco Emanuele Celentano è dottorando di ricerca in Diritto internazionale e dell’Unione europea presso l’Università di Bari (Twitter @Cesco_Cele).

mercoledì 31 maggio 2017

Accordo Putin e Rahmon

Fra Tagikistan e Uzbekistan
Asia centrale: l’infinita Guerra fredda dei russi 
Marco Petrelli
29/05/2017
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Lungo i 1500 chilometri di confine tagiko-afgano, dagli anni Novanta è schierata la 201esima divisione dell'esercito russo, unità forte di 7 mila uomini che resterà impegnata fino al 2042, almeno secondo l'accordo al quale sono giunti a Dušanbe il presidente della Federazione russa Vladimir Putin e il suo omologo tagiko Emomali Rahmon il 27 febbraio scorso.

Non si tratta, però, di un'eredità della Guerra fredda: infatti, l'attenzione di Mosca per l'Asia centrale è motivata dal fatto che i confini meridionali della Federazione si incrociano con quelli delle giovani repubbliche tagika e uzbeka, le cui difficili condizioni sociali, economiche e di sicurezza interna facilitano il fiorire di illeciti che vanno dal contrabbando di droga al terrorismo.

Lotta al narcotraffico
Nel 2010, il direttore dell'United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc) aveva ricordato che il Tagikistan è la prima linea di difesa dal narcotraffico afgano, attività che alimenta un fiume di droga pronta a riversarsi in Russia e in Occidente.

Secondo i dati Unodc, infatti, circa il 20% dell'eroina e il 15% dell'oppio prodotti in Afghanistan passerebbero per le terre tagike, creando un indotto che frutta ai narcos un guadagno stimato in mezzo miliardo di dollari all'anno. Un grande business, dunque, le cui radici affondano nella debolezza stessa della repubblica tagika: il lungo conflitto interno seguito all'indipendenza dall'Unione Sovietica, la mancanza di un tessuto industriale sviluppato e la stessa orografia della nazione hanno impedito il pieno sviluppo di un Paese oggi fra i più poveri dell'Asia.

Tagikistan: un Paese in ginocchio
Nel suo ‘The World Factbook 2015’, la Central Intelligence Agency delinea così la situazione economica della repubblica centroasiatica: “Il Paese è povero e montagnoso con un'economia basata su estrazione mineraria, lavorazione dei metalli e agricoltura.

La guerra civile del 1992-1997 ha negativamente inficiato sul già debole settore produttivo, creando danni alla produzione industriale e agricola e, oggi, il Tagikistan è una delle 15 ex repubbliche sovietiche con il Pil più basso. Meno del 7% del territorio è arabile e il cotone è il raccolto più importante. Il Tagikistan importa circa il 60% delle sue derrate alimentari […]. L'industria consiste principalmente in piccole e antiquate fabbriche di lavorazione del cibo e nell' industria leggera, grandi impianti idroelettrici e un grande impianto di alluminio, attualmente in funzione ben al di sotto della sua capacità”.

Difficoltà e carenze che spingono molti cittadini ad intraprendere altre strade per assicurarsi un futuro: “Mancando occasioni di impiego, più di un milione di cittadini tagiki lavora all'estero (dei quali il 90% in Russia), sostenendo le famiglie con rimesse di denaro che corrispondono a quasi il 50% del Pil. Alcuni esperti stimano il valore (del flusso, nda) dei narcotici che attraversano il Tagikistan in circa il 30-50% del Pil”.

Di fronte ad un tessuto industriale molto lacerato, ad una povertà diffusa e alla dipendenza dall'estero sia in termini di importazioni, sia perché il reddito di intere famiglie proviene dal denaro che i congiunti emigrati inviano a casa, il mercato della droga può rappresentare per alcuni una forma di sostentamento. E non solo come traffico: l'oppio di origine afgana viene raffinato in laboratori che sorgono in Tagikistan e nel vicino Uzbekistan, altro Paese che Mosca non perde di vista.

Uzbekistan: jihad e immigrazione
Qui, infatti, altri reparti militari russi si occupano dell'addestramento dell'esercito e della polizia: “La Russia addestra e sostiene le forze uzbeke, coinvolgendole anche in operazioni di peacekeeping.

L'Uzbekistan partecipa a diverse iniziative della Comunità degli Stati Indipendenti (l'organizzazione con sede a Minsk fondata nel 1991 e che comprende Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan, Moldavia, Russia, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, nda) volti a rafforzare la sicurezza collettiva e ad incrementare la cooperazione economica fra i membri”, scrive Peter Truscott in Russia First: Breaking with the West del 1997. Una linea di law enforcement e di stretta collaborazione diplomatica ed economica che Putin ha voluto riconfermare nel corso del già citato viaggio in Asia centrale del febbraio scorso, quando ha incontrato Shavkat Miromonovich Mirziyoyev, nominato nuovo presidente dell'Uzbekistan in seguito alla morte del predecessore Islam Karimov.

Membro della Comunità economica euroasiatica (Eaec) dal 2015, Tashkent mantiene legami forti con Mosca, ma cerca di guardare anche oltre: Mirziyoyev ha recentemente annunciato un piano di riforme economiche che, oltre una riduzione della tassazione, punta anche alla possibilità di aprirsi ad opportunità nuove, attirando dall'estero capitali ed investimenti capaci di rimettere in moto l'industria uzbeka.

D’altronde, come il Tagikistan, l’Uzbekistan ha un reddito pro capite estremamente basso (meno di 2000 dollari all'anno) ed è esposto al rischio del proliferare del narcotraffico e di altri illeciti, fra i quali anche il terrorismo.

L’Imu (Islamic Movement Uzbekistan) ed altre cellule jihadiste già in passato hanno inviato miliziani a combattere in Afghanistan prima contro l'Armata Rossa e poi contro gli americani, mentre, più di recente, a prendere parte al conflitto civile in Siria.

Alla droga e al terrorismo si aggiunge, inoltre, il problema dell'immigrazione clandestina, con milioni di tagiki e uzbeki che vivono e lavorano in Russia spesso in clandestinità e sfruttati da organizzazioni criminali. Va da sé, quindi, che immigrazione irregolare, eroina e pericolo terrorismo siano fattori sufficienti a motivare l'attenzione, militare e diplomatica, che il Cremlino mostra nei confronti della cintura meridionale dell'ex impero sovietico.

Marco Petrelli, Laureato in Storia all'Università degli Studi di Firenze è giornalista e collaboratore di testate, online, nazionali per le quali approfondisce argomenti legati alla politica internazionale e alla difesa. È autore di due libri sull'Aeronautica Nazionale Repubblicana.

martedì 30 maggio 2017

Impasse tra le due Cine

Primo anno di presidenza per Tsai
Taiwan: economia in crisi e gelo con Pechino
Stefano Pelaggi
23/05/2017
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Ad un anno dalla storica elezione nella quale Tsai Ing-wen si aggiudicò, con una nettissima maggioranza, la presidenza di Taiwan, la luna di miele tra la leader del Democratic Progressive Party (Dpp) e la popolazione taiwanese sembra essere in crisi.

Da alcuni mesi, numerosi sondaggi rilevano un basso tasso di approvazione per l’operato di Tsai. Le manifestazioni e le proteste contro il governo sono frequenti, perlopiù legate al tema della riforma pensionistica e della tutela ambientale nelle contee abitate dalla popolazione aborigena.

I rapporti con Pechino sono ai minimi storici: non ci sono praticamente contatti diretti con la Repubblica popolare cinese, che ha descritto la situazione come una diretta conseguenza della mancata accettazione del cosiddetto "Consenso del 1992" da parte della presidente Tsai.

I cinesi hanno deliberatamente scelto di congelare le comunicazioni con l’esecutivo di Taipei e, contestualmente, hanno avviato una politica di ostracismo a livello internazionale, culminata con il mancato invito di Taiwan all’incontro dell’Assemblea mondiale della sanità (Ams, l’organo decisionale dell’Oms)che ha luogo dal 22 al 31 maggio a Ginevra.

Una situazione, questa, che sta suscitando diverse polemiche a livello internazionale per la evidente contraddizione con la natura apolitica della stessa Ams e perché la delegazione taiwanese partecipava, con lo status di osservatore, alla riunione annuale da ormai otto anni.

Crescita in calo e rapporti con la Cina
Anche il flusso di turisti cinesi a Taiwan - ma si trattadi un fenomeno esteso ad altri Paesi dell'area - ha subito un arresto colpendo molte piccole e medie imprese, mentre la partecipazione di Taipei a numerosi incontri internazionali è stata di fatto impedita da Pechino.

Tante aziende taiwanesi continuano ad operare in Cina senza aver subito alcun tipo di restrizione, ma i timori degli imprenditori legati ad una possibile recrudescenza delle relazioni tra i due Paesi sono crescenti. L’economia non mostra più i vertiginosi tassi di crescita degli scorsi decenni. La presidente Tsai ha recentemente annunciato un ambizioso piano di sviluppo per rilanciare l’economia taiwanese, ma la crisi è scollegata da motivazioni politiche o di attrito con Pechino.

Si tratta di una flessione dovuta, soprattutto, al calo della domanda cinese di tecnologia, legato all'evidente rallentamento dell’economia di Pechino, alla riduzione dell’obsolescenza dei prodotti e ad una saturazione del mercato. Le esportazioni di Taipei ammontano a più di due terzi della produzione economica del Paese, il 50% dei quali verso la Cina e Hong Kong. Più della metà delle esportazioni sono legate alla componentistica digitale, settore nel quale Taiwan sta scontando la concorrenza con gli altri Paesi della regione, Vietnam in testa.

Il governo vuole ridurre la dipendenza dalla produzione elettronica e sta investendo in settori quali la difesa, la robotica e le biotecnologie. Si tratta di aree che necessitano di massicci investimenti nella ricerca e che possono dare dei risultati solo nel medio e lungo termine; fino ad oggi, i maggiori successi sono arrivati dalla produzione, mentre gli obiettivi legati all’innovazione non hanno ancora dato i frutti sperati.

Anche le criticità interne sono numerose: i salari sono bassi, in particolare se confrontati con il mercato immobiliare di Taipei e delle principali città, che invece registra tassi di crescita esponenziali. L’occupazione giovanile è in declino, i tassi di natalità tra i più bassi al mondo e l’emigrazione qualificata verso l’estero ormai una costante.

Kuomintang, ritorno al potere?
La stabilità dell’esecutivo non è a rischio per l’immediato futuro. Lo scetticismo nei confronti del Dpp non ha finora portato alcun tipo di vantaggio in termini di popolarità al Koumintang (Kmt). Il più antico partito cinese - al governo di Taiwan dal 1949 al 2000 e, poi, dal 2008 al 2016 - è in profonda crisi dopo la sconfitta elettorale dello scorso anno e, sino ad ora, non si è mostrato capace di interpretare le sfide del futuro.

In particolare, non è riuscito a trasformarsi in un partito moderno, abbandonando le eredità dello scorso secolo, nel quale, comunque, ha promosso e guidato la piena democratizzazione del Paese. Il Kmt è percepito dalla maggioranza dei taiwanesi come il partito più adeguato per risollevare le sorti dell’economia, oltre che l’unicocapace di riaprire il dialogo con Pechino. Una dinamica che potrebbe essere decisiva in caso di un peggioramento della situazione economica.

Le fasce sociali che alle elezioni hanno sostenuto il Dpp - in particolare i giovani -, pur avendo mostrato segnali di delusione rispetto alle mancate o parziali realizzazioni di alcune promesse elettorali, non sembrano tuttavia disposte a scegliere un partito come il Kmt, apertamente pro-Cina.

Tecnologia e diritti umani
Taiwan, nonostante queste criticità, ha la forza di una vivace democrazia liberale e di una economia dinamica che rappresenta, tra l'altro, un nodo cruciale per la fornitura globale di tecnologia: realtà come la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company e la Foxconn sono tuttora le più grandi aziende mondiali rispettivamente nel settore dei semiconduttori e dei componenti elettronici.

Il Paese è una parte fondamentale della catena di fornitura globale di tecnologia e il Pil pro capite 2016, a parità di potere d'acquisto, è tre volte quello cinese. Ma Taipei rappresenta anche un esempio per la regione: le sue istituzioni democratiche hanno dimostrato la capacità di garantire un dibattito interno pienamente libero e una rappresentatività per tutti i cittadini.

Taiwan risulta da anni al primo posto tra tutti i Paesi asiatici sia nella classifica di Freedom House sul rispetto dei diritti umani, sia in quella dedicata al grado di libertà accordato ai giornalisti realizzata da Reporter Senza Frontiere. Al di là delle graduatorie, la democrazia taiwanese ha raggiunto un livello di maturità unico nel continente asiatico, e il governo cercherà di utilizzare l’evoluzione della sua società aperta proprio per aprire un dialogo con gli altri Paesi della regione.

Proiezione nel sud-est asiatico
Tsai vuole soprattutto diminuire la dipendenza economica dalla Cina e cercare una proiezione verso il sud-est asiatico, sia per la delocalizzazione delle aziende sia per le esportazioni. La sua New Southbound Policy è un ambizioso piano mirato alla costruzione di una fitta rete di interconnessioni economiche e culturali con i paesi dell'Asia e del Pacifico che, rispetto agli analoghi piani dei suoi predecessori Lee Teng-hui e Chen Shui-bian, è incentrato sui rapporti culturali e personali prima che economici. Quindi valori democratici e rapporti people-to-people come vettori del soft power taiwanese nel sud-est asiatico, una grande sfida con cui Taipei sta cercando di riposizionarsi nell'area.

La New Southbound Policy rappresenta lo snodo cruciale del futuro dell’esecutivo di Tsai Ing-wen: un successo nella proiezione di Taiwan nell’area Asia-Pacifico potrebbe infatti garantire all'isola un nuovo ruolo nel quadro geopolitico della regione in cui si giocherà buona parte dei destini mondiali del XXI Secolo.

Stefano Pelaggi è Docente a Sapienza Università di Roma e Research Fellow presso il Centre for Chinese Studies a Taipei.

martedì 23 maggio 2017

Nord Corea e La Russia di Putin

Escalation Trump vs Kim
Nord Corea: tutte le oscillazioni di Mosca 
Giovanna De Maio
21/05/2017
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“Siamo categoricamente contrari all’ampliamento del club delle potenze nucleari. Lo consideriamo controproducente, dannoso e pericoloso”, ha dichiarato Vladimir Putin da Pechino. Il presidente russo ha però anche tenuto a precisare che Mosca considera altresì le intimidazioni rivolte alla Corea del Nord come “inaccettabili”.

Ciò potrebbe sorprendere, se consideriamo che la distanza tra la città russa di Vladivostok e il sito nucleare nordcoreano di Punggye-ri non supera i 400 chilometri.

Se in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu la condanna dell’ultimo test missilistico ordinato da Kim Jong-un è stata unanime, è tuttavia difficile stabilire fino a che punto la Russia intenda spingersi su questo dossier. L’opposizione di Mosca verso le sanzioni - e la preferenza di una soluzione diplomatica - è ormai un atteggiamento tipico, adottato in diverse occasioni e che lascia spazio ad ambiguità. Quel che è certo è che il dilemma di Putin è di natura politica: collaborare o meno con l’Occidente - e a che prezzo - o insistere sull’unicità del proprio ruolo e creare un polo di interessi alternativo.

I legami con Pyongyang…
Alcuni analisti che si occupano di Nord Corea sostengono che semmai Pechino dovesse approvare sanzioni contro la Corea del Nord, quest’ultima non avrebbe alcun problema a rivolgersi a Mosca. Tra Mosca e Pyongyang al momento non è stato registrato alcun incremento dell’interscambio commerciale, ma si intensificano i collegamenti via mare e via terra con la ferrovia che collega Khasan, sul confine orientale russo, e il porto norcoreano di Rajinper il trasporto di carbone, metalli e prodotti petroliferi.

La Russia è un’importante fonte di valuta estera per la Corea del Nord, grazie alla presenza a Vladivostok della più grande comunità di nordcoreani all’estero, le cui rimesse ammontano a decine di migliaia di dollari al mese. I legami tra i due Paesi non sono, però, sempre cristallini: un recente report delle Nazioni Unite denuncia le attività della compagnia Kumsan che partirebbero dall’ambasciata nordcoreana a Mosca.

Tali elementi, tuttavia, non sembrano sufficienti a giustificare una protezione russa a vantaggio di Pyongyang. Stando al tasso di cambio molto basso e inaffidabile della valuta nordcoreana, la Russia dovrebbe sostenere il commercio con Pyongyang con sussidi e riserve federali, circostanza piuttosto improbabile.

… e quelli con Seul
Ben diversa è invece la sinergia con la Corea del Sud. Al forum economico di Vladivostok dello scorso settembre sono stati firmati molti accordi nel settore energetico e Seul ha chiesto di aderire all’accordo di libero scambio nell’ambito dell’Unione economica euroasiatica. Gli investimenti delle società sudcoreane nell’economia russa superano i 2,3 miliardi di dollari, mentre Mosca, grazie ai giacimenti Sakhalin-2, ha consegnato a Seul circa 1,5 milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto.

Nel corso del summit, il presidente Putin aveva dichiarato che la Russia si sarebbe opposta al programma nucleare di Pyongyang, ma allo stesso tempo di ritenere che una soluzione dovesse essere ricercata nel quadro diplomatico specifico dell’Asia nordorientale, cercando di ridurre il livello di confronto militare.

Convergenze con la Cina 
Per molto tempo la Corea del Nord ha tenuto un piede in due scarpe per ottenere maggiori vantaggi a seconda dei diversi settori di cooperazione, con l’intento di mettere Pechino e Mosca in competizione per il ruolo di punto di riferimento politico ed economico contro l’isolamento. La Cina esporta circa 500 mila tonnellate di petrolio e 270 mila tonnellate di prodotti petroliferi all’anno, secondo le fonti dell’industria petrolifera cinese. Quando due anni fa la Cina dato uno stop alle esportazioni di carburante per gli aerei, la Russia ha preso il suo posto.

Se sul piano formale Mosca e Pechino condannano i test della Corea del Nord, sul piano pratico entrambe propendono per una soluzione diplomatica e sembrano opporsi a nuove sanzioni o all’azione unilaterale di Washington.

Opposizione alle sanzioni
La contrarietà della Russia alle sanzioni come strumento di soluzione delle controversie non è una novità, se pensiamo alla posizione mantenuta anche rispetto a Iran e Siria, ma soprattutto alle sanzioni internazionali che la riguardano e che hanno fatto seguito all’intervento in Ucraina (misure di cui Mosca mirerebbe a ottenere la rimozione).

L’atteggiamento russo a riguardo non sembra dettato da motivazioni economiche o dal timore dello scoppio di una guerra con il coinvolgimento degli Stati Uniti nel suo cortile asiatico: la Russia possiede basi militari relativamente vicine al confine nordcoreano, da cui far partire missili balistici a corto e medio raggio; inoltre la Corea del Sud ospita già molte basi militari statunitensi.

Da un lato c’è la naturale opposizione russa nei confronti di un cambiamento di regime in Corea del Nord e dell’unilateralismo americano che di fatto impedisce a Mosca di esercitare il ruolo geopolitico tanto agognato dal crollo dell’Unione sovietica; i buoni rapporti con Pyongyang la indurrebbero, poi, ad escludere l’eventualità di essere possibile bersaglio del regime di Kim Jong-un.

Dall’altro, però, nel lunghissimo periodo, la Russia potrebbe beneficiare della riduzione e forse della riunificazione delle due Coree, sia dal punto di vista economico sia politico (a differenza della Cina, che vedrebbe una Corea unita come un competitor). Lasciare questo compito agli americani non sarà facile, ma al momento la Russia è impegnata su fronti già piuttosto dispendiosi e sarebbe difficile liberare risorse.

Se alla luce di ciò un atteggiamento attendista è comprensibile, è altresì probabile che presto gli eventi prenderanno una svolta e la Russia rischia di restare fuori dai giochi.

Giovanna De Maio è dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale; è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI.

Cina: La via della Seta II e L'Italia

Al Forum di Pechino
Cina: l’Italia nella nuova Via della Seta
Nicola Casarini
17/05/2017
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Ci sono conferenze che fanno la storia. È sufficiente evocare, per esempio, nomi quali Bretton Woods, oppure i Trattati di Roma, e immediatamente il pensiero corre a quei consessi che hanno fondato l’ordine monetario internazionale nel primo caso, oppure gettato le basi della costruzione europea nel secondo.

Anche il Belt and Road Forum for International Cooperation che si è tenuto a Pechino il 14 e 15 maggio resterà negli annali. La Cina è stata capace di far convergere nella capitale 29 capi di Stato e di governo - tra cui il premier italiano Paolo Gentiloni - e i capi delle più importanti organizzazioni internazionali (inclusi il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, il managing director del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, e il direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio, Roberto Azevêdo) per quello che è probabilmente il più importante evento diplomatico dell’anno, organizzato a poca distanza dal G7 di Taormina e dal G20 di Amburgo.

Il piano Marshall di Pechino
L’obiettivo dell’incontro è stata la promozione della Belt and Road Initiative (Bri) ideata dal Presidente cinese Xi Jinping per stimolare la connettività tra la Cina e (per ora) 65 Paesi del territorio euroasiatico e africano - ma anche oltre, visto che alcuni Stati sudamericani ne vogliono far parte - attraverso la promozione degli scambi commerciali e culturali, gli investimenti in vari settori, la costruzione di reti infrastrutturali e piattaforme di cooperazione. Il tutto inquadrato nella componente terrestre attraverso la Silk Road Economic Belt e marittima con la Maritime Silk Road.

La rilevanza del Forum sta nel fatto che attraverso di esso la Cina si propone di costruire un’alternativa multilaterale agli attuali consessi internazionali creati all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale e tradizionalmente dominati dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Non per niente John L. Thornton, co-chairman della Brookings Institution, durante il suo intervento al Belt and Road Forum ha associato l’iniziativa del presidente cinese Xi Jinping al Piano Marshall che ha ricostruito l’Europa, con la differenza, però, che - calcolato ai dollari attuali - l’impegno finanziario di Pechino è 12 volte superiore alle somme stanziate dagli americani all’indomani della seconda Guerra mondiale.

L’importanza del Forum
Non è un caso che proprio sabato 13 maggio, il giorno prima che si aprisse il Forum, la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib, la banca infrastrutturale per gli investimenti asiatici con sede a Pechino è stata creata appositamente per promuovere la Bri e che è alternativa alla Banca mondiale con sede a Washington) abbia ammesso 7 nuovi Paesi, portando il totale dei suoi membri a 77. Tra questi anche l’Italia, che è uno dei paesi fondatori dal marzo 2015.

Anche i tempi (alquanto lunghi) assomigliano a quelli del Piano Marshall. Il Forum della Belt and Road dovrebbe tenersi ogni due anni (il prossimo è previsto per il 2019), per fare il punto dell’avanzamento dei progetti e delle iniziative legate alla costruzione della Nuova Via della Seta, e dovrebbe durare - nelle intenzioni di Xi, ispiratore di questo progetto - almeno per i prossimi tre decenni, concludendosi nel 2049, in occasione del centenario della fondazione della Repubblica popolare cinese. Per quella data, la Cina spera di aver creato, attraverso la realizzazione della Belt and Road, un sistema di partenariati e alleanze che farebbero di Pechino quello che Washington è stato in questi ultimi 70 anni: il perno dell’ordine mondiale.

Riuscirà la dirigenza cinese in questo tentativo cosi grandioso e audace al tempo stesso? Difficile dirlo ora. Molte sono le voci critiche che si sono levate negli ultimi tempi, sia fuori che dentro la Cina. È certo, però, che Pechino è intenzionata ad inondare di investimenti quanti accetteranno di far parte di questo progetto.

La potenza finanziaria che si sta mettendo in moto potrebbe raggiungere i 4-6 trilioni di dollari nell’arco dei prossimi tre decenni. Una somma enorme, che nessun altro paese al mondo riuscirebbe, in questo momento, anche solo a immaginare di poter stanziare. E parte di questi fondi potrebbe essere intercettati anche dall’Italia, visto che il Mediterraneo è considerato il punto terminale della Via della Seta marittima.

Ruolo (e mancanze) dell’Italia
Gli investimenti cinesi sul territorio italiano sono aumentati considerevolmente negli ultimi anni, in concomitanza con il lancio della nuova Via della Seta. Basti pensare che l’acquisizione di Pirelli da parte di Chem China fu fatta, per circa il 25%, attraverso il Silk Road Fund, un fondo cinese creato per promuovere gli investimenti legati alla Belt and Road Initiative. Ed anche le acquisizioni cinesi delle squadre di calcio del Milan e dell’Inter sono considerate, a Pechino, tasselli della costruzione della connettività euro-asiatica.

Il ruolo dell’Italia nella costruzione della Via della Seta è stato uno dei punti del colloquio bilaterale tra Gentiloni e Xi, il 15 maggio. Peccato, però, che il premier italiano non sia potuto essere presente alla cerimonia di apertura del Belt and Road Forum, essendo arrivato a Pechino solo nel pomeriggio di domenica. È mancata pertanto la voce dell’Italia, mentre gli altri grandi Paesi europei, tra cui Germania, Francia e Gran Bretagna, avevano mandato propri rappresentanti a parlare la mattina, consci dell’importanza di essere presenti in quel momento storico.

Alcuni di loro, come il ministro tedesco degli Affari economici Brigitte Zypries, hanno sottolineato le criticità del progetto cinese, facendo capire in tal modo che Berlino è sì pronta ad approfittare delle innumerevoli opportunità della Belt and Road, senza tuttavia rinunciare ai propri valori. Sarebbe stato bello ascoltare anche la voce dell’Italia in proposito. Speriamo nel 2019.

Nicola Casarini è coordinatore dell’area di ricerca Asia dello IAI e ha partecipato come delegato al Belt and Road Forum di Pechino.

Cina: La via della Seta I

Al Forum di Pechino
Nuova Via della Seta: dubbi Ue, India contraria
Nello del Gatto
18/05/2017
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Dovrà essere una vera e propria nuova Via della Seta la “cintura” fortemente voluta dal presidente cinese Xi Jinping e che dovrà collegare Europa, Asia e Africa. Un progetto ambizioso e destinato, almeno nelle intenzioni ufficiali proclamate dal leader cinese, a “creare una strada di pace e prosperità”.

Pechino ha intascato un significativo successo con la conclusione del Belt and Road Forum for International Cooperation, tenutosi nei giorni scorsi nella capitale cinese, e a cui hanno partecipato una trentina tra capi di Stato e di governo, delegati ad alto livello, vertici della Banca Mondiale, dell’Onu e del Fondo monetario internazionale.

Una rete di strade, porti e ferrovie
Un appuntamento diplomatico importante, che affonda le sue radici in quattro anni di lavoro e preparazione. È infatti già dal 2013 che il presidente cinese Xi parla di questo progetto, dell’idea cioè di creare una sorta di reticolo, fatto di strade, linee ferroviarie e porti per collegare tre continenti.

L’idea porta la firma della Cina, e questo è innegabile, ma Xi, pur non sconfessando la paternità dell’immensa opera, non ha mancato, in più di una occasione, di affermare che la “cintura” dovrà essere un progetto corale, capace di coinvolgere a vari livelli tutti gli Stati interessati e di portare benefici a tutti, riducendo le distanze - non tanto e non solo fisiche, ma anche culturali e commerciali -, tra popoli e Paesi.

Una Cina sempre più aperta al mondo globalizzato, dunque. Il mastodontico progetto dovrebbe prevedere due percorsi principali: uno di tipo prevalentemente ferroviario, che collegherebbe Asia, Medio Oriente, Russia ed Europa. L’altro, “marittimo”, che andrebbe dalle coste della Cina verso l'Europa.

Anche l’Italia avrà un ruolo importante, specie nel settore dedicato agli investimenti portuali, come ha confermato il premier Paolo Gentiloni. “È importante che il presidente Xi abbia confermato l’intenzione di inserire i porti italiani tra quelli sui quali investire come terminali della nuova Via della Seta. In particolare - ha spiegato il presidente del Consiglio italiano -, è previsto il potenziamento dei porti di Trieste e Genova, collegati al sistema ferroviario e autostradale che raggiunge il cuore ricco dell’Europa”.

Oltre Fmi e Banca mondiale
Pechino sembra aver pensato praticamente a tutto, a cominciare dal piano economico e finanziario. Xi Jinping ha parlato di un costo complessivo di circa 124 miliardi di dollari. Un ruolo centrale, in questo ambito, sarà rivestito dall’Aiib, la Banca asiatica per gli investimenti in infrastrutture, che si è resa disponibile a finanziare progetti di tipo infrastrutturale concedendo prestiti ai Paesi aderenti.

Questo, secondo quanto spiegato dai cinesi, consentirebbe di bypassare le istituzioni finanziarie tradizionali come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale. Insomma, almeno sulla carta, la Road and Belt Initiative sembra avere tutti i requisiti per essere un successo e per portare ancora di più la Cina sul tetto del mondo. In questo, Xi può vantare l’appoggio della Russia e, inaspettatamente, persino degli Stati Uniti.

Fra Washington, Bruxelles e Nuova Delhi
Nonostante la politica fortemente protezionista della gestione Trump, il cui motto è “America first”, il delegato statunitense, il consigliere della Casa Bianca Matt Pottinger, ha fatto sapere che Washington “ha accolto con favore gli sforzi compiuti dalla Cina per promuovere il piano infrastrutturale nell’ambito del quale le società americane potranno offrire servizi di grande valore”.

Requisiti per il successo presenti sulla carta, però, dicevamo. Pur professando un’adesione di massima, l’Unione europea (Ue) ha infatti sollevato una serie di perplessità. A essere evidenziata negativamente è principalmente la mancanza di attenzione, nel progetto, per le tematiche ambientali (e questo, trattandosi della Cina, non è che meravigli eccessivamente) e di sostenibilità e trasparenza.

Esplicitamente contraria alla Belt and Road Initiative, invece, è l’India (che non ha proprio partecipato al Forum con alcuna sua delegazione): se da un lato Nuova Delhi si oppone ad una visione troppo sino-centrica dell’Asia (e persino del mondo), dall’altro è perplessa in relazione al passaggio di parte della “cintura” nella regione del Kashmir, tuttora contesa con il Pakistan.

La Cina, tuttavia, non sembra preoccuparsi eccessivamente né della posizione indiana, anche perché la contrarietà di Nuova Delhi appare praticamente irrilevante, vista invece l’adesione di tutti gli altri Paesi asiatici (fatta eccezione per il Bhutan, che però con Pechino non ha intrattiene rapporti diplomatici), né di eventuali altri “intoppi”. A chiusura del vertice, Xi Jinping ha infatti detto “che il progetto del secolo porterà nuovo splendore alla civilizzazione umana”.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo (Twitter: @nellocats).

sabato 13 maggio 2017

Nuove Prospettive in Corea

Elezioni presidenziali
Corea: Moon vuole la distensione fra Sud e Nord
Lorenzo Mariani
11/05/2017
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La vittoria di Moon Jae-in alle elezioni presidenziali di martedì scorso segna il ritorno dei liberali alla guida della Corea del Sud dopo quasi dieci anni di dominio conservatore. Con un’affluenza di circa il 77%, i sudcoreani hanno risposto alle crescenti sfide interne e alla problematica questione regionale decidendo di dare fiducia all’uomo che aveva promesso una svolta radicale nella conduzione politica del Paese.

Con lo scemare del fervore post-elettorale, a Moon, che si insedierà mercoledì 17, toccherà dimostrare la concreta applicabilità ed efficacia delle molte riforme promesse nel corso dei mesi scorsi. Nonostante gli stringenti problemi interni, gli occhi della comunità internazionale sono ora puntati sulla Corea del Sud per vedere se il nuovo presidente saprà realmente portare Kim Jong-un al tavolo dei negoziati.

Durante la breve campagna elettorale che ha fatto seguito all’impeachment dell’ex presidentessa Park Geun-hye e che ha portato al risultato di martedì, Moon Jae-in aveva delineato, senza scendere troppo nei dettagli, la sua strategia per riportare la Corea del Nord al dialogo e cercare di evitare quel confronto che solo qualche settimana fa veniva dato per imminente.

La Sunshine Policy 2.0
L’apertura di Moon nei confronti di Pyongyang ed il suo piano per una “riunificazione economica” tra i due Paesi hanno portato nei giorni scorsi diversi analisti a parlare di una possibile rivitalizzazione della Sunshine Policy, la politica di cooperazione tra il Sud e il Nord della penisola coreana condotta tra il 1998 ed il 2007 dai presidenti progressisti di Seoul Kim Dae-jung e RohMoo-hyun.

Il neoeletto presidente, che in passato ha lavorato proprio sotto il governo Roh, ha annunciato che il suo primo atto in qualità di capo dello Stato sarà la riapertura del complesso industriale di Kaesong, situato sul versante nordcoreano del 38° parallelo e chiuso a febbraio dello scorso anno dall’allora presidentessa Park, in risposta alle continue provocazioni da parte di Pyongyang.

Il progetto di cooperazione di Kaesong era stato avviato su iniziativa sudcoreana nel 2004 con l’idea di ingaggiare la Corea del Nord dal punto di vista economico e creare un canale di comunicazione preferenziale con Pyongyang su temi non marcatamente politici. Secondo la strategia di Seoul, la cooperazione economica avrebbe spinto Kim Jong-il, padre dell’attuale leader, ad iniziare il processo di riforma del Regno eremita necessario per uscire dalla stagnazione dando così il via al lungo percorso volto a riequilibrare il divario economico tra i due Paesi (soprattutto in vista di una possibile riunificazione).

Seppur con diverso entusiasmo,i successivi governi al potere a Seoul si sono impegnati a fornire incentivi alle 124 imprese sudcoreane che hanno deciso di investire nel complesso industriale, il quale ha generato 54.000 posti di lavoro per i cittadini nordcoreani ed un introito complessivo per Pyongyang di circa 100 milioni di dollari.

Moon Jae-in, che ha fatto della riapertura di Kaesong uno dei principali punti del suo programma elettorale, ha annunciato di voler lanciare un nuovo progetto per l’allargamento del sito industriale, cercando al contempo nuovi investitori intenzionati a finanziare l’iniziativa.

Le sfide alla strategia del presidente
La presunta Sunshine Policy 2.0 di Moon Jae-in è stata accolta positivamente non solo dalla popolazione sudcoreana, ma anche dalle diverse voci che negli scorsi anni avevano condannato l’atteggiamento di chiusura nei confronti del Nord dimostrato dalle precedenti amministrazioni. Tuttavia, le sfide che si pongono di fronte alla strategia del nuovo presidente sono molte.

Ad interferire con i progetti di Moon vi è in primo luogo la natura stessa del complesso di Kaesong. Il sito industriale è un progetto spiccatamente politico ed è, dunque, incline a risentire degli effetti delle continue tensioni tra i due Paesi della penisola. Kaesong rappresenta un investimento molto rischioso per le imprese sudcoreane, le quali hanno infatti registrato solo nello scorso anno una perdita di circa 1.300 miliardi di dollari a causa della chiusura imposta a febbraio. Nonostante il governo di Seoul abbia promesso di risarcire le perdite, ad oggi il consorzio della aziende che operano a Kaesong ha ricevuto in compensazione soltanto il 32% del totale.

Sono poi molti i dubbi sulla reale efficacia del progetto nell’imporre dei cambiamenti sostanziali alla Corea del Nord sotto il profilo economico. L’effetto spill-over all’interno dell’economia nordcoreana degli introiti generati dalla collaborazione con le aziende straniere è fortemente limitato dal governo di Pyongyang: le materie prime utilizzate a Kaesong vengono spesso importate, i beni finali non vengono commercializzati all’interno del Paese e i salari percepiti dai cittadini nordcoreani non vengono versati direttamente ai lavoratori ma trattenuti dalle autorità. Secondo un recente studio rilasciato dal ministero per la Riunificazione sudcoreano, circa il 70% di questi introiti sarebbe stato dirottato, nel corso degli anni, verso il finanziamento del programma militare di Pyongyang.

L’incognita Trump
Ai problemi insiti nel progetto stesso di distensione fra Nord e Sud si aggiunge, poi, un’altra importante variabile: Donald Trump. Moon rischia infatti di entrare in collisione con il presidente americano su diversi fronti, e non bisogna dunque dare per scontato il supporto degli Stati Uniti al progetto politico del nuovo presidente.

Moon Jae-in ha ripetutamente criticato lo schieramento dello scudo missilistico Thaad, di cui non è intenzionato a sostenere i costi, e non intende rinegoziare il trattato di libero scambio tra Seoul e Washington. Sullo stesso fronte spinge anche la Cina, primo partner commerciale della Corea del Sud, con cui Moon vorrebbe ricucire i rapporti dopo le ritorsioni economiche di Pechino causate dal dispiegamento del Thaad.

Nonostante i diversi ostacoli che il nuovo leader si troverà di fronte sin dal primo giorno alla Casa Blu, con la sua elezione la Corea del Sud ha dimostrato ancora una volta di essere intenzionata a porgere una mano a Pyongyang per una normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Purtroppo non conosciamo ancora i pensieri di Kim Jong-un a tal riguardo.

Lorenzo Mariani è assistente alla ricerca dell’area Asia dello IAI, dove si occupa di Relazioni internazionali dell’Asia orientale.

mercoledì 10 maggio 2017

Corea del sud: un voto senza sorprese

Elezioni presidenziali
Corea del Sud al voto fra sfide e minacce
Lorenzo Mariani
07/05/2017
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All’ombra delle continue provocazioni militari a cui Pyongyang e Washington ci hanno abituato nel corso degli ultimi mesi, martedì 9 maggio i sudcoreani saranno chiamati a scegliere il loro prossimo presidente in uno dei momenti più delicati nella storia politica del Paese.

Dopo lo scandalo per corruzione ed abuso di potere che lo scorso 10 marzo ha portato alla destituzione della presidentessa Park Geun-hye, i tredici candidati in lizza per la presidenza hanno avuto poco meno di due mesi di campagna elettorale per esporre a 42 milioni di elettori le loro soluzioni per affrontare le stringenti questioni domestiche ed internazionali che opprimono la Corea del Sud.

Stando alle ultime proiezioni, tuttavia, il voto di martedì non dovrebbe riservare grandi sorprese. Con l’attuale partito di governo ai minimi storici dopo lo scandalo Park, è il candidato del Democratic Party of Korea (Dpk), Moon Jae-in, a dominare incontrastato la corsa elettorale con il 40% delle preferenze e ben venti punti di distacco da AhnCheol-soo, secondo in classifica.

Le proposte presentate dal leader del centro-sinistra nel corso di queste settimane sono in netto contrasto con la linea politica adottata dalla precedente amministrazione e dopo aver dichiarato di voler riformare l’assetto politico ed economico della nazione, Moon promette di avere la soluzione per riaprire il dialogo con la Corea del Nord.

Economia: spine corruzione e crescita
Nonostante la crescente tensione sul 38° parallelo abbia occupato per diverse settimane le prime pagine di tutti i quotidiani internazionali, l’onere di dover trovare una soluzione alla questione nordcoreana è solo una delle molte urgenze che il prossimo inquilino della Casa Blu erediterà dalla controversa presidenza Park.

Dopo l’ennesimo scandalo di corruzione nella breve storia democratica del Paese, i cittadini sudcoreani chiedono ora che venga posta fine alle frequenti collusioni tra il mondo della politica e quello delle chaebol, i conglomerati industriali che dominano l’economia coreana.

Nonostante il varo di una nuova legge anti-corruzione lo scorso settembre, l’impeachment della presidentessa Park sembrerebbe aver gravemente compromesso la fiducia dei cittadini nei confronti dell’attuale classe politica. In questo senso, la nuova amministrazione dovrà darsi da fare per dimostrare di avere la volontà politica di riformare le chaebol, spesso ritenute intoccabili, privandole dell’influenza che spesso riescono ad esercitare sui vertici dello Stato.

Sul fronte economico, invece, il rallentamento della crescita del Paese ed il costante indebitamento medio delle famiglie sudcoreane minacciano di portare alla sclerosi il modello di sviluppo che ha reso la Corea del Sud una delle principali potenze economiche su scala globale.

La marcata disuguaglianza economica che divide le classi lavorative del Paese e l’alto tasso di disoccupazione, specialmente tra i giovani, sono altri due importanti fattori di rischio. La progressiva precarietà nel mondo del lavoro ha infatti portato ad una drastica diminuzione dei matrimoni con un forte impatto anche sul numero delle nascite, con il tasso di crescita demografica attualmente all’ 1.2% ed in costante diminuzione.

Distensione con Pyongyang e questione ambientale
Altra questione delicata è poi quella ambientale, tema sempre più importante per gli elettori sudcoreani. Nei primi mesi del 2017, il livello dell’inquinamento atmosferico nell’area metropolitana di Seoul ha segnato un nuovo record negativo, facendo apparire per la prima volta la capitale sudcoreana tra le città asiatiche con la più alta concentrazione giornaliera di polveri sottili. Per poter ridurre le proprie emissioni, il Paese sta progressivamente spostando il suo fabbisogno energetico su nuovi impianti industriali, ma anche in questo caso il problema dello smaltimento dei rifiuti sembra ancora essere privo di soluzione.

Infine, vi è la delicata posizione di Seoul sulla scena internazionale. L’escalation militare tra Corea del Nord e Stati Uniti ha portato nelle scorse settimane allo schieramento in territorio sudcoreano dello scudo missilistico Thaad, fortemente inviso alla Cina, la quale ha minacciato pesanti ripercussioni economiche sui rapporti con Seoul. I sudcoreani si ritrovano così divisi su due fronti, con i liberali che chiedono di negoziare la riapertura dei canali di cooperazione economica con Pyongyang in cambio di una distensione dei rapporti ed il fronte conservatore che chiede di continuare sulla linea dura della deterrenza.

L’agenda di Moon
Le elezioni di martedì rappresentano dunque soltanto la prima delle numerose sfide che attendono Moon Jae-in in caso di vittoria. Il leader del Dpknon è di certo un volto nuovo nella politica sudcoreana. Con un passato da militante nelle associazioni studentesche e di avvocato per i diritti umani, Moon ha ricoperto dal 2003 al 2008 il ruolo di capo di gabinetto del presidente RohMoo-hyun, l’ultimo capo di Stato ad aver promosso una concreta politica distensiva nei confronti di Pyongyang.

Contando su un forte consenso elettorale nelle due principali città metropolitane del paese, Seoul e Busan, Moon è sostenuto da un elettorato giovane, che vede nelle sue proposte la promessa di un taglio netto con la politica delle ultime due amministrazioni conservatrici.

In ambito domestico, Moon ha promesso, oltre alla riforma delle cheabol, lo stanziamento di fondi statali che permetterebbero la creazione di circa un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro. Ha inoltre avanzato l’idea di una possibile riforma costituzionale per poter permettere un secondo mandato presidenziale e garantire così maggiore continuità e stabilità al Paese.

Sul fronte estero, invece, durante la campagna elettorale Moon Jae-in ha più volte espresso la volontà di riaprire ai negoziati con Pyongyang, indicando la cooperazione economica tra i due Paesi come l’unica soluzione pacifica che possa garantire una de-escalation militare nella regione. In questo senso, l’immediata riapertura del distretto industriale congiunto di Kaesong rappresenterebbe il primo passo verso la distensione dei rapporti con il Nord.

Per quanto riguarda l’alleanza con Washington, Moon è stato molto critico nei confronti del dispiegamento del Thaad e si è espresso più volte a favore di un maggiore controllo di Seoul sulle decisioni strategiche riguardanti la difesa del Paese. La fermezza di Moon Jae-in e le sue posizioni riguardo il futuro delle relazioni inter-coreane gli sono già valsi il soprannome di “negoziatore” sull’ultima copertina del Times, ma per poter dimostrare l’efficacia delle sue convinzioni il candidato progressista dovrà ancora aspettare sino a martedì.

Lorenzo Mariani è assistente alla ricerca dell’area Asia dello IAI, dove si occupa di Relazioni internazionali dell’Asia orientale.

venerdì 5 maggio 2017

Cina: nessun cedimento per Tibet,Xinjiang e Homg Kong

Tentazioni indipendentiste
Cina: flessibilità esterna, rigidità interna
Nello del Gatto
03/05/2017
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Se Pechino da un lato mostra flessibilità e mediazione nelle questioni di politica internazionale, soprattutto legate alla Corea del Nord, dall’altro continua senza esitazione a tenere il pugno duro internamente e a combattere quelle che ritiene essere tentazioni indipendentiste (molte delle quali, invece, sono rivendicazioni di autonomie già concesse a termine di legge). Così, qualsiasi accenno di insubordinazione alle regole imposte e alle posizioni del partito comunista, continua ad essere soffocato sul nascere.

L'attenzione di Pechino e del suo più alto rappresentante, quel Xi Jinping che dal primo momento del suo insediamento ha spinto la Cina verso posizioni sempre più intransigenti e - se possibile - persino peggiori di quelle del passato in termini di libertà di espressione e autonomia, è rivolta in modo particolare verso quelle situazioni che rappresentano un potenziale pericolo per l’unità cinese.

La situazione di Hong Kong
Hong Kong prima di tutto. Ritornata alla Cina nel 1997, l'ex colonia britannica è, almeno sulla carta, una regione autonoma speciale. L'accordo sino-britannico prevede infatti il principio "un Paese due sistemi" fino al 2047, anno in cui poi Hong Kong dovrebbe tornare definitivamente alla Cina. Questo in teoria, come si diceva, perché le ingerenze di Pechino nella vita politica di Hong Kong sono sempre più frequenti.

È di solo qualche giorno fa la notizia dell'arresto di due parlamentari, Sixtus Leung Chung-hang detto Baggio e Yau Wai Ching, per aver tentato di entrare con la forza nel Legco, il Parlamento locale. La storia dei due in realtà va avanti da mesi. Iscritti al partito Young Ispiration, che crede nelle libertà civili e nel rispetto della democrazia (impegnati in quel movimento anti-Pechino chiamato “Umbrella Movement”), i due erano stati eletti lo scorso settembre nelle elezioni amministrative.

I guai per loro erano iniziati presto. Ad ottobre, nel corso della cerimonia di giuramento, pronunciarono volutamente la parola "Cina" nel modo usato dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale e considerato offensivo dai cinesi. Non solo: si presentarono issando striscioni su cui c'era scritto "Hong Kong is not China”. Il loro giuramento non è stato riconosciuto come valido e dopo qualche giorno Pechino vietò l’insediamento ai due parlamentari. Il 2 novembre, in segno di protesta, i due tentarono di introdursi nel parlamento e si scontrarono con le forze dell'ordine.

Recependo le disposizioni del governo centrale cinese, il 15 novembre l'alta Corte di Hong Kong ha escluso i giovani parlamentari dalla possibilità di ricoprire l'incarico politico per il quale erano stati eletti. Ora i due, fermati dalla polizia, dovranno anche rispondere delle loro azioni di protesta.

La repressione nello Xinjiang musulmano
Altra regione a patire la pressione cinese è da sempre quella dello Xinjang, a maggioranza musulmana, dove da secoli è insediata la minoranza etnica degli uiguri, che i cinesi mirano a sottomettere a vantaggio della imposizione della cultura Han. Gli uiguri, osteggiati dalla Cina e considerati terroristi, rivendicano l’autonomia concessa (lo Xinjiang è regione autonoma) che dovrebbe declinarsi anche nella possibilità di perseguire la fede, i costumi, le usante islamiche e l’uso dell’arabo.

C’è da dire che alcune fronde uighure chiedono invece l’indipendenza da Pechino anche a suon di attentati. È così, dopo il divieto di portare la barba o il velo femminile, arriva ora da parte del governo cinese il divieto di chiamare i bambini con nomi di derivazione o significato che rimandi alla religione islamica.

Per ora l'ordinanza prevede 12 nomi messi al bando, tra i quali Mohammed e Jihad, ma non è escluso che la lista possa essere ampliata. In caso di violazione del divieto il neonato non potrà essere registrato, e quindi non potrà avere accesso all'assistenza sanitaria e all'istruzione. Pechino giustifica le decisioni parlando di strumenti di lotta all'estremismo religioso.

Nessun cedimento in Tibet
E la situazione resta sempre tesa anche in Tibet dove la Cina non mostra nessun segno di cedimento. Anzi. Anche qui, come nello Xinjiang, XI Jinping e i suoi proseguono con un'opera di evidente cinesizzazione, tentando di sradicare in ogni modo la cultura locale e religiosa e i suoi simboli.

In questa ottica si pone anche la distruzione, avviata ormai mesi fa, di un importante simbolo religioso buddista, il monastero e l'accademia di Larung Gar, considerato la più grande scuola filosofica del Tibet, sito nella prefettura di Kardze. Al momento dell'intervento cinese nella struttura organizzazioni pro Tibet si tratta dell'ennesimo sopruso cinese nei confronti della regione lamaista.

A luglio scorso, dopo l'inizio dei lavori di demolizione, due giovani monache tibetane si tolsero la vita in segno di protesta.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo (Twitter: @nellocats).