Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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sabato 31 dicembre 2016

venerdì 23 dicembre 2016

Orizzonti Cina. Sommario



Bimestrale OrizzonteCina (ISSN 2280-8035)

In questo numero articoli su:
• Scienza e tecnologia in Cina. Molti successi, grandi speranze (e qualche fondata perplessità) | Daniele Brombal
• Sviluppo e fattori di criticità della ricerca cinese | Roberto Coisson
• Il cambiamento è l’unica costante. Quattro scenari per il futuro della ricerca e dell’innovazione in Cina | Epaminondas Christofilopoulos
• L’intervista - Jian Lu, Vice-President (Research and Technology) della City University of Hong Kong | Daniele Brombal
• Scienza e tecnologia nelle relazioni Cina-Europa | Nicola Casarini e Lorenzo Mariani
• La fabbrica del risentimento: il razzismo quotidiano e le sue conseguenze | Daniele Brigadoi Cologna
• Internet plus: un progetto strategico per lo sviluppo tecnologico | Gianluigi Negro
• Recensione - Stella rossa sulla Cina. La storia della rivoluzione cinese, di Edgar Snow | Giuseppe Gabusi

Buona lettura!

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mercoledì 21 dicembre 2016

Hong Komg: terremo di scontro

Asia
Hong Kong: Washington sfida Pechino
Serena Console
13/12/2016
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Non c’è solo la telefonata fra Donald Trump e la presidente taiwanese Tsai-Ing-wen a far storcere il naso a Xi Jinping. A complicare il dialogo fra gli Stati Uniti e la Cina è anche una proposta di legge a sostegno dell’autonomia di Hong Kong presentata dal senatore della Florida Marco Rubio (beniamino dell’establishment repubblicano nelle primarie presidenziali del partito perse contro il tycoon newyorkese), che co-presiede la commissione congiunta Congresso/Governo sulla Cina (Cecc), chiamata a monitorare la situazione dei diritti umani e dello stato di diritto a Pechino.

Insieme al collega dell’Arkansas Tom Cotton, Rubio ha presentato l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, che rinnova lo storico impegno degli Stati Uniti per la libertà e la democrazia ad Hong Kong, in un momento in cui l’autonomia della città portuale è sempre più sotto attacco.

La proposta dei repubblicani punta a migliorare la libertà di stampa, di religione e di manifestazione e reclama la garanzia e la tutela dei diritti civili e delle minoranze etniche nell’ex colonia britannica, chiedendo che siano individuati e perseguiti i responsabili del rapimento dei cinque librai avvenuto nel gennaio scorso.

Sotto l’ombrello di Rubio
La normativa rafforza anche le norme presenti nello United States-Hong Kong Policy Actdel 1992, che consente agli Stati Uniti di intrattenere rapporti di natura commerciale ed economica con l’ex colonia britannica, lontano dall’ingombrante controllo di Pechino.

Rubio ha anche incontrato Joshua Wong, il ventitreenne attivista e leader della frangia studentesca che partecipò alle manifestazioni democratiche della rivoluzione degli ombrelli del 2014 ed è oggi il più giovane rappresentante del Parlamento di Hong Kong. Wong è intervenuto ad un incontro organizzato dalla Cecc in cui ha esortato il presidente eletto Donald Trump a “sostenere pienamente i diritti umani ad Hong Kong”.

Attualmente la situazione dei diritti umani in Cina è innegabilmente desolante, con gravi conseguenze soprattutto per la società civile, i religiosi, gli attivisti e i sindacalisti.

Il futuro dell’ex colonia
La dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984 prevede le modalità di transizione di Hong Kong da colonia britannica a provincia cinese: dal 1° luglio 1997, e per un arco temporale di cinquant’anni, la città portuale costituisce una regione amministrativa speciale, secondo il dettato dell’articolo 31 della Costituzione cinese.

Pechino controlla affari esteri e difesa, mentre al governo di Hong Kong sono riconosciuti il mantenimento del proprio impianto legislativo e l’attuazione delle misure di politica sociale.

Secondo questa formula, Hong Kong gode di un alto grado di autonomia e il governo centrale non interferisce nelle politiche interne della città. Nel periodo di interregno è in vigore la Hong Kong Basic Law, la carta costituzionale della città portuale che si fonda sulla dichiarazione congiunta sino-britannica.

Il 2047 segnerà la dissoluzione della formula “un paese, due sistemi”, catapultando Hong Kong in un futuro ancora incerto.

Opposizione in crescita
L’ultima tornata elettorale per il rinnovo del Consiglio legislativo, il Parlamento della città portuale, nel settembre scorso, è stata un chiaro esempio di come Pechino stia gradualmente perdendo il consenso degli abitanti dell’ex colonia britannica.

L’affluenza alle urne è stata peraltro la più alta di sempre, poco al di sotto del 60%: segno che gli hongkonghesi hanno a cuore la democrazia. Gli indipendentisti e gli oppositori di Pechino hanno conquistato più dei 24 seggi necessari per bloccare le riforme costituzionali. Grazie alla sua nuova configurazione politica, l’organo rappresentativo avrà più possibilità di bloccare un nuovo disegno di legge, anche se l’esercizio di questo potere di veto sarà tutt’altro che semplice.

Il risultato delle elezioni e l’avvento degli ombrelli gialli in Parlamento è stato un trionfo per il fronte filo-democratico nato durante il movimento degli ombrelli. Tuttavia, Xi Jinping, il presidente più potente dai tempi di Mao Zedong, non sembra intenzionato a recepire i segnali di democratizzazione lanciati dai cittadini di Hong Kong. E risponde eliminando le voci di dissenso.

A metà novembre, l’Alta Corte di Hong Kong, sotto pressione di Pechino, ha sollevato dall’incarico Yau Wai-ching e Baggio Leung, eletti del partito Youngspiration.

I due giovani parlamentari sono accusati di aver offeso il governo centrale durante il giuramento di insediamento del 12 ottobre, quando hanno usato l’espressione Shina per indicare la Repubblica Popolare Cinese. Il termine "Chee-na" o "Shina" era infatti utilizzato dai giapponesi durante l’invasione della Cina (1937-1945) per etichettare negativamente gli ex sudditi dell'impero celeste.

All’indomani della sentenza, Rubio si è detto preoccupato per le costanti pressioni esercitate da Pechino su Hong Kong. Resta da vedere come l’establishment cinese risponderà alle iniziative del senatore della Florida. L’approccio sino-centrico alla gestione della politica interna fa il paio con la richiesta di non ingerenza dall’esterno.

Allo scoppio delle proteste del movimento degli ombrelli, come accadde già per il massacro di Tiananmen, Pechino ha invitato l’opinione pubblica internazionale a non interferire con le dinamiche interne alla Muraglia. Una mossa, all’epoca, per moderare le rivolte sociali di matrice indipendentista lontano dagli occhi del mondo e, soprattutto, dallo sguardo dell’antagonista americano. Il Dragone si ripeterà?

Serena Console è stata stagista per la comunicazione dello IAI.

Cina: sbocchi della via della seta

Asia
Cina sempre più presente nel Mediterraneo
Lorenzo Mariani
15/12/2016
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A tre anni dalla presentazione dell’ambizioso progetto “One Belt One Road” del presidente Xi Jinping, l’orientamento degli interessi cinesi nei confronti del Mediterraneo come punto d’arrivo della nuova Via della Seta marittima ha trasformato il Mare Nostrum da mare di transito a vera e propria base logistica permanente per le imprese cinesi.

Il sesto rapporto annuale del centro Studi e Ricerche per il Mezzogiorno (Srm), presentato a Napoli lo scorso 25 novembre, offre una dettagliata analisi della presenza cinese nel Mediterraneo e delinea in maniera chiara l’entità dell’espansione cinese in ambito marittimo nell’area Med-Gulf.

Con la capacità di movimentare annualmente all’incirca 200 milioni di Teu - il 31% delle merci scambiate via mare a livello globale - il valore dell’intera economia marittima cinese viene stimato intorno ai 970 miliardi di dollari. La prospettiva di una crescita costante nel settore marittimo ha spinto la Cina a cercare di rendere più efficienti le proprie rotte commerciali tramite una serie di investimentinei principali snodi della futura nuova Via della Seta.

Nell’arco dell’ultimo decennio, il volume degli investimenti nella sola regione mediterranea ha superato i 129 miliardi di dollari, facendo così della Cina il secondo partner commerciale dopo gli Usa per il Mediterraneo e l’area Mena.

La maggior parte degli investimenti sono stati concentrati nell’acquisto di quote di partecipazione di imprese o infrastrutture logistiche. Ad oggi le principali imprese di trasporto marittimo cinesi detengono importanti quote di mercato del Terminal Antwerp Gateway di Anversa (25%), del SCCT-Suez Canal Container Terminal (20%), delle turche Fina Liman Hizmetleri Lojistik e Kumport Liman Hizmetleri ve Lojistik (65%).

L’operazione più rilevante è stata tuttavia quella conclusa quest’anno da Cosco Pacific la quale ha acquisito il 67% del porto del Pireo con la promessa di un ulteriore investimento di 350 milioni di euro nel corso dei prossimi cinque anni.

Trend in crescita
L’Italia non è rimasta esclusa dall’espansione cinese, come dimostra l’accordo siglato ad ottobre tra China Cosco Shipping Ports e Apm Terminals per la gestione del futuro terminal container di Vado Ligure e del Refeel Terminal connesso al porto.

Dal punto di vista commerciale invece, l’ampliamento dei servizi settimanali del nuovo canale di Suez e le facilitazioni promosse dal governo egiziano - che possono arrivare fino ad un 65% di sconto per gli operatori che si muovono in questa tratta - rappresentano un nuovo incentivo per Pechino.

Nel 2015 la Suez Canal Authority ha registrato il passaggio di 167 milioni di tonnellate di merci provenienti dai porti cinesi, il 41% del traffico totale del canale di Suez nella direzione sud-nord. Un dato, questo, che conferma il trend di crescita costante dell’interscambio commerciale tra i Paesi mediterranei e la Cina.

La Cina continua a rafforzare la sua presenza e la competitività delle sue aziende anche tramite una serrata politica di alleanze commerciali tra i maggiori operatori del trasporto marittimo volta a razionalizzare le rotte e sfruttare maggiormente le economie di scala.

Sono due le aziende europee coinvolte in questo tipo di accordi: la francese Cma Cgm entrata a far parte della Ocean Alliance insieme alla Oocl (Hong Kong), Evergreen (Taiwan) e Cosco (Cina); e la tedesca Hapag-Lloyd che a maggio è entrata nella The Alliance composta dai colossi giapponesi Mol, Nyk e K Line, dalla Yang Ming (Taiwan) e dalla Hanjin (Corea del Sud).

All’interno della strategia cinese per il Mediterraneo l’Italia, che tra il 2001 e il 2015 ha visto raddoppiare il suo volume di scambi marittimi passando da 37,6 a 66,5 miliardi di euro, potrebbe essere il partner naturale per Pechino. Tuttavia, come suggerito dal rapporto SRM, si presentano diverse sfide che potrebbero disincentivare gli investitori.

In questi termini mantenere in efficienza il sistema portuale e facilitare le procedure burocratiche e amministrative connesse all’attracco delle navi commerciali risultano elementi chiave che potrebbero influenzare in modo strategico le future decisioni della Cina.

Lorenzo Mariani è assistente alla ricerca dell’area Asia dello IAI, dove si occupa di Relazioni internazionali dell’Asia orientale.

venerdì 9 dicembre 2016

Non c'è pace fra gli ulivi

Asia
Venti di guerra dal Nord-Corea, il ruolo dell’Italia
Nicola Casarini, Lorenzo Mariani
11/12/2016
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Una delle più urgenti questioni di politica internazionale che il nuovo presidente eletto Donald Trump dovrà affrontare è quella nord-coreana. Per la prima volta dalla fine della guerra di Corea, il regime di Pyongyang sembra infatti essere riuscito a sviluppare missili in grado di colpire direttamente il territorio statunitense.

La cosa preoccupa a tal punto gli Usa che i due candidati alla vicepresidenza - Michael Pence e Tim Kaine - durante un dibattito in campagna elettorale, si sono detti favorevoli ad eventuali ‘preemptive strikes’ contro le installazioni militari nord-coreane al fine di risolvere alla radice il problema.

Non sono solo gli Stati Uniti che stanno perdendo la pazienza. Giappone e Corea del Sud, storici alleati asiatici di Washington, sono sulla stessa linea d’onda e gli spazi della diplomazia si stanno restringendo. In una tale situazione, serve un nuovo approccio che possa fermare - o quanto meno rallentare - l’escalation militare in Asia nord-orientale. C’è da chiedersi se non possa essere l’Europa - e in particolare l’Italia - a farsi promotrice di una tale nuova iniziativa.

L’entità della minaccia nord-coreana
La questione nucleare in Corea del Nord si è evoluta ben oltre il progetto iniziale che aveva portato all’imposizione delle prime sanzioni da parte delle Nazioni Unite nel maggio del 1993. I tre test portati avanti da Kim Jong-un durante la sua breve leadership dimostrano come il giovane leader abbia deciso di discostarsi dalla strategia nucleare del padre, ritenuto più cauto e propenso a utilizzare la corsa agli armamenti come leva diplomatica.

Le analisi esterne condotte dagli osservatori internazionali sui due ordigni nucleari testati nel corso dell’ultimo anno hanno evidenziato un notevole avanzamento tecnologico. Il 9 gennaio 2016 Pyongyang ha annunciato di aver fatto detonare il suo primo ordigno termonucleare. Sebbene tale notizia sia stata accolta con particolare scetticismo, non è possibile escludere del tutto la possibilità che il regime sia riuscito ad acquisire le capacità necessarie per costruire un bomba a due stadi.

Grazie alle sue ridotte dimensioni, questo tipo di testata potrebbe essere montata su missili balistici a medio e lungo raggio capaci di colpire non solo la Corea del Sud e il Giappone, ma anche la base militare statunitense di Guam, nel Pacifico.

A suscitare maggiore preoccupazione è stato tuttavia il secondo test di quest’anno. L’ordigno fatto brillare il 9 settembre ha dimostrato che il processo di assemblamento delle testate ha raggiunto un efficiente grado di standardizzazione che consentirà in futuro maggiore velocità e affidabilità per la costruzione di tali ordigni.

Anche dal punto di vista balistico, i successi ottenuti nei test del 2016 hanno portato la minaccia nordcoreana ad un nuovo livello di allerta. Il 22 giugno è andato a buon fine il lancio da base mobile di un missile Musudan a raggio intermedio (Irbm), il quale ha una gittata stimata di oltre 3000 chilometri. Ad agosto invece sono iniziati i test per il lancio sottomarino di missili balistici (Slbm) KN-11. Questo tipo di tecnologia consentirebbe in pochi anni al regime nordcoreano di minacciare direttamente il territorio statunitense, acquisendo così una considerevole capacità negoziale e di deterrenza.

L’equilibrio regionale in evoluzione 
La risolutezza di intenti dimostrata da Kim Jong-un e il successo dei test più recenti mostrano l’inefficacia delle contromisure finora adottate. La Corea del Nord si è resa negli ultimi anni sempre più autosufficiente per quanto riguarda sia la produzione agricola sia l’estrazione di materie prime, il che ha diminuito drasticamente l’efficacia delle sanzioni internazionali come strumento di pressione politica.

La “pazienza strategica” adottata dall’amministrazione Obama, basata sull’erronea convinzione che il regime fosse vicino al collasso, ha concesso a Pyongyang tempo prezioso per implementare il suo programma nucleare.

A Seoul intanto il dibattito sulla questione nucleare nordcoreana ha assunto toni preoccupanti. Appurato il fallimento della Trustpolitik - la strategia di engagementcostruttivo con Pyongyang promosso dalla presidentessa nel 2011, ma mai realmente attuato - alcuni membri del partito conservatore (Saenuri) hanno riproposto l’idea di dotare anche il Sud di un proprio arsenale nucleare.

Per ora, non sembra che l’ipotesi sia presa seriamente in considerazione. Sin dagli anni ’70 infatti, gli Usa si sono sempre detti contrari a una simile evoluzione, temendo una escalation militare. La nuova amministrazione Trump sembra però propensa a rivisitare gli assiomi su cui finora si è basato il sistema di alleanze statunitensi nella regione.

Lo stallo che si è creato tra gli attori coinvolti e gli scarsi risultati prodotti dalla strategia sanzionatoria della comunità internazionale sollecitano a interrogarsi su un possibile nuovo approccio diplomatico che eviti il ricorso alle armi.

Un ruolo per l’Europa e l’Italia
Fu proprio l’Italia che nel 2000, all’apice della Sunshine Policy di Kim Dae Jung, riallacciò i rapporti diplomatici con Pyongyang, grazie all’intenso lavoro svolto dalla diplomazia italiana guidata all’epoca da Lamberto Dini, primo esponente di un grande Paese occidentale a recarsi in Corea del Nord.

Sulla scorta dell’esperienza dei Six Party Talks (Spt) - ma non limitandosi a essa sia per qunto riguarda il format che i contenuti - il governo italiano, in consultazione con Bruxelles, potrebbe farsi promotore di un incontro informale a Roma tra i principali attori regionali.

La presenza, nella capitale italiana, di un’ambasciata della Corea del Nord (presente solo in altri pochi Paesi europei, quali Spagna e Austria) fornisce all’Italia un canale di comunicazione diretto con Pyongyang e le permette di presentarsi come honest brokerdi una discussione ad ampio raggio.

Nel 2017, l’Italia avrà la presidenza del G7 e una sua iniziativa in tal senso contribuirebbe a dare continuità al tema della sicurezza in Asia orientale - una questione posta al centro dell’agenda dal Giappone, presidente di turno del G7 nel 2016.

Il momento sembra pertanto maturo per rinverdire quella stagione in cui l’Unione europea - e l’Italia in particolare - provò a svolgere un ruolo significativo sul fronte coreano.

Nicola Casarini è coordinatore dell’area di ricerca Asia dello IAI. Lorenzo Mariani è assistente alla ricerca dell’area Asia dello IAI, dove si occupa di Relazioni internazionali dell’Asia orientale.