Una delle più urgenti questioni di politica internazionale che il nuovo presidente eletto Donald Trump dovrà affrontare è quella nord-coreana. Per la prima volta dalla fine della guerra di Corea, il regime di Pyongyang sembra infatti essere riuscito a sviluppare missili in grado di colpire direttamente il territorio statunitense.
La cosa preoccupa a tal punto gli Usa che i due candidati alla vicepresidenza - Michael Pence e Tim Kaine - durante un dibattito in campagna elettorale, si sono detti favorevoli ad eventuali ‘preemptive strikes’ contro le installazioni militari nord-coreane al fine di risolvere alla radice il problema.
Non sono solo gli Stati Uniti che stanno perdendo la pazienza. Giappone e Corea del Sud, storici alleati asiatici di Washington, sono sulla stessa linea d’onda e gli spazi della diplomazia si stanno restringendo. In una tale situazione, serve un nuovo approccio che possa fermare - o quanto meno rallentare - l’escalation militare in Asia nord-orientale. C’è da chiedersi se non possa essere l’Europa - e in particolare l’Italia - a farsi promotrice di una tale nuova iniziativa.
L’entità della minaccia nord-coreana La questione nucleare in Corea del Nord si è evoluta ben oltre il progetto iniziale che aveva portato all’imposizione delle prime sanzioni da parte delle Nazioni Unite nel maggio del 1993. I tre test portati avanti da Kim Jong-un durante la sua breve leadership dimostrano come il giovane leader abbia deciso di discostarsi dalla strategia nucleare del padre, ritenuto più cauto e propenso a utilizzare la corsa agli armamenti come leva diplomatica.
Le analisi esterne condotte dagli osservatori internazionali sui due ordigni nucleari testati nel corso dell’ultimo anno hanno evidenziato un notevole avanzamento tecnologico. Il 9 gennaio 2016 Pyongyang ha annunciato di aver fatto detonare il suo primo ordigno termonucleare. Sebbene tale notizia sia stata accolta con particolare scetticismo, non è possibile escludere del tutto la possibilità che il regime sia riuscito ad acquisire le capacità necessarie per costruire un bomba a due stadi.
Grazie alle sue ridotte dimensioni, questo tipo di testata potrebbe essere montata su missili balistici a medio e lungo raggio capaci di colpire non solo la Corea del Sud e il Giappone, ma anche la base militare statunitense di Guam, nel Pacifico.
A suscitare maggiore preoccupazione è stato tuttavia il secondo test di quest’anno. L’ordigno fatto brillare il 9 settembre ha dimostrato che il processo di assemblamento delle testate ha raggiunto un efficiente grado di standardizzazione che consentirà in futuro maggiore velocità e affidabilità per la costruzione di tali ordigni.
Anche dal punto di vista balistico, i successi ottenuti nei test del 2016 hanno portato la minaccia nordcoreana ad un nuovo livello di allerta. Il 22 giugno è andato a buon fine il lancio da base mobile di un missile Musudan a raggio intermedio (Irbm), il quale ha una gittata stimata di oltre 3000 chilometri. Ad agosto invece sono iniziati i test per il lancio sottomarino di missili balistici (Slbm) KN-11. Questo tipo di tecnologia consentirebbe in pochi anni al regime nordcoreano di minacciare direttamente il territorio statunitense, acquisendo così una considerevole capacità negoziale e di deterrenza.
L’equilibrio regionale in evoluzione La risolutezza di intenti dimostrata da Kim Jong-un e il successo dei test più recenti mostrano l’inefficacia delle contromisure finora adottate. La Corea del Nord si è resa negli ultimi anni sempre più autosufficiente per quanto riguarda sia la produzione agricola sia l’estrazione di materie prime, il che ha diminuito drasticamente l’efficacia delle sanzioni internazionali come strumento di pressione politica.
La “pazienza strategica” adottata dall’amministrazione Obama, basata sull’erronea convinzione che il regime fosse vicino al collasso, ha concesso a Pyongyang tempo prezioso per implementare il suo programma nucleare.
A Seoul intanto il dibattito sulla questione nucleare nordcoreana ha assunto toni preoccupanti. Appurato il fallimento della Trustpolitik - la strategia di engagementcostruttivo con Pyongyang promosso dalla presidentessa nel 2011, ma mai realmente attuato - alcuni membri del partito conservatore (Saenuri) hanno riproposto l’idea di dotare anche il Sud di un proprio arsenale nucleare.
Per ora, non sembra che l’ipotesi sia presa seriamente in considerazione. Sin dagli anni ’70 infatti, gli Usa si sono sempre detti contrari a una simile evoluzione, temendo una escalation militare. La nuova amministrazione Trump sembra però propensa a rivisitare gli assiomi su cui finora si è basato il sistema di alleanze statunitensi nella regione.
Lo stallo che si è creato tra gli attori coinvolti e gli scarsi risultati prodotti dalla strategia sanzionatoria della comunità internazionale sollecitano a interrogarsi su un possibile nuovo approccio diplomatico che eviti il ricorso alle armi.
Un ruolo per l’Europa e l’Italia Fu proprio l’Italia che nel 2000, all’apice della Sunshine Policy di Kim Dae Jung, riallacciò i rapporti diplomatici con Pyongyang, grazie all’intenso lavoro svolto dalla diplomazia italiana guidata all’epoca da Lamberto Dini, primo esponente di un grande Paese occidentale a recarsi in Corea del Nord.
Sulla scorta dell’esperienza dei Six Party Talks (Spt) - ma non limitandosi a essa sia per qunto riguarda il format che i contenuti - il governo italiano, in consultazione con Bruxelles, potrebbe farsi promotore di un incontro informale a Roma tra i principali attori regionali.
La presenza, nella capitale italiana, di un’ambasciata della Corea del Nord (presente solo in altri pochi Paesi europei, quali Spagna e Austria) fornisce all’Italia un canale di comunicazione diretto con Pyongyang e le permette di presentarsi come honest brokerdi una discussione ad ampio raggio.
Nel 2017, l’Italia avrà la presidenza del G7 e una sua iniziativa in tal senso contribuirebbe a dare continuità al tema della sicurezza in Asia orientale - una questione posta al centro dell’agenda dal Giappone, presidente di turno del G7 nel 2016.
Il momento sembra pertanto maturo per rinverdire quella stagione in cui l’Unione europea - e l’Italia in particolare - provò a svolgere un ruolo significativo sul fronte coreano.
Nicola Casarini è coordinatore dell’area di ricerca Asia dello IAI. Lorenzo Mariani è assistente alla ricerca dell’area Asia dello IAI, dove si occupa di Relazioni internazionali dell’Asia orientale.
|
Nessun commento:
Posta un commento