Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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venerdì 27 novembre 2015

Cina la prospettiva militare

Orizzonte Cina
Pechino: Nato, Ue e vicinato d'Italia 
Giuseppe Cucchi
09/12/2015
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Che Cina ed Europa potessero giungere ad avere interessi e preoccupazioni di sicurezza condivisi o contrapposti, ma in ogni caso comuni sembrava - più o meno sino al 2010 - un’ipotesi ben lontana dal potersi un giorno realizzare.

Più che la considerevole lontananza geografica era infatti la pressoché completa reciproca estraneità dei due protagonisti negli ultimi sessant’anni che finiva col condizionare una percezione almeno in parte ancorata a stereotipi ormai sorpassati dai fatti e dalla storia.

Diverso invece il caso dell’Alleanza atlantica, inevitabilmente condizionata dalla presenza di un’America che aveva iniziato molto presto a considerare Pechino come il più immediato - e quindi il più pericoloso - dei potenziali aspiranti a sostituirla al vertice della leadership mondiale.

Un peccato mortale per un paese che - come gli Stati Uniti - non sopporta l'idea di essere considerato una potenza in declino, destinata, in un giorno ormai non molto lontano, a non essere più la prima superpotenza.

L’aleatorietà dei rapporti Cina Nato 
Così, almeno sin dall'inizio di questo secolo, la crescente preoccupazione americana per la crescita cinese ha finito con l'estendersi anche alla Nato: rimanendo all'inizio una preoccupazione vaga e lontana, ma divenendo molto più attuale nel momento in cui l'Alleanza ha superato tutti i vincoli di membership, di missione e di area geografica previsti dal suo trattato costitutivo per guidare un’articolata “coalition of the willing” in una missione afgana che si sta concludendo solo ora in un crepuscolo pieno di incertezze.

Con tale missione la Nato entrava a gamba tesa in Asia centrale, in una zona che si poteva considerare come un “backyard cinese”, secondo la terminologia americana, o come un “near abroad di Pechino” secondo quella russa.

La presenza più che decennale dell’Alleanza in Afghanistan, oltre ad avere un effetto stabilizzante per tutta l’area, ha permesso altresì alla Cina di non impegnarsi direttamente nel contenere l’espansione dell’estremismo islamico e il suo travaso dall’area pashtun afgana a quella uigura cinese.

Un fatto che spiega perché Pechino abbia tollerato per un periodo tanto lungo la presenza Nato in zone così prossime al suo territorio nazionale senza tentare di contrastarla in alcun modo e in alcuna sede.

Le difficoltà e i contrasti che potrebbero insorgere fra Pechino e l’Alleanza si concentrano così al momento soltanto sul contenzioso in atto nel Mar cinese meridionale, rimanendo, quindi, sino a prova contraria, unicamente potenziali.

Almeno in teoria la Nato dovrebbe infatti rimanere del tutto indifferente a una disputa tanto lontana dalla sua area e così estranea ai suoi interessi.

Se però le cose dovessero avviarsi su una china negativa, un’eventuale presa di posizione dura da parte degli Stati Uniti non potrebbe non ripercuotersi sull’Alleanza, ove l’azione congiunta di Washington e di un establishment Nato alla disperata ricerca di missioni che ne giustifichino la sopravvivenza finirebbe probabilmente col tradursi in qualche forma di coinvolgimento.

Un indizio di quanto potrebbe succedere è dato tra l’altro dal fatto che la Nato ha già da tempo rapporti particolari con il Giappone, mentre non ne intrattiene alcuno con la Cina.

Ue-Cina, sulla sicurezza rapporti stabili
All’aleatorietà dei rapporti della Cina con la Nato nel settore della sicurezza si contrappone la sostanziale stabilità di quelli con l’Unione europea, rimasti invece molto buoni, nonostante esistano fra i due protagonisti contenziosi - in atto e potenziali - che potrebbero col tempo rivelarsi pericolosi, e malgrado il fatto che i paesi dell’Unione siano al contempo, in maggioranza, anche membri dell’Alleanza atlantica.

Un comportamento vagamente schizofrenico da parte di alcuni protagonisti che seguono in pari tempo - nelle due diverse sedi - politiche in parte divergenti fra loro? La dimostrazione di quanto fortemente si possa far sentire in ambito Nato l’influenza degli Stati Uniti, che invece possono influire soltanto indirettamente sull’Unione?

Questo e altro, certamente, ma allo stesso tempo anche la piena coscienza di come la Cina possa progressivamente evidenziarsi come un partner importante e un protagonista di assoluto rilievo non soltanto nell’ambito politico ed economico ma anche in quello della sicurezza comune.

Molto gradualmente, la Cina è effettivamente riuscita ad avvicinarsi all’Europa, per lo meno per tramite delle proiezioni di forza oltremare. In Africa la presenza cinese si è progressivamente infittita negli ultimi vent’anni, arrivando a coprire con una rete capillare più o meno tutti i paesi del continente.

E non si tratta certamente di piccoli numeri: quando dovettero evacuare i connazionali dalla Libia in fiamme, i cinesi trassero in salvo oltre 35mila persone.

In parallelo alla crescita di tale presenza è altresì aumentata ovunque anche l’influenza cinese, ovviamente a discapito di preesistenti condizioni di privilegio, per la gran parte inglesi o francesi.

L’Europa si trova quindi a confrontarsi, in questo momento, con l’influenza crescente di un paese che è una grande potenza e che sempre più afferma la propria presenza sulla sponda meridionale del Mediterraneo, attraverso un processo che almeno potenzialmente potrebbe instradarla su una rotta di collisione con le due maggiori potenze militari dell’Unione.

La presenza cinese nel Mediterraneo e in zone contermini si esprime poi, ogni giorno di più, anche in altre forme che più direttamente coinvolgono il concetto di sicurezza. Contingenti di Pechino sono schierati da tempo con le forze Onu in Libano e nel Mali.

La Marina cinese è reduce da recenti manovre congiunte con quella russa nel bacino orientale del Mare nostrum. Contemporaneamente, essa coopera con le Marine Nato nell’azione anti-pirateria a sud di Suez.

Il Ministero degli affari esteri cinese ha evacuato qualche mese fa dallo Yemen travolto dalla guerra civile i connazionali a rischio - questa volta circa 600 - preoccupandosi inoltre di trarre in salvo anche i resortissants dell’Unione europea. Un bel gesto nei confronti dell’Europa, e una chiara dimostrazione di programmata efficienza.

Nel contempo, però, Pechino continua a insistere in tutte le sedi possibili perché l’Ue si decida a rispettare le promesse - più volte fatte e mai tradotte in realtà - di porre fine a un embargo sull’esportazione di armamenti in Cina che pressioni americane e veti inglesi hanno sino a questo momento impedito di revocare.

Revival delle vecchie Vie della seta 
In un certo senso si ha l'impressione di essere dinanzi a un articolato disegno strategico, quasi una enorme e complessa tela che di giorno in giorno sempre più si infittisce ed è probabilmente destinata a ricevere ancora maggiore impulso dal colossale progetto cinese di ripristino e ampliamento delle antiche “Vie della seta”, l’una terrestre e l’altra navale, che, partendo dalla Cina, avranno entrambe come terminali paesi dell’Unione.

Considerando come esse dovrebbero essere destinate a incrementare in grande misura flussi di commercio già ora molto consistenti, si comprende con facilità quale possa essere domani la dimensione dei problemi di sicurezza che Ue e Cina dovranno essere in condizione di gestire insieme.

Sorgono però spontanei, a questo punto, due fondamentali interrogativi destinati a rimanere entrambi senza risposta, almeno per il momento. Il primo riguarda la capacità di un’Ue che è ancora priva di una vera politica estera e di sicurezza comune di affrontare sfide di queste dimensioni e complessità.

Il secondo consiste invece nel chiedersi se e fino a quando durerà l’interesse europeo nel mantenere in vita un’Alleanza atlantica che ha già pesantemente contribuito a guastare i rapporti tra l’Europa e la Russia e che rischia di porci in tensione, in futuro, anche con la Cina.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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venerdì 20 novembre 2015

Cina: Le prospettive economiche

Cina
Il piano quinquennale sempre meno cogente 
Romeo Orlandi
07/12/2015
più piccolopiù grande
"Dobbiamo essere realistici e ammettere che per un periodo di tempo considerevolmente lungo a venire, i nostri piani economici nel complesso possono essere solo a grandi linee ed elastici e non possiamo fare più che esercitare un controllo effettivo sulle questioni principali, puntando a un equilibrio generale nella pianificazione e attraverso la regolamentazione con mezzi economici, consentendo nel frattempo flessibilità su quelle di minore importanza".

Queste impegnative affermazioni hanno il marchio del CC del Partito comunista cinese nel 1984, quando l’impostazione collettivista di Mao stava per essere smantellata.

La straordinaria, efficace, virata di Deng Xiao Ping ha costruito i binari sui quali viaggia ancora spedita la locomotiva cinese. Senza sorprese né deviazioni la recente assise del Pcc ha infatti consegnato l’impalcatura del 13̊ piano quinquennale che sarà perfezionata e approvata nella primavera del 2016 dall’Assemblea nazionale del popolo.

Il lessico è rimasto invariato dai tempi della pianificazione sovietica; la liturgia è immutabile: da 66 anni la continuità è sacra; da millenni, nelle storia cinese, la forma è sostanza.

Imprese private sempre più dinamiche 
Tuttavia, la società e l’economia cinese sono radicalmente cambiate. Le “questioni principali” sono effettivamente rimaste in mano al partito-stato, ma quelle “di minore importanza” sono cresciute esponenzialmente. Le imprese pubbliche concorrono con quote decrescenti alla formazione del Pil.

Sono ancora importanti per l’occupazione, i settori strategici, i canali opachi che le legano al governo. Sono però le imprese private a mostrare maggiore dinamismo, abilità imprenditoriali, capacità di generare reddito nella catena globale del valore.

Anche l’export registra il dominio pressoché assoluto delle aziende private e delle multinazionali che hanno investito in Cina. Rimane invece forte il controllo politico della sfera economica, come se a essa fosse stata concessa una delega per le sue migliori capacità di produrre ricchezza sociale.

Made in China 2025, occhio alla qualità
Il blueprint del 13̊ piano quinquennale riflette in pieno questa contraddizione: l’impossibilità di gestire l’economia, non poterne prendere le redini pur mantenendone il controllo. Tornare alla vecchia impostazione è oggi impossibile. Non a caso, anche in cinese la parola “piano” è stata sostituita da “linee guida”.

Quelle enunciate erano attese. Il primo obiettivo sarà la combinazione tra innovazione e miglioramento tecnologico. È un percorso obbligato se la Cina intende uscire da una dimensione quantitativa della crescita, che per tanti, troppi anni l’ha relegata al ruolo di opificio mondiale.

La gigantesca macchina da merci impiantata sul suo territorio l’ha redenta dal sottosviluppo ma ha consegnato il suo futuro a un’incessante produzione. La Cina è nota per essere “la fabbrica del mondo”, non per la sofisticazione dei suoi prodotti. L’obiettivo del piano è promuovere il programma “Made in China 2025”, nell’orgoglio di saper offrire al mondo la qualità cinese.

La green economy cinese 
La scelta della green economy - altra priorità del piano - è sia un obiettivo intermedio che uno strumento utile. Sono consegnati alla storia - o dovrebbero esserlo - le negligenze sull’inquinamento da carbone, l’irresponsabile emissione di Co2, le visioni del traffico impazzito nelle metropoli.

Siamo ancora in presenza di una contraddizione: la Cina è il principale responsabile dell’inquinamento e il paese che spende di più per combatterlo. Lo stesso sforzo di servire l’industria è stato affidato allo sviluppo di internet e della rete, per la loro capacità di tagliare orizzontalmente tutti i settori produttivi.

La riforma del sistema finanziario è l’auspicio probabilmente più ambizioso del piano. Si articola in una maggiore libertà nel mercato dei capitali, nella convertibilità del renminbi, nella richiesta di includerlo tra le valute di riserva del Fondo monetario internazionale. Su questo terreno le resistenze interne e internazionali saranno serrate, perché la riforma si annuncia destabilizzante per interessi ed equilibri consolidati.

È stato infine annunciato un miglioramento del welfare state, con l’estensione delle coperture assicurative per le malattie e un miglioramento del sistema pensionistico. Sono segnali importanti per incrementare il consenso, garantire la stabilità e consegnare alla storia ineguaglianze sociali sempre meno giustificabili.

Il piano quinquennale riprende dunque temi già avviati dal governo; li codifica, ma non li introduce. La sua funzione è simbolica e programmatica, ma sempre meno cogente. Conferma che ogni decisione cinese è frutto di sintesi prima ancora che di scontro tra linee antitetiche, anche se questo non significa che le decisioni prese saranno redditizie o indolori per tutti.

Romeo Orlandi è Sinologo, economista, Professore di Economia dell’Asia Orientale all’Università di Bologna.
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mercoledì 18 novembre 2015

Orizzoniti Cina: La politica di trasformazione cinese ed altri articoli


 bimestrale OrizzonteCina (ISSN 2280-8035)*

In questo numero articoli su:

• La politica di difesa cinese: una trasformazione lunga trent’anni
• La strategia attuale della Cina e le lezioni del passato
• La Cina e il peacekeeping: una “potenza responsabile”?
• La privatizzazione della protezione del personale e delle infrastrutture cinesi all’estero
• La Cina è veramente vicina: Nato, Ue e il vicinato dell’Italia
• Le relazioni militari tra Cina ed Europa: dinamiche attuali e prospettive
• I dieci anni di Associna
• Come interpretare i dati sulle importazioni della Cina?
• Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi. Recensione


 Cliccare sopra le parole per andare agli articoli
Buona lettura!

venerdì 6 novembre 2015

Cina: verso la normalizzazione dei rapporti con Taiwan

Asia
La stretta di mano tra i signori di Cina e Taiwan
Nello del Gatto
09/11/2015
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Un minuto e passa di stretta di mano davanti a fotografi e videoperatori, contro 66 anni di gelo. L’incontro a Singapore tra il presidente cinese Xi Jinping e quello taiwanese Ma Ying-jeou è stato un momento centrale della vita politica e diplomatica asiatica.

Anche se la stretta di mano tra i due “cugini” assume un valore eccezionale ed apre la strada a speculazioni e a nuovi scenari, nessun risultatoè stato portato a casa.

Durante l’incontro, le due parti hanno rispettato le loro differenze, di forma e veduta. I due leader non si sono chiamati presidente, ma “signore”. A tavola non ci sono state bandiere e sui segnaposti il nome di Xi è stato scritto in cinese semplificato, mentre quello di Ma è apparso nella lingua tradizionale di Taiwan.

Pechino è rimasta ferma sulle sue posizioni di una sola Cina, secondo quanto già espresso nel 1992. In quell’anno, a Hong Kong ci fu un incontro tra esponenti della cinese Association for Relations Across the Taiwan Strait e la Taiwan’s Straits Exchange Foundation.

Il consenso verbale che ne derivò portò al riconoscimento comune del principio di “una sola Cina”, anche se con visioni diverse, che per i cinesi significa riunificazione con l’ex Formosa che ritorna sotto il controllo di Pechino, mentre per i taiwanesi del Kuomintang (il partito nazionalista) l’opposto, con la conservazione dello status quo e la non invasione cinese. Lo stesso consenso, non è invece riconosciuto dagli avversari politici di Ma e del suo partito.

Pechino ha inoltre voluto ribadire, sempre simbolicamente, la sua concezione di Taiwan come provincia ribelle e non come paese vero e proprio. Per evidenzialo ha inviato alla conferenza stampa finale Zhang Zhijun, presidente dell'Ufficio per gli affari di Taiwan della Repubblica Popolare. Un burocrate di medio livello.

Parallelamente, l'altra conferenza è stata presidiata da Ma che ha anche ribadito di aver chiesto spiegazioni a Xi dei missili posti a poche centinaia di chilometri dall’isola, ricevendone assicurazioni non belligeranti in merito.

Ma e la linea diretta con Pechino
Sin dalla sua elezione del 2008, Ma Ying-jeou ha cercato una linea diretta con Pechino e sotto la sua presidenza - ormai in scadenza - la distanza fra i due paesi si è notevolmente ridotta: sono ripresi i voli diretti tra molte città cinesi e Taipei; lo scambio commerciale bilaterale è cresciuto esponenzialmente arrivando, nel 2014, a 200 miliardi di dollari e numerose aziende taiwanesi, Foxconn in testa, si sono affrettate ad aprire fabbriche in Cina.

A questo si sommano i milioni di turisti, cinesi e taiwanesi, che viaggiano da un paese all’altro. Senza contare le vicinanze culturali e le imitazioni in termini di moda e stile di vita delle nuove generazioni.

Le prossime elezioni di gennaio sembrano però destinate a portare alla sconfitta di Ma a favore del Partito Democratico Progressista che non riconosce quanto deciso nel 1992. Temendo una colonizzazione che conduca alla perdita dell’attuale status del paese, annullando i traguardi raggiunti in termini politici e sociali, Pechino perché teme che Taiwan possa diventare una sorta di seconda Hong Kong che, mentre si avvicina sempre più al totale controllo di Pechino, pare perdere il principio di “un paese due sistemi” che l’ha governata fino ad ora.

Non a caso, a Taipei e in altre città taiwanesi, come successo già ad Hong Kong, soprattutto le nuove generazioni sono scese in piazza per protestare contro la stretta di mano e l’incontro tra i due presidenti.

Le prossime elezioni rischiano quindi di rallentare o addirittura interrompere il processo eventualmente iniziato con la stretta di mano di sabato a Singapore, un evento importante anche in chiave geopolitica per una serie di fattori.

L’ultimo disgelo della guerra fredda
Innanzitutto perché è stato l’ennesimo disgelo, semmai ne fosse rimasto qualcuno, della guerra fredda fra i due blocchi mondiali contrapposti. Taiwan è da sempre amica degli Usa, che oltre all’ex Formosa puntano sul Giappone per arginare nell’area l’influenza cinese.

In questi giorni di tensioni nel mar cinese meridionale - con le Spratly al centro di contese (anche Taiwan ne reclama alcune), navi militari Usa che le attraversano e i cinesi minacciano azioni anche di guerra - un riavvicinamento può aiutare.

Così come l’ingresso di Taiwan nella banca di sviluppo voluta dai cinesi (con un status appropriato, si è affrettato a spiegare Pechino) o nei due trattati transpacifici guidati uno dagli Usa e l’altro dalla Cina.

Fattore Taiwan nelle relazioni tra Cina e Vaticano
Infine, il riavvicinamento tra Cina e Taiwan può giovare anche al Vaticano che non ha relazioni diplomatiche con Pechino, anche a causa del suo riconoscimento di Taiwan.

Se negli ultimi anni il riavvicinamento tra Santa Sede e Pechino sembra aver aperto qualche spiraglio, il dialogo tra la Cina e Taiwan potrebbe portare risultati. Resta impensabile che la Cina possa permettere ad un paese straniero (Vaticano) di nominare sul proprio territorio funzionari (Vescovi) che controllano parte della popolazione. Ma qualche concessione potrebbe comunque essergli fatta.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo.
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domenica 1 novembre 2015

Cina: la crescita globale

Economia
Lo storico ruolo della Cina negli squilibri finanziari globali
Carlo Milani
31/10/2015
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Le turbolenze finanziarie che hanno colpito negli ultimi mesi la Cina hanno acceso un forte dibattito in merito ai potenziali contraccolpi sulla crescita globale.

A risentire di questo contesto sono, da un lato, i paesi emergenti, soprattutto quelli che basano il loro modello di business sulla produzione di materie prime, come ad esempio Brasile, Russia e Sudafrica. Alla diminuzione della produzione cinese si associa evidentemente la minor richiesta di beni di consumo.

A soffrire sono però anche i paesi avanzati che vendono questi beni e capitale alla Cina e agli altri emergenti. Ad agosto, ad esempio, la Germania ha registrato un calo dell’esportazioni del 5,2 per cento su base mensile, la flessione più consistente dal gennaio del 2009.

La Cina, dopo aver contribuito in modo determinante a creare le condizioni macroeconomiche e finanziarie che hanno poi portato alla crisi internazionale del 2007/2008, risulta essere ancora uno snodo cruciale per la stabilità/instabilità globale.

Dall’economia socialista al mercato globale 
Facendo un breve excursus storico, l’ingresso a pieno titolo dell’economia cinese nel quadro internazionale deve esser fatto risalire agli anni ’80. In quel periodo, e sotto la guida di Deng Xiaoping, venne adottata la cosiddetta economia socialista di mercato.

Il leader cinese introdusse una serie di riforme economiche volte a trasformare profondamente l’economia e in particolare l’agricoltura e l’industria. Nel settore agricolo si incentivò l’utilizzo della tecnologia al fine di aumentarne la produttività.

Come conseguenza, le braccia che prima venivano utilizzate nei campi potevano, ora, essere utilizzate nelle fabbriche. Si mise così in moto un processo di migrazione della popolazione dalle aree rurali alle aree urbane industrializzate, prevalentemente concentrate lungo le zone costiere. La popolazione urbana passò dai 190 milioni di abitanti circa del 1980 ai circa 750 milioni del 2014.

Contemporaneamente a questo esodo, la Cina, già dal 1986, avviò le procedure per entrare a far parte del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), divenuto in seguito Wto (World Trade Organization), il cui processo si è poi formalizzato nel 2001, garantendo all’economia cinese la possibilità di entrare a pieno titolo nei mercati globali.

Grazie all’impiego di un’immensa manovalanza a bassissimo costo e all’utilizzo di politiche valutarie particolarmente aggressive, che hanno determinato nel periodo pre-crisi una netta svalutazione della moneta cinese rispetto a tutte le principali valute internazionali, il commercio estero ha avuto un fortissimo impulso.

La bilancia delle partite correnti è arrivata a toccare il ragguardevole picco del 10 per cento del Pil nel 2007, spingendo il peso dell’economia cinese sul complesso del Pil mondiale, in termini di parità dei poteri di acquisto, a circa il 12 per cento contro il 3 per cento circa degli anni ’80.

Specularmente, il saldo di conto corrente degli Usa registrava una continua caduta, toccando il livello minimo di 6 punti di Pil nel 2006. In altri termini, la Cina riuscì, nel periodo pre-crisi, a inondare i mercati con i suoi prodotti che andarono a riversarsi soprattutto negli Stati Uniti.

Per finanziare il disavanzo delle partite correnti, gli Usa hanno ottenuto i capitali proprio dalla Cina. Gli ingenti capitali accumulati dall’economia cinese, posto il bassissimo livello dei tassi presenti nel mercato domestico per effetto delle politiche di svalutazione del cambio, sono andati alla ricerca di migliori rendimenti.

All’origine della bolla azionaria
Nella seconda metà degli anni ’90 gli investimenti sono confluiti soprattutto nel mercato azionario statunitense, attratti dagli ottimi rendimenti che il comparto della cosiddetta New Economy riusciva a offrire. Così facendo hanno però alimentato la generazione della bolla azionaria.

Quando quest’ultima è esplosa,i capitali sono andati a riversarsi soprattutto sul mercato obbligazionario (pubblico e privato) e ancor più sui titoli aventi come sottostante mutui immobiliari. Ancora una volta l’effetto è stato quello di generare una bolla speculativa negli Usa, nello specifico del mercato bancario ombra.

Con lo scoppio di questa nuova bolla, ancor più virulento rispetto a quello della New Economy, per le autorità cinese è divenuta evidente l’esigenza di rivedere il loro modello di business, cercando di sostenere di più la domanda interna e in particolare i consumi delle famiglie.

Gli eccessi degli anni passati, con l’immissione di ingenti quantità di liquidità soprattutto sotto forma di finanziamenti erogati dalle banche pubbliche alle imprese, anch’esse per buona parte controllate dallo Stato, hanno però surriscaldato oltre misura l’economia domestica.

I prezzi degli immobili hanno registrato negli anni una forte crescita, evidenziando la potenziale presenza di una bolla immobiliare. Inoltre, nel tentativo di spingere le famiglie a consumare di più attraverso l’azione degli effetti ricchezza, si sono attuate iniziative per far crescere artificialmente le quotazioni azionarie, ad esempio attraverso le operazioni al margine volte a concedere crediti aventi come scopo ultimo la speculazione finanziaria.

Il risultato è stato aver generato una bolla sul mercato azionario che nel momento della sua esplosione, nello scorso luglio, ha provocato il panico a livello internazionale con conseguenze ancora difficili da valutare compiutamente.

Carlo Milani è Economista presso il Centro Europa Ricerche. Questo articolo è tratto dal suo libro “Alle radici della crisi finanziaria. Origine, effetti e risposte”, Egea Editore, 2015.
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