Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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lunedì 27 ottobre 2014

Summit Asia-Europa

Asia-Europe meeting
All’Asem l’Ue cerca un ruolo nel grande gioco asiatico 
Nicola Casarini
16/10/2014
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Il decimo summit dell’Asia-Europe meeting (Asem), in programma a Milano il 16-17 ottobre è un’occasione per riflettere sui traguardi raggiunti, e le sfide future, che attendono questo forum di discussione inter-regionale unico nel suo genere.

Il suo maggior successo sta nell’essere riuscito, nel corso degli anni, a restare il solo forum di dialogo tra Europa e Asia veramente rilevante, a tal punto che molti altri paesi non appartenenti al gruppo originario vi hanno voluto via via aderire.

Oggi però, la crescita esponenziale dei suoi membri è il suo limite maggiore. Per uscire da questa impasse sarebbe opportuno ritornare allo spirito delle origini, attraverso un rinnovato partenariato tra Unione europea (Ue), e Asean+3 (Cina, Giappone e Corea del Sud).

Asem contraltare all’Apec
L’Asem mette insieme, da una parte, i 28 paesi membri della Ue, due paesi associati quali la Svizzera e la Norvegia e la Commissione europea.

Dall’altra, ci sono venti paesi asiatici: i dieci membri dell’Associazione delle nazioni del Sud est asiatico, Asean, - più il Segretariato Asean - e poi Cina, Giappone, Corea del Sud (per l’Asia nord-orientale), India, Pakistan e Bangladesh (per l’Asia meridionale), Australia, Nuova Zelanda e Russia. Per un totale di 51 membri - e la prospettiva di accoglierne dei nuovi.

Questo numeroso consesso rappresenta circa il 60% della popolazione mondiale, la metà della ricchezza globale, e due terzi del commercio internazionale. Eppure è proprio questo che ne limita la sua azione.

Troppi sono infatti i paesi membri e troppe le diversità perché l’Asem possa esercitare in maniera efficace quel ruolo di promozione del dialogo e degli scambi tra Europa e Asia che lo ha fatto nascere.

La creazione dell’Asem nel 1996 rappresentò una novità nello scacchiere internazionale, istituzionalizzando per la prima volta dal secondo dopoguerra un canale di dialogo diretto tra i leader delle due parti, con la non celata intenzione, da parte europea, di far da contraltare all’Apec, l’Asia-Pacific economic cooperation di ispirazione americana, e da parte asiatica, ridurre la predominanza delle relazioni transatlantiche sull’economia globale.

Al primo summit dell’Asem a Bangkok parteciparono in 26: per la parte europea, gli allora 15 paesi membri della Ue più la Commissione europea. Da parte asiatica, gli allora sette paesi membri dell’Asean più Cina, Giappone e Corea del Sud - il cosiddetto Asean+3.

Questo gruppo, nato a margine del primo incontro Asem - e apertamente osteggiato dalle varie amministrazioni Usa, che vi vedevano in esso un tentativo di limitare l’influenza di Washington - è divenuto da allora il punto focale del processo di integrazione in Asia.

Contributo italiano nell’Asem
Attraverso l’Asem, la Ue ha così giocato sia la carta geopolitica - attraverso la creazione di un forum alternativo all’Apec - che la carta dei principi - appoggiando l’Asean+3 e, più in generale, le iniziative asiatiche verso una maggiore integrazione.

Ma mentre il mondo è profondamente cambiato dal 1996, non lo è l’Asem che si è allargato, senza mai però ripensarsi veramente. Con 51 membri, che vanno dall’Australia alla Russia passando per il Bangladesh, che futuro può avere l’Asem? E quale potrebbe essere il contributo dell’Italia?

Sarebbe nell’interesse di lungo termine della Ue quello di promuovere, all’interno dell’Asem, una discussione in vista di un accordo di libero scambio con il gruppo dell’Asean+3 (all’origine, lo ricordiamo, dell’Asem stesso).

Questo avrebbe un duplice risultato, sia economico che geopolitico. Da una parte, metterebbe insieme la serie di accordi che l’Ue ha già siglato (l’accordo di libero scambio con la Corea del Sud e Singapore), che ha in essere (Vietnam, Giappone) e quelli sui quali c’è un’intenzione di massima (Asean, Cina).

Allo stesso tempo, lancerebbe un messaggio politico di grande importanza verso l’Asia, incluso un appoggio pieno ai tentativi di integrazione regionale.

Nuovo partenariato Ue-Asean+3
Con una tale proposta, l’Ue eviterebbe di venire esclusa dalle dinamiche in atto in questa parte del mondo, visto anche che l’Unione è il secondo partner commerciale dell’Asia, subito dopo la Cina, ma prima degli Stati Uniti.

Questi ultimi - attraverso la cosiddetta Trans Pacific Partnership - mirano a creare un’area di libero scambio con alcuni paesi dell’Asia che tenderebbe a escludere alcune economie, quali la Cina. Ciò minerebbe in profondità gli sforzi verso una maggiore integrazione regionale. Inclusi quelli - seppur difficili, ma degni di essere perseguiti - tra Pechino, Seoul e Tokyo.

Un eventuale accordo di libero scambio tra le tre grandi economie dell’Asia nord-orientale avrebbe importanti ricadute sulla sicurezza regionale. E ciò non è marginale in quest’area del mondo attraversata da forti nazionalismi.

Il governo italiano si trova in una situazione di forza in questo momento. La nomina del nostro Ministro degli Esteri, Federica Mogherini, ad Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera lo testimonia.

Potrebbe essere il lancio di un nuovo partenariato tra Ue e Asean+3 l’occasione per la politica estera italiana - ed europea - di inserire stabilmente l’Ue nel grande gioco asiatico raccogliendone i frutti sia economici sia politici?

Nicola Casarini è Public Policy Scholar presso il Wilson Center in Washington e consulente di ricerca dello Iai.
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Cina: una protesta che cova dal 1997

Asia
La Cina non teme il contagio di Hong Kong
Silvia Menegazzi
11/10/2014
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La protesta ad Hong Kong è lo sfogo di un malcontento cresciuto sin dal 1997 che la Cina conosce bene. Le motivazioni della protesta scoppiata nel distretto finanziario di Hong Kong sono montate soprattutto nell’ultimo decennio.

Almeno dal 2004, quando migliaia di cittadini erano scesi nelle piazze per richiedere il suffragio universale in vista delle elezioni dello chief executive del 2007, decisione esclusa ieri come oggi, dal governo centrale.

La situazione è precipitata a giugno con la pubblicazione del Libro Bianco contenente le vere linee guida di Pechino per la Regione amministrativa speciale di Honk Kong, Hksar, tra cui, “il potere di controllo del governo centrale sull’alto grado di autonomia accordato alla regione ad amministrazione speciale della Hksar”.

In vista delle elezioni del 2017 il malcontento sarebbe poi ulteriormente peggiorato,anche a causa della scelta decisiva di Pechino in merito ai candidati ammessi: solo 2 o 3 e ovviamente, “amanti della Cina”.

Da Hong Kong a Guanzhou
Più democrazia e diritti, questa la questione alla base del forte contrasto tra Pechino ed i migliaia di manifestanti che hanno assediato le strade della ex-colonia britannica nell’ultima settimana.

Il New York Times riporta che l’eco della protesta sarebbe giunto fino alla provincia cinese del Guangdong, Guanzhou, dove un gruppo di attivisti ha deciso di dimostrare solidarietà tramite l’iniziativa “Going Bald for Hong Kong”, in seguito al “la” dato da Ou Biaofeng, attivista indipendente, che per solidarietà decide di rasarsi i capelli. L’iniziativa ha fatto il giro del - seppur controllato - web cinese, raccogliendo anche il consenso di alcune decine di attivisti.

Censura e simpatizzanti esclusi, è fondamentale sottolineare come le proteste del movimento di Occupay Central (OC), presentino però ben poca continuità con le centinaia di altre proteste (o “incidenti di massa” qúntǐ shìjiàn) che avrebbero interessato la Cina continentale di questi ultimi anni, dove questioni relative alle condizioni economiche e ancor più sociali di migliaia di cinesi sembrerebbero influire molto di più al fine della mobilitazione di massa.

Inoltre, se da un lato gli abitanti della madrepatria difficilmente guarderebbero ai cittadini di Hong Kong con ammirazione, considerandoli almeno in parte, il frutto di quello sviluppo economico che tanti di loro non hanno mai conosciuto; dall’altro, la protesta sembrerebbe aver raccolto la solidarietà certa seppur quasi esclusiva, di quelle provincie, speciali o a statuto conteso che siano, che per questioni identitarie e/o politiche da tempo sarebbero in combutta con il governo centrale.

In primis, Taiwan. Ma Ying-Jeou, ex-sindaco di Taipei e attuale Presidente in carica, fa sapere che non solo Taiwan sostiene le proteste pro-democratiche di Hong Kong, ma che i valori promossi dagli attivisti del movimento Oc sono gli stessi alla base del Kuomintang, il Partito nazionalista cinese.

Simpatia per il movimento di Hong Kong potrebbe forse arrivare, seppur in sordina, anche dallo Xinjiang - regione autonoma uigura - sulla scia del malcontento generato dalla decisione presa proprio a fine settembre a Urumqi di condannare all’ergastolo Ilham Thoti, intellettuale e stimato professore all’Università delle minoranze di Pechino.

Proteste nella Cina continentale
Le proteste di Oc scoppiano in un momento particolarmente delicato per i rapporti stato-società in Cina. Solo qualche anno prima, nel 2008 e nel 2009, proteste notoriamente rumorose sconvolgevano altre due regioni autonome, Tibet e Xingjiang, attirando l’attenzione della comunità internazionale.

E tuttavia, coloro che avrebbero visto nelle proteste di Hong Kong una qualsiasi forma di continuità con le proteste che (giornalmente) interessano centinaia di cinesi, così come quelle delle due regioni autonome, potrebbero rimanere delusi.

Anche se dagli inizi degli anni 2000 in Cina c’è stato un chiaro aumento delle proteste popolari, queste non riguardano questioni affini a una maggiore richiesta di democrazia, trattandosi perlopiù di questioni generate da un malcontento relativo alla trasformazione socio-economica in termini spesso peggiorativi delle classi più povere, delle sempre più problematiche questioni ambientali, o più semplicemente, contro i funzionari corrotti a livello locale.

Tranquillità per Pechino 
Da Pechino però, proprio in uno dei pochi editoriali dedicati alle proteste, quello del Global Times, fanno sapere che nonostante gli incidenti di massa rappresentino un problema serio in Cina, questi non costituiscono una sfida diretta per la stabilità della società cinese.

Il timore di contagio delle proteste nella Cina continentale resterebbe dunque altamentente infondato. Così come attribuirne l’assenza esclusivamente alla censura degli organi governativi, offre un’analisi limitata per poter comprendere la complessità della relazione stato-società della Repubblica popolare cinese.

Silvia Menegazzi è Assistente di Cattedra di Relazioni Internazionali, PhD Fellow Dipartimento di Scienze Politiche, LUISS.
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lunedì 20 ottobre 2014

Turchia: sempre più lontano dall'Europa

Turchia
La scuola di Erdoğan, sì al velo, no ai tatuaggi
Emanuela Pergolizzi
30/09/2014
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Da Istanbul a Kars, da Izmir a Van le scuole turche hanno aperto le porte a un nuovo anno accademico proprio mentre nei corridoi scolastici si è giocato l'ultimo - almeno per ora - braccio di ferro tra i principi laici della repubblica kemalista e le riforme del governo del partito della Giustizia e dello sviluppo (Akp) dell'oggi presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan.

Sì al velo, no ai trucchi
Con una dichiarazione rilasciata il 22 settembre, il nuovo primo ministro Ahmet Davutoglu ha annunciato la decisione del suo governo di abolire il divieto di indossare il velo in scuole medie e licei, a partire dal decimo anno d'età.

Da sempre in primo piano nell'agenda politica dell'Akp, la nuova regolamentazione è l'ultimo di una serie di passi che dal 2008 hanno tentato di eliminare il tabù del velo.

Nel 2011 le prime studentesse velate poterono fare ingresso nelle aule universitarie, eliminando la restrizione che le aveva lasciate per decenni dietro le porte dell'istruzione superiore. Nel novembre 2012, il divieto fu abolito anche per gli imam-hatip, i licei religiosi, e durante i corsi opzionali per lo studio del Corano in tutti gli istituti superiori pubblici e privati.

L'anno scorso infine, è stata la volta di maestre e professoresse, beneficiarie della liberalizzazione del velo in tutte professioni pubbliche grazie al cosiddetto "pacchetto di democratizzazione" varato in autunno dal governo.

Una progressione verso un'apertura democratica necessaria, ma anche verso una Turchia che si arricchisce di nuovi simboli e modelli.

Così se da un lato si è permesso l'uso del velo, nel fine settimana un'ulteriore modifica del codice d'abbigliamento degli studenti ha vietato l'utilizzo del trucco, della tintura per capelli, di piercing e tatuaggi nelle scuole.

Imam-hatip, licei religiosi in aumento
Accolte con entusiasmo dai sostenitori dell'Akp, le nuove regolamentazioni mostrano il volto religioso-conservatore della Turchia storicamente repressa dalla laicità sorda dello stato e sferrano l'ultimo violento colpo di coda ai principi del fondatore della repubblica, Mustafa Kemal.

Dal maggiore attore d'opposizione, il partito del Popolo repubblicano (Chp) di ispirazione kemalista, si sollevano forti preoccupazioni circa l'avanzamento verso una Turchia veramente più libera e democratica.

La nuova misura va infatti inserita all'interno di una complessa costellazione di riflessioni, come il sorprendente aumento dei licei religiosi, gli imam-hatip, cresciuti circa del 73% dal 2010 secondo ricerche dell'Università Sabanci.

Preoccupazioni profonde sono poi state espresse in agosto, quando a seguito dell'esame di transizione tra la scuola primaria e secondaria (Teog) - un sistema d'assegnazione dei bambini alle scuole superiori sulla base del punteggio ottenuto nell'esame finale della scuola media - molti ragazzi, anche di religione non musulmana, si sono visti iscritti d'ufficio alle scuole islamico-religiose.

Infine, proprio il giorno dopo l'inizio delle lezioni, il 16 settembre, la Corte europea dei diritti umani ha chiesto ad Ankara di rivedere l'obbligatorietà del corso di "cultura religiosa e conoscenza morale", basato su principi di ispirazione sunnita e imposto anche ai ragazzi di credo alevi, principale minoranza sciita del paese che da anni lamenta discriminazioni aperte da parte del governo.

La silenziosa rivoluzione di Erdoğan
Acquista nuove forme e significati uno degli slogan storici del presidente Erdogan - "sessiz devrim", silenziosa rivoluzione.

La "nuova Turchia" annunciata al termine della sua vittoriosa campagna presidenziale di agosto, è un paese dove il velo è ormai libero tanto nei corridoi istituzionali di Ankara che in quelli scolastici, ma dove emergono nuovi interrogativi e tabù.

A settembre, un referendum ha chiesto ai genitori degli studenti del liceo privato Elginkan di esprimere la loro opinione sulla possibilità di vietare l'uso delle gonne per le ragazze. Già l'anno scorso a Trabzon il direttore provinciale per l'educazione aveva espresso forte disagio per la vicinanza di ragazzi e ragazze nelle scale dei licei. Quasi negli stessi giorni, a Sparta, un altro istituto aveva decretato la loro separazione nelle mense comuni.

Anche se i connotati della "silenziosa rivoluzione" di Ankara resto ancora incerti, il braccio di ferro sulla laicità, principio-faro della repubblica kemalista, è ormai definitivamente vinto dal governo.

Emanuela Pergolizzi è stata stagista IAI nel quadro del programma Global Turkey in Europe (twitter: @empergolizzi).
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mercoledì 15 ottobre 2014

Corea del Nord: perdura l'assensa

In occasione del 69° anniversario della fondazione del Partito dei Lavoratori, di cui è capo, non si è presentato il dittatore nord coreano Kim Jong un, assente dalla scena pubblica da oltre un mese. Le ipotesi che sono state fatte si riassumono nelle due più probabili: l'assenza è dovuta ad una malattia, che sembra essere, quindi, grave, oppure Kim è prigioniero del numero 2 della Nomenclatura nordcoreana Hwang Pyong-so. La lotta al vertice dello Stato sembra farsi più cruenta sian nella prima che nella seconda ipotesi.
La forma è stata rispettata: al posto assegnato a Kim durante la cerimonia è stato posto un vaso di fiori. La stampa del regime non ha commentato l'evento.