Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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mercoledì 19 novembre 2014

Cina Continentale e Cina Nazionalista. Il problema degli stretti 1950-1960

Articolo predisposto per il progetto

Le Porte della Memoria

rivista dedicata al recupero e conservazione degli avvenimeti del passato con una finestra sul presente.

L'articolo di Stefano Felician Beccari dimostrava come al progetto della rivista avessero aderito giovani di valore, a titolo gratuito



GEOPOLITICA DELLE PROSSIME SFIDE




Storia militare della Repubblica di Cina:
 dalle origini alle crisi degli stretti (1954-55 e 1958)

 Stefano Felician Beccari







I cambiamenti che seguirono la fine della Seconda Guerra Mondiale influenzarono particolarmente due continenti, ovvero l’Europa e l’Asia. Se la definizione del nuovo assetto politico del Vecchio Continente fu, tutto sommato, abbastanza rapida e indolore sul piano militare (se si esclude la guerra civile greca), in Asia la transizione fu diversa e ben più complicata. Come ricorda Crockatt, infatti, <[1]
>>. Epicentro di questo nuovo e difficile equilibrio postbellico fu la Cina, le cui vicissitudini interne influenzarono tutta la futura definizione della geografia politica asiatica. Le dinamiche militari giocarono un ruolo determinante nella composizione di questo nuovo assetto, anche se spesso con una funzione ausiliaria o ancillare rispetto alle ben più complesse trame che le superpotenze andavano tessendo.   L’assetto postbellico, però, si dimostrò incapace di resistere alle sempre più forti spinte centrifughe che continuarono ad agitare la destabilizzazione della regione. Le superpotenze vincitrici, forti della loro influenza ideologica, ma soprattutto politica, militare ed economica, non persero tempo ad organizzare una rete di stati satellite capaci di contenere le manovre dell’avversario e, nel contempo, garantirsi una serie di posizioni strategiche potenzialmente utili per successive operazioni. Da questo domino geopolitico scaturirono una serie di divisioni artificiali di paesi i cui casi più noti sono il Vietnam (il cui Sud perirà nel 1975), la Corea, ancora oggi divisa in due ed infine il caso forse meno noto,  ovvero quello della Repubblica di Cina (in inglese Republic of China, ROC) più famosa in occidente con il nome di Taiwan o con l’appellativo della sua capitale, Taipei. Molti di questi stati, spesso creature artificiali, non esitarono a ricorrere alla forza per sistemare le inevitabili contese in cui erano coinvolti, dando origine ad una serie di conflitti, scontri ed incidenti più o meno estesi, che non contribuirono alla stabilità regionale.
In questo scenario fluido e complesso si inquadra la vicenda della piccola isola di Formosa, o Taiwan, “scoperta” dai portoghesi e così battezzata per la bellezza e la rigogliosità della sua vegetazione. Da sempre attratta nell’orbita cinese (salve le occupazioni degli “occidentali” in epoca coloniale) Taiwan soffrì – al pari dell’impero continentale – gli effetti della nascente potenza giapponese e delle ambizioni geopolitiche di Tokyo. Al termine della prima guerra sino-giapponese (1894-1895) la sconfitta del Celeste Impero aprì la strada alla conquista nipponica sia della penisola di Corea che di Taiwan. Il successivo Trattato di Shimonoseki[2] all’articolo 2 suggellava giuridicamente il passaggio della sovranità di Formosa dalla Cina al Giappone[3]. Quando iniziò la Seconda guerra mondiale, l’isola di Taiwan era sotto controllo giapponese: la fine del conflitto, però, non significò il ritorno ad un’era di pace, nonostante la cessazione dell’occupazione nipponica e la restituzione alla madrepatria cinese. I venti di guerra civile che spiravano nella Cina continentale non si erano ancora placati, ed il semplice ritiro delle unità nipponiche altro non era che la quiete prima di un’altra tempesta, destinata a placarsi solo verso la fine degli anni ‘50.

  1. La guerra civile cinese e la fuga di Chang Kai Shek: nasce la Repubblica di Cina
Prima di poter affrontare la storia militare della Repubblica di Cina è indispensabile tracciare brevemente i motivi che hanno comportato la nascita di questo stato. Ciò significa, inevitabilmente, riferirsi alla guerra civile cinese che ha insanguinato il paese negli anni fra il 1927 ed il 1949, e che portò alla nascita delle “due Cine” che ancora oggi conosciamo[4]. Questa divisione trae le sue origini dalla lunga guerra civile combattutasi in due round diversi e spezzati dalla Seconda guerra mondiale, al termine della quale, almeno formalmente, la Repubblica di Cina controllava tutto il paese e la neo-restituita isola di Taiwan. A capo della ROC c’era il Generalissimo Ciang Kai Shek, condottiero militare e leader del partito nazionalista Kuomintang (KMT). I lunghi anni di guerra antigiapponese, però, non avevano sopito le pesanti fratture che agitavano la società cinese, e che prontamente riemersero non appena le truppe di Tokyo tornarono in patria. La principale opposizione al Kuomintang era svolta da un piccolo partito di matrice comunista, ovvero il Partito Comunista Cinese, guidato dal giovane leader Mao Tse Tung. Entrambi i partiti disponevano non solo del tradizionale apparato politico, ma anche di milizie armate, con moltissimi membri temprati da anni di resistenza contro i giapponesi. La sfida Kuomintang-Partito Comunista dopo il 1945 sembrava facilmente destinata a risolversi a vantaggio del KMT. L’appoggio statunitense a Chiang ed alla sua fazione sembrava da solo essere risolutivo, senza considerare il consenso internazionale di cui godeva il Generalissimo ed il controllo del territorio esercitato dal KMT. Inoltre nel corso della prima fase della guerra civile i reparti del Kuomintang avevano ripetutamente fronteggiato gli avversari comunisti, tanto da costringerli ad una lunga ritirata strategica passata alla storia come “Lunga marcia”. Proprio durante questa massacrante operazione, poi mitizzata dalla storiografia di parte, emerse la figura di Mao Tse Tung quale futuro leader del Partito Comunista Cinese, oppositore del KMT.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nazionalisti e comunisti tornarono ad affrontarsi militarmente per la supremazia politica in Cina, come prima dell’invasione giapponese. I tentativi di riconciliazione, portati avanti dal Generale George Marshall, futuro autore dell’omonimo piano di ricostruzione economica, si rivelarono infruttuosi sin dal suo arrivo in Cina nell’inverno del 1945. Le varie richieste di cessate-il-fuoco venivano sistematicamente disattese dalle parti, troppo impegnate a contendersi la primazia piuttosto che accordarsi su una soluzione comune. Quando il Generale Marshall abbandonò il suo incarico, a gennaio 1947, la guerra civile in Cina era ormai riesplosa in tutta la sua interezza e ferocia. L’iniziale vantaggio del Kuomintang venne progressivamente eroso dall’avanzata delle unità comuniste, che in pochi anni riuscirono a controllare porzioni sempre maggiori del paese. Mentre il prestigio e la forza dei nazionalisti si sgretolavano, Mao e le sue unità riuscivano a liberare e controllare sempre maggiori porzioni di territorio cinese. Il 1 ottobre 1949, a Pechino, venne proclamata la nascita della nuova Repubblica Popolare Cinese (RPC), mentre Chiang Kai Shek ed i suoi seguaci, circa 2 milioni di persone, abbandonavano il continente per rifugiarsi nell’isola di Taiwan. Le poche sacche di resistenza rimaste sul continente vennero velocemente soffocate dagli uomini di Mao. Con l’arrivo di Chiang a Taiwan nasceva così la Repubblica di Cina rivale della RPC, e “unica” rappresentante della Cina fino agli anni ’70. La ritirata del KMT non significò la fine delle ostilità, ma il loro evolvere verso forme più complesse e, soprattutto, non più legate al mero piano nazionale. Così la difficile coesistenza fra le “due Cine” entrava a pieno titolo nelle complesse dinamiche della Guerra fredda. 

Le distanze tra Taiwan e la Cina Continentale


  1. In cerca di un equilibrio: le tensioni ROC-RPC e la nuova geopolitica del Pacifico
Sin dagli inizi le relazioni fra i due stati furono molto difficili, per molte ragioni diverse. Sul piano simbolico entrambi rivendicavano di rappresentare la “vera” Cina rispetto agli “impostori” dell’altra parte, rifiutando qualsiasi soluzione di compromesso. Sul piano politico i dissapori ideologici fra i contendenti rendevano impossibile sperare in una riconciliazione pacifica, senza contare che mentre la RPC guardava a Mosca la ROC si rifaceva all’amicizia con gli Stati Uniti. Sul piano militare la contrapposizione era ancora più netta, perché entrambi i paesi ambivano a (ri)conquistare il territorio del rivale, anche con la forza armata: date le ridotte distanze, poi, un conflitto fra i due sembrava inevitabile. Sul piano propagandistico, infine, fra le due nazioni si sprecavano le accuse reciproche, acuite anche dai risentimenti maturati durante la guerra civile. Tutti questi elementi contribuirono a rendere molto complessi i primi anni della Repubblica di Cina, cosa che spesso comportò il ricorso alla forza. Quando nel 1949 le armate di Chiang si ritirarono a Taiwan, quello che rimaneva della “Cina nazionalista” (altra dicitura usata per la ROC) era sostanzialmente l’isola di Taiwan, l’isola di Hainan (situata nel sud della Cina continentale, vicina al nord del Vietnam), le isole Pescadores ed infine alcune isole minori, più o meno vicine alla RPC. La situazione rimaneva instabile, e la sproporzione a vantaggio della RPC era evidente. I fragili equilibri post-guerra civile non erano destinati a sistemarsi rapidamente, e la ritirata di Chiang, in definitiva, altro non fu che un momento di tregua in un conflitto che ben presto riemerse anche sul piano militare. D’altro canto focolai di tensione nell’area non mancavano. Nel brevissimo periodo che intercorse fra la fondazione della RPC (1 ottobre 1949) e la guerra di Corea (25 giugno 1950) la Cina di Mao riuscì ad organizzare un paio di operazioni militari che ridimensionarono notevolmente il territorio della ROC, sconfiggendo le unità nazionaliste. Il confronto si spostava così dal piano terrestre a quello navale, caratterizzando i successivi scontri sino alla fine degli anni Cinquanta dato che caratterizzerà gli scontri fra le due parti sino alla fine degli anni Cinquanta. Escludendo un attacco diretto all’isola di Taiwan, più distante geograficamente, le unità della RPC puntarono su una strategia progressiva, focalizzandosi sulle aree di maggiore vulnerabilità dell’avversario, ancora scosso dagli effetti della ritirata. Per questo motivo il primo attacco della RPC venne portato all’isola di Hainan, una delle più estese isole cinesi, che si trova in posizione strategica per controllare il lato settentrionale del Mar Cinese Meridionale[5]. Nell’aprile del 1950[6] un assalto anfibio delle unità del People’s Liberation Army (PLA, le forze armate della RPC) segnò l’inizio del conflitto di Hainan, che durò circa un mese e si concluse con la sconfitta dei nazionalisti. Analoga sorte toccò poi ad altre isole sotto il controllo della ROC. La fallita difesa delle isole, resa ancora più complessa dalla lontananza da Taiwan, aveva dimostrato la debolezza militare delle unità del Kuomintang, cosa che accese ulteriormente le ambizioni di Pechino. Nonostante la poca preparazione del PLA, soprattutto nelle operazioni anfibie, nulla sembrava poter impedire anche la conquista di Formosa: era solo una questione di tempo. Ma mentre gli strateghi del PLA stavano progettando ulteriori attacchi ai nazionalisti, intervenne un fattore esterno che cambiò drasticamente il corso della storia.
Le ambizioni di Pechino vennero bruscamente interrotte dall’esplodere di un conflitto di tutt’altra natura, ma in cui Mao in primis era chiamato in causa. L’epicentro di questo nuovo confronto Est-Ovest si trovava nella penisola coreana, divisa artificialmente in due dalle logiche della nascente Guerra fredda. Il 25 giugno del 1950 le unità di Kim Il Sung, giovane dittatore della Corea del Nord, attraversarono il confine della rivale Corea del Sud scatenando una guerra che ebbe pesanti ripercussioni a livello mondiale. La rapidità dell’invasione e la profondità dell’offensiva in pochissimo tempo limitarono il territorio della Corea del Sud ad un piccolo perimetro intorno a Pusan, nella parte sud-orientale della penisola. Questo piccolo lembo di Asia, per secoli sconosciuta terra di conquista per gli eserciti cinesi e giapponesi, diventava la prima vera crisi militare della neonata Guerra fredda. Il conflitto coreano fu un vero e proprio choc per l’amministrazione Truman, e, più in generale, rappresentò un punto di svolta nei rapporti fra le superpotenze, poiché <[7]
>>.
Paradossalmente il conflitto coreano fu la salvezza di Taiwan e del governo di Chiang Kai Shek[8], che fino a quel momento non era particolarmente stimato dal Dipartimento di Stato americano. Le accuse di malgoverno, corruzione e la perdita dell’intera Cina continentale non giocavano a favore del Generalissimo, in cui, inizialmente, gli Stati Uniti non riponevano molta fiducia. La guerra di Corea, invece, rimescolò le carte. Il comunismo, attivo ideologicamente e aggressivo militarmente, doveva essere fermato ad ogni costo, e per evitare che il conflitto coreano si espandesse verso sud gli Stati Uniti decisero di proteggere il governo di Chiang Kai Shek a Taiwan[9]. L’amministrazione statunitense, quindi, cambiò radicalmente il suo punto di vista. Il Dipartimento di Stato Americano così ricorda quella svolta: <[10]
>>. La Settima Flotta statunitense venne così inviata nelle acque di Formosa, mentre intanto, in Corea, il Generale MacArthur si apprestava a creare un contingente delle Nazioni Unite, avvallato dal celebre voto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. L’arrivo delle unità della US Navy, il 27 giugno 1950[11], fece naufragare i desideri di riconquista di Mao. Man mano che il conflitto in Corea proseguiva, poi, l’attenzione di Pechino si spostava sempre di più allo scacchiere del nord-est, fino a che i “volontari” cinesi mandati ad aiutare i “fratelli” della Corea del Nord non giunsero a scontrarsi direttamente con le truppe dell’ONU. La strategia della RPC, quindi, si concentrò nel Nord, tralasciando, per il momento, la questione di Taiwan. La fine del conflitto coreano (1953) comportò un ripensamento radicale della strategia americana in Asia, e, quindi, una sorta di piccola “rivoluzione geostrategica” che non mancò di influenzare anche Taiwan. La logica dell’arrendevolezza o dell’incauto disinteresse si era rivelata una drammatica leggerezza per Washington; era quindi necessario riprendere i rapporti con gli alleati, solidificando quelli esistenti e puntellando i regimi amici per evitare ulteriori “contagi” del comunismo nella regione (si pensi al caso dell’Indocina francese). Taiwan divenne così parte di quella serie di stati filoccidentali importanti per esercitare il containment del comunismo. Tuttavia questo “ombrello” americano non impedì ulteriori scontri con la Cina continentale, che portarono alle famose “crisi degli stretti” degli anni ’50.

  1. La rottura dell’equilibrio: le due crisi dello stretto
La fine della Guerra di Corea non portò il complesso scenario asiatico ad una definitiva sistemazione. L’onda lunga della decolonizzazione aprì ulteriori focolai di crisi, come l’Indonesia, la Malesia o l’Indocina, che si sommarono alle rivalità già presenti nella regione. La situazione di Taiwan alla fine del conflitto coreano era nettamente migliore rispetto al 1950, se non altro perché ormai era inserita stabilmente nell’ambito dei paesi filoamericani[12]. Il cauto riavvicinamento fra Taipei e Washington, però, non impedì il sorgere di due delicate crisi politico-militari, note con il nome di “crisi dello stretto di Taiwan”, che, in diverso modo, rischiarono di scatenare un nuovo conflitto mondiale in Asia. Questi due incidenti, avvenuti nel 1954-1955 e nel 1958 rappresentarono due ulteriori passaggi complicati per la storia di Taiwan, e furono l’ultima seria minaccia alla sicurezza nazionale dell’isola, suggellando de facto l’esistenza di “due Cine” e dimostrando l’impossibilità di ricostituire manu militari una sola Cina. 
Le “Crisi dello stretto”, che ancora oggi rappresentano un passaggio dibattuto nella complessa relazione fra Pechino e Taipei, non possono essere confinate al solo piano bilaterale. Questa serie di scaramucce armate, di intensità variabile, riguardarono non solamente le due Cine, ma anche l’URSS e gli Stati Uniti. Le montanti tensioni nello stretto, periodicamente allentate da abili mosse e tatticismi politici delle varie diplomazie coinvolte, ebbero anche dei profili militari che, in definitiva, rischiarono di far precipitare gli Stati Uniti e la Cina popolare in una guerra aperta, con possibili esiti atomici. Infine, sul piano geopolitico, le due crisi segnarono l’inizio di una nuova fase degli equilibri asiatici, mentre l’interesse della Cina popolare, e di Mao in particolare, cominciava ad orientarsi verso questioni politiche interne di natura ben più urgente che la (ri)conquista di Taiwan o delle piccole isole di Quemoy e Matsu, veri e propri casi bellorum delle crisi del 1954 e del 1958.
La prima crisi dello Stretto (1954-1955). Come evidente, i prodromi della contesa risalivano all’instabile stuazione che era andata instaurandosi fra Pechino e Taipei. La Guerra di Corea e il pattugliamento della Settima Flotta non avevano sanato la situazione, ma semplicemente procrastinato il riemergere di successive tensioni. A questo, poi, andava sommato il territorio che era rimasto sotto controllo di Taiwan: a parte l’isola principale, Formosa, il KMT controllava le isole Dachen, le isole Yijiangshan ed infine Quemoy (o Kinmen) e Matsu, oltre alle Pescadores (o Penghu). Se le ultime e Formosa erano sufficientemente distanti dalla Cina continentale, questo non era il caso per le restanti quattro, troppo vicine alle coste della RPC per non far ipotizzare – come già successo con Hainan – un possibile blitz delle unità del PLA. A questa vicinanza geografica (che per isole come Quemoy e Matsu è solo di alcune miglia marine dal continente) si sommava l’atteggiamento di Chiang Kai Shek, che non mascherava le sue ambizioni di riconquistare l’intera Cina continentale. A Washington questa retorica non veniva considerata in termini realisti, ma più come una questione di propaganda. Ad ogni modo il neoeletto Presidente Eisenhower, nel febbraio del 1953, decise di ritirare la Settima Flotta dalle acque antistanti Taiwan, senza però cedere alle pressioni dei “falchi” che volevano favorire i progetti di Chiang Kai Shek. Dato il ritiro statunitense, ad agosto 1954 il KMT cominciò a rafforzare le proprie guarnigioni su Quemoy e Matsu, attirandosi ben presto le critiche di Pechino, preoccupata dall’attivismo dei nazionalisti e dalla fine dell’indiretta protezione americana. A questa scelta di Taiwan, poi, si aggiunse il dibattito sull’istituzione dell’allenza South East Asia Treaty Organization (SEATO), che venne creata a Manila proprio nel 1954. Questa alleanza di paesi filoccidentali per Pechino (e non solo) costituiva una minaccia indiretta. Dopo gli appelli propagandistici per “liberare Taiwan”, e nonostante gli avvertimenti di Washington, il 3 settembre 1954 le unità di Pechino cominciarono un bombardamento d’artiglieria che colpì Quemoy, causando anche la morte di alcuni ufficiali statunitensi. La crisi era cominciata. Washington si affrettò ad inviare nuovamente nell’area la Settima Flotta, mentre il Pentagono cominciò a suggerire, fra le ipotesi di risposta, anche delle possibili opzioni nucleari. Una questione prettamente bilaterale stava degenerando in una crisi mondiale, o, per ricorrere ad una lucida analisi di Kissinger, <[13]
>>. Era insomma nato un pericoloso casus belli cui nessuno, però, voleva dare troppo seguito. Se sul piano militare gli effetti furono limitati, un ben altro impatto vi fu sul piano diplomatico. L’amministrazione Eisehnower era riluttante ad intervenire militarmente a fianco di Taiwan[14]; venne così decisa la negoziazione di un trattato bilaterale fra Washington e Taipei noto con il nome di Mutual Defense Treaty Between the United States and the Republic of China. Questo breve trattato, firmato il 2 dicembre 1954 ed entrato in vigore il 3 marzo del 1955, costituì la miglior risposta che Washington poteva offrire al piccolo alleato asiatico, e rappresentò un punto di compromesso fra chi vagheggiava un attacco nazionalista alla RPC e chi invece preferiva abbandonare in toto Chiang Kai Shek. Il problema principale risiedeva nell’atteggiamento statunitense: sarebbe stato il caso di farsi coinvolgere in una guerra aperta per le piccole isole della ROC, la cui importanza era, per lo più, simbolica? Eisenhower fece risolvere questo contrasto alle generiche formulazioni del trattato, che, fin dal preambolo, ribadivano ampiamente la funzione difensiva dello stesso, il richiamo ai valori delle Nazioni Unite e la necessità di addivenire ad una situazione di pace. Il cuore del problema, comunque, risiedeva nei limiti geografici del trattato, ovvero quali aree avrebbero potuto determinare l’intervento americano a fianco della ROC. Queste previsioni, contenute agli articoli 5 e 6, erano alquanto vaghe, e facevano esplicito riferimento, per la ROC, solamente all’isola di Taiwan ed alle Pescadores. Era un chiaro messaggio che Washington non voleva cominciare un conflitto contro la Cina comunista per dei piccoli (e strategicamente poco significanti) affioramenti marini. Allo stesso tempo, però, non venivano categoricamente escluse le piccole isole della ROC: come ricorda Matsumoto <<[il trattato] era evidentemente un compromesso fra Washington e Taipei. Questo indicava che la difesa delle isole non era completamente esclusa, e che gli Stati Uniti potevano difenderle a seconda delle circostanze. In secondo luogo, il testo enfatizzava che lo scopo del trattato era difensivo, non offensivo[15]>>. Il trattato, ad ogni modo, segnava la fine di certe ambiguità fra le due capitali: Washington, seppur a malincuore e con alcuni distinguo, aveva scelto di rafforzare il suo legame con il KMT. Questa mossa, inevitabilmente, indispettì Pechino, che a gennaio del 1955 riprese le ostilità contro Taiwan, ma con altri obiettivi. Invece che insistere su Quemoy e Matsu, le unità del PLA rivolsero la loro attenzione a due piccole isole situate più a nord, ovvero le Dachen e l’isola di Yijiangshan. Quest’utlima fu assalita dalle unità del PLA il 6 gennaio del 1955, e dopo dodici giorni di combattimenti le unità della ROC dovettero ritirarsi, perdendo ulteriori posizioni a vantaggio della RPC. Nell’attesa che entrasse in vigore il trattato bilaterale, e per dare un segnale a Pechino, il Congresso statunitense votò quasi all’unanimità la Formosa Resolution (29 gennaio 1955) con la quale il Presidente americano era autorizzato ad usare ogni mezzo necessario per difendere la ROC dalla RPC. Gli Stati Uniti, però, si limitarono ad utilizzare la Settima Flotta per far evacuare le isole colpite, senza reagire militarmente, nè contrattaccare la Cina comunista, né tantomeno cercando di riconquistare le isole perse. Nonostante questo atteggiamento passivo, i toni non erano destinati a spegnersi. Le minacce si fecero ancora più serie quando Eisenhower paventò un possibile utilizzo di armi nucleari contro la Cina continentale. Mao, del canto suo, si vantava di poter resistere alle armi atomiche, data la popolazione e l’estensione della RPC. Anche se colpiti nuclearmente i cinesi – secondo le parole del leader - avrebbero saputo resistere e poi contrattaccare. Le reazioni a questa possibile opzione furono immediate. L’Unione Sovietica si dimostrò particolarmente restia a rispondere nuclearmente agli Stati Uniti, mentre i paesi della NATO, con la Gran Bretagna in testa, espressero la loro completa disapprovazione per un possibile attacco nucleare. La situazione ormai era molto tesa, ed era fondamentale abbassare i toni. L’occasione fu la Conferenza di Bandung dei paesi non allineati: in quella sede, il 23 aprile 1955, il primo ministro Zhou Enlai dichiarò pubblicamente che la RPC era pronta a negoziare con gli americani, e con il primo maggio la crisi era cessata. Si trattava comunque di una mera tregua, perché le tensioni nell’area rimanevano ai massimi livelli. Non fu un caso, infatti, che a distanza di meno di tre anni emerse una nuova crisi fra la Cina e Taiwan. Il primo round si era concluso con un’altra situazione di stallo, ben presto destinata a ricadere nello scontro aperto.  
La Seconda Crisi dello Stretto (1958). La pace nelle acque cinesi durò pochi anni, perché nel 1958 emerse nuovamente una serie di scontri armati, passati alla storia come “Seconda Crisi dello Stretto”. La vicinanza delle date, però, non deve trarre in inganno. Pochi anni di differenza non avevano influito sul contesto geopolitico e militare, ma, piuttosto, avevano avuto un notevole impatto su quello politico, ed in particolare sulle relazioni bilaterali fra Mosca e Pechino. Oltre a ciò non vanno dimenticati i fattori interni alla Cina e, infine, l’atteggiamento che Washington aveva tenuto nei confronti di Pechino, durante i colloqui (riservati) a livello diplomatico. Aggiungendo questi tre ultimi elementi alle perduranti frizioni con il KMT, si venne a creare una serie di condizioni che portò, nel 1958, ad una ulteriore serie di scontri e poi ad una successiva fase di stasi. Sul piano politico due furono in particolare gli eventi che indirettamente contribuirono alla Seconda Crisi dello Stretto, e si consumarono principalmente a Mosca fra il 1956 ed il 1957, nell’ambito dei complessi equilibri della galassia comunista. La successione a Stalin, deceduto nel 1953, aprì la strada all’ascesa di Nikita Khruscev. Costui, ben conscio dei limiti dell’URSS e desideroso di modernizzare il paese, nell’ambito del XX congresso del Partito Comunista Sovietico a Mosca (1956), criticò pesantemente l’operato di Stalin denunciandone alcuni aspetti dell’operato ed il culto della personalità. Questa forma di “revisionismo”, subito contestata da Pechino, venne ulteriormente criticata dallo stesso Mao durante la successiva conferenza dei Partiti comunisti del 1957, a Mosca. La famosa “coesistenza pacifica” di Khruscev, ovvero il fatto che due sistemi (capitalista e comunista) potessero, appunto, “convivere” fu aspramente accusata da Mao, che propendeva, invece, per una posizione più “rivoluzionaria” e meno incline al compromesso con l’avversario. Da qui – almeno sul piano ideologico – è possibile tracciare l’inizio dello sfilacciamento dei rapporti fra Mosca e Pechino che poi condurranno, nel 1960, alla fine del trattato di amicizia fra i due paesi.
Sul piano interno, poi, il 1958 fu un anno cruciale per la RPC, ovvero coincise con il lancio del “Grande balzo in avanti”, cioè una grande riforma interna della società e dell’economia cinese. Complementare a questo ambizioso progetto vi era una massiccia propaganda e mobilitazione degli apparati di partito: in questo contesto si inserì anche una vigorosa retorica diretta a sostenere la “liberazione di Taiwan”. Le intenzioni di questo slogan così aggressivo, però, erano più dirette alla mobilitazione delle masse della RPC che all’effettiva cacciata di quello che restava del KMT. Analizzata da questo punto di vista, quindi, la Seconda crisi presenta delle implicazioni ideologico-politiche di natura interna che non possono essere trascurate, e che ben permettono di comprendere il motivo per cui questo secondo confronto sia finito in modo ben diverso dal primo. 
Il terzo elemento prodromico alla crisi fu la difficoltà nella gestione delle relazioni diplomatiche fra Washington e Pechino. Queste ultime, riprese dopo il 1954 in via riservata a Varsavia, si erano sempre mantenute su livelli non particolarmente alti. Pechino intendeva far progredire il livello delle negoziazioni, mentre gli Stati Uniti non ne sentivano la necessità.
La Seconda Crisi dello Stretto emerse a luglio del 1958, con la RPC che cercò di innalzare i toni nella regione per protestare – questa era la motivazione formale – contro l’intervento statunitense in Libano. L’idea di un’azione militare, per quanto dimostrativa, non emerse nemmeno durante la visita di Kruschev a Pechino (31 luglio – 3 agosto 1958), segno tangibile della lontananza che si stava creando fra i due paesi. Dopo un massiccio concentramento di unità a ridosso della costa, segretamente monitorato dagli americani, il 23 agosto del 1958 l’artiglieria del PLA scatenò un massiccio bombardamento su Quemoy e Matsu, dando il via alla Seconda Crisi. I bombardamenti, proseguirono con andamenti alterni, a volte fermandosi anche per alcune settimane: era chiaro che l’intenzione di Mao non era tanto scatenare un conflitto o riconquistare Taiwan quanto, piuttosto, una strategia più sottile e che sfruttava scontri militari di piccola portata per conseguire risultati politici. Tralasciando il livello della mobilitazione interna, sul piano internazionale lo scopo di Mao era quello di vedere fino a dove gli americani volevano o potevano spingersi nella difesa di Taiwan e, nel contempo, dimostrare una certa autonomia dall’Unione Sovietica. La reazione di Eisenhower fu di rimandare nello stretto di Taiwan la Settima Flotta e di rifornire la ROC di ulteriori armamenti, anche avanzati, oltre a dichiarare che gli Stati Uniti non si sarebbero ritirati nemmeno di fronte ad un’aggressione. Queste parole, e la presenza militare americana allarmarono Mao, che, per precauzione, aveva comunque vietato alle sue unità di fare fuoco su obiettivi americani. Il 5 settembre 1958 fu nuovamente Zhou Enlai ad aprire alla distensione, offrendo agli Stati Uniti di ricominciare la negoziazione con degli ambasciatori. Era ormai il prodromo della fine, che sopraggiunse un mese dopo, il 6 ottobre 1958, con la dichiarazione del Ministro della Difesa della RPC, Peng Dehuai, di trovare una soluzione pacifica per l’isola di Taiwan. Era insomma chiaro a tutti che lo scontro non aveva finalità militari, ma piuttosto rappresentava un tassello di una complessa partita che faceva perno su Pechino, e che riguardava tanto il rapporto di quest’ultima con Mosca che con Washington. Mentre la crisi andava scemando vi fu un tardivo intervento sovietico, <[16]
>>. Schiacciato fra la necessità di evitare a tutti i costi di inserirsi in una contesa fra Cina e Stati Uniti, ma desideroso nel contempo di mostrare – quantomeno di facciata – la volontà di tutelare l’(instabile) alleato cinese, Khruscev a settembre indirizzò due lettere ad Eisenhower mentre la crisi ormai si stava spegnendo. Nella prima veniva ribadito che un attacco alla Cina era da considerarsi come un attacco all’URSS, mentre nella seconda si ipotizzava addirittura l’utilizzo di armi nucleari. L’iniziativa, però, giungeva fuori tempo massimo, e, in definitiva, non ebbe alcuna utilità. La crisi del 1958 si spense velocemente com’era nata, e chiuse quell’onda lunga di eventi che portarono all’assestamento, almeno de facto, di “due Cine”. Tutte le parti, a vario titolo, reclamavano di essere vittoriose.

  1. Gli effetti delle crisi e l’impatto su Taiwan
A distanza di oltre cinquant’anni i giudizi sulle Crisi dello Stretto sono ancora molto differenti, e continuano a risentire anche delle diverse posizioni da cui sono espressi i giudizi. Cercando – per quanto possibile – di confinare i risultati al piano geopolitico e militare, è possibile trarre alcuni insegnamenti da tutta la vicenda. Le due crisi non vanno considerate come episodi a sé, ma costituiscono il risultato, seppur indiretto, dei delicati equilibri post-guerra civile cinese. La cacciata dei nazionalisti a Taiwan aprì sicuramente la nuova fase delle “due Cine”, ma nel contempo non sopì quelle tensioni già emerse nella guerra sul continente. In quest’ottica, quindi, si potrebbero vedere gli incidenti degli stretti come una sorta di “scosse di assestamento” che hanno seguito l’evento sismico principale, cioè la vittoria di Mao. A livello generale, poi, va ricordato che se la contrapposizione RPC- ROC ha costituito la base dei due contenziosi, in realtà il confronto è stato (anche) giocato su piani nettamente più elevati, ovvero quello delle superpotenze. Stati Uniti e URSS sono stati attori di primo piano in tutta questa vicenda, e, anzi, hanno contribuito alla creazione dello status quo che ancora oggi persiste. La chiusura della fase armata, però, non fu priva di conseguenze rilevanti, soprattutto per la Cina comunista. La seconda crisi, in particolare, segnò l’inizio della fine dell’amicizia sino-sovietica (conclusasi nel 1960) e la spaccatura del monolite comunista, e coincise con una maggior attenzione del Partito Comunista Cinese verso tematiche di natura interna, come il “Grande balzo in avanti” o la successiva “Rivoluzione culturale” del 1966. Ad ogni modo, però, Mao riuscì a ricavare prestigio e visibilità da questi scontri, cosa che gli fu utile anche sul piano della propaganda. Gli Stati Uniti riuscirono finalmente a contenere non solo l’avanzata comunista, ma anche le intemperanze di Chiang Kai Shek, con il risultato che Taiwan rimase “l’unica Cina” sino agli anni Settanta, mentre le “due Cine” cominciarono a coesistere seguendo binari molto differenti.
Tutti questi effetti ebbero delle dirette ripercussioni sulla storia militare della ROC, che probabilmente non sarebbe esistita se non vi fossero stati due eventi determinanti, ovvero la Guerra di Corea e il Trattato con gli Stati Uniti. Le sole forze del KMT, infatti, si dimostrarono insufficienti quando si trattò di resistere agli attacchi della Cina continentale: pezzo dopo pezzo le unità del PLA, nonostante le loro non sviluppate capacità anfibie, sottrassero notevoli porzioni di territorio alla ROC. Questo processo, probabilmente, avrebbe portato all’annichilimento di Taiwan, se non fosse stato per l’irrompere della Guerra di Corea. Questo conflitto, cui non presero parte unità del KMT, si rivelò invece fondamentale per cambiare gli assetti politico-militari del paese. Da nazione amica degli Stati Uniti ma considerata poco utile strategicamente, Taiwan divenne un alleato importante che cominciò a beneficiare anche della tecnologia militare americana, soprattutto velivoli e missili avanzati. Il 1954, poi, rappresentò il vero discrimen sul piano politico-militare. Resisi conto che la strategia del Generalissimo, ovvero la riconquista della Cina continentale, poteva giungere ad effetti troppo destabilizzanti nella regione, gli Stati Uniti decisero di “imbrigliare” il piccolo alleato con il Trattato di mutua difesa, che segnò la definitiva “salvezza” della ROC. Non furono poche le divergenze fra Taipei e Washington, ma, in definitiva, Taiwan riuscì ad ottenere l’obiettivo così tanto agognato: la certezza dell’indipendenza nazionale garantita dalle armi americane. Questa garanzia, comunque, ebbe un costo. Chiang Kai Shek, guadagnando l’indipendenza perse molto spazio di manovra in politica estera, e vide tramontare i suoi desideri di riconquista della Cina continentale e dei territori che erano stati persi fra il 1950 ed il 1955. Per di più, un comunicato comune del 23 ottobre 1958, co-firmato con il governo americano, impegnò il KMT a risolvere politicamente i problemi con la Cina continentale evitando di ricorrere all’uso della forza. I costi che il governo di Taipei aveva dovuto sopportare erano stati pesanti. In poco più di dieci anni di esistenza Taiwan aveva perso diverse parti del suo territorio e aveva dovuto subire le imposizioni del più forte alleato americano: in cambio, però, era riuscita a sopravvivere alla soverchiante potenza della RPC, ed ora, forte della protezione statunitense, poteva finalmente concentrarsi su quelle riforme politiche, sociali ed economiche di cui il paese aveva bisogno. La dimensione militare dell’iniziale confronto fra RPC e Taiwan, per quanto limitata e spesso strumentale ad altre logiche, ebbe un ruolo peculiare nella formazione dell’identità di quest’ultimo paese e, in definitiva, nella sua storia.   




[1] Crockatt R., Cinquant’anni di Guerra fredda, Salerno Editrice, 1997, p. 154.
[2] Encyclopaedia Britannica, Treaty of Shimonoseki, http://www.britannica.com/EBchecked/topic/540685/Treaty-of-Shimonoseki, consultato il 20 aprile 2013.
[3] Treaty of Shimonoseki, http://www.taiwandocuments.org/shimonoseki01.htm, consultato il 28 aprile 2013.
[4] La guerra civile in Cina, iniziata nel 1927 e sospesa durante la guerra contro i giapponesi, ricominciò nel 1946, terminando nel 1949 con la vittoria della fazione comunista di Mao Zedong rispetto a quella nazionalista del partito Kuomintang di Chang Kai Shek.

[5] La scelta di Hainan si rivelò strategica fin dall’inizio, ed  oggi, forse, lo è ancora di più: come nota l’Annual Report to Congress: Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China 2012 del US Office of the Secretariat of Defense,  a pagina 22, <<the PLA Navy [People’s Liberation Army Navy, ovvero la marina militare cinese – N.d.A] has now completed construction of a major naval base at Yalong, on the southernmost tip of Hainan Island. The base is large enough to accommodate a mix of nuclear-powered attack and ballistic-missile submarines and advanced surface combatants, including aircraft carriers. Submarine tunnel facilities at the base could also enable deployments from this facility with reduced risk of detection>>. Testo completo su http://www.defense.gov/pubs/pdfs/2012_CMPR_Final.pdf, consultato il 2 aprile 2013.
[6] Cfr. Vadney T., The world since 1945, Penguin, 1999.  
[7] Mastny V., Stalin, il dittatore insicuro, TEA, p. 128.
[8] Yi Shen C., Korean War Saved Taiwan from Chinese Aggression, Taipei Times, 25 giugno 2010, http://worldmeets.us/taipeitimes000014.shtml#axzz2PJBVAKWq, consultato il 23 aprile 2013.
[9] <<Truman's desire to prevent the Korean conflict from spreading south led to the U.S. policy of protecting the Chiang Kai-shek government on Taiwan>>, US Department of State, Office of the Historian, Milestones 1945-1952, http://history.state.gov/milestones/1945-1952/ChineseRev, consultato il 15 aprile 2013.
[10] <<President Harry Truman had proclaimed in early 1950 that he would not defend the Nationalists from a Communist attack, but after the outbreak of hostilities in Korea he moved the U.S. Seventh Fleet into the Taiwan Strait to discourage the spread of military conflict in the region>> . La reazione della Cina non fu particolarmente felice, come nota lo stesso Dipartimento di stato: <<the PRC considered this U.S. action as interference in China’s internal affairs>>. Tratto da US Department of State, Office of the Historian, Milestones 1945-1952, http://history.state.gov/milestones/1945-1952/KoreanWar2, consultato il 2 aprile 2013.
[11] http://www.taipeitimes.com/News/editorials/archives/2010/06/30/2003476734/1
[12] La cronologia delle relazioni sino-americane si trova su US Department of State, Office of the Historian, Chronology of US-China relations, 1784-2000, http://history.state.gov/countries/issues/china-us-relations, consultato il 20 aprile 2013.
[13] Kissinger H., On China, Penguin, 2011, p. 154.
[14] Kazin M. et alii, “Korean War and the Cold War”, in The Princeton Encyclopedia of American Political History, Princeton, 2009, p. 448.
[15] <<This was evidently a compromise between Washington and Taipei. This suggested that the  defense of the offshore islands was not completely abandoned, and that the United States might defend these islands depending on the circumstances. Second, the statement emphasized that the  purpose of the treaty was defensive, and not offensive>>, Matsumoto H., The First Taiwan Strait Crisis and China’s “Border” Dispute Around Taiwan, p. 89, su http://src-h.slav.hokudai.ac.jp/publictn/eurasia_border_review/Vol3SI/matsumoto.pdf, consultato il 10 aprile 2013.
[16] Kissinger H., op. cit., p. 175. 

martedì 18 novembre 2014

Cina: Vertice APEC come protagonista

Vertice Apec
La Cina ridisegna il mondo 
Nello del Gatto
14/11/2014
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È il presidente cinese Xi Jinping il vincitore del vertice dei “si farà e si studierà” dell’Apec, che riunisce i paesi che si affacciano sul Pacifico.

In una ideale classifica dei risultati ottenuti dai leader, il presidente cinese precede il leader russo Vladimir Putin (che ha offerto a Pechino un secondo e sostanzioso accordo sul gas come quello di maggio scorso) e Barack Obama, messo un po’ in disparte.

Dopotutto, il presidente statunitense incontrava quello cinese dopo mesi di raffreddamento dei rapporti per una serie di questioni: dalla vendita di armi a Taiwan a questioni doganali a quelle dei diritti umani.

Accordo sul clima tra Cina e Usa
Il coup de théâtre finale dell’accordo sul clima tra Cina e Usa è sembrato, pur considerandolo un importante passo avanti almeno politico, più un annuncio di marketing che una vera road map sulla limitazione delle emissioni tra i due paesi responsabili del 45% delle emissioni mondiali di anidride carbonica.

Non a caso la Cina si è impegnata con tempi lunghi (impegno a raggiungere il picco delle emissioni di Co2 "intorno al 2030" e a compiere il massimo sforzo per accelerare i tempi, oltre all’ obiettivo quello di portare al 20% entro il 2030 la quota di combustibile non fossile nell'ambito dei consumi energetici primari), mentre, come hanno polemizzato i leader del Congresso Usa, gli Stati Uniti devono impegnarsi da subito, fissando una riduzione del 25-28% entro il 2025.

Non solo: molti dettagli dell’accordo non sono noti, non si conoscono le sanzioni. Il vertice ha sancito che sono sempre più la Cina e Xi Jinping a tenere in mano il pallino delle sorti sia politiche che economiche del mondo.

Il presidente cinese, infatti, ha portato anche a casa l’importante approvazione di una "road map" che dovrebbe portare alla liberalizzazione degli scambi in una regione che comprende le tre economie più forti del mondo - Usa, Cina e Giappone - e che produce il 57% dei beni e servizi del pianeta.

Free Trade Association of Asia Vs Trans Pacific Partnership 
La Free Trade Association of Asia/Pacific (Ftap), l’accordo di libero scambio fortemente sostenuto da Pechino sarà studiata fino al 2016. È sostanzialmente in concorrenza con la Trans Pacific Partnership (Tpp), proposta dagli statunitensi e che escludeva la Cina. Per questo, qualora si decidesse di passare alla fase operativa, entrerà in vigore senza interferire, ma cooperando con la Tpp, della quale non fa parte la Cina.

Tale accordo non solo fa bene alla Cina, ma al mondo intero. Con l’aumento del costo delle produzioni nel paese del dragone, molte aziende hanno spostato gli stabilimenti nei paesi dell’area (soprattutto Vietnam, Thailandia, Malesia), ma con l’obiettivo di sfruttare gli accordi commerciali e doganali dell’area (Asean in particolare) per esportare e vendere in Cina, che ha cambiato il suo aspetto da fabbrica del mondo a negozio del mondo, vista la crescente domanda interna e aumento della classe media assetata di acquisti e prodotti.

Molte aziende europee stanno già beneficiando di questo stato di cose e l’accordo con la zona di libero scambio tra l’Asia e il Pacifico moltiplica esponenzialmente queste possibilità di commercio.

È passato in secondo piano, anche se importantissimo, l’accordo tra Washington e Pechino di eliminare le tariffe doganali su più di 200 categorie di prodotti elettronici e hi-tech: dalle console per i videogame ai software dei computer, dai sistemi di Gps alle apparecchiature mediche più avanzate tecnologicamente. Accordo che apre le porte anche alle economie di altri paesi in questi campi.

Più Russia che Usa nella Cina del futuro
Non si è discusso di questioni militari, ma che la Cina voglia continuare a tenere una posizione predominante nell’area - soprattutto nel sud est asiatico - è stato chiaro anche nel successivo vertice Asean, dove il premier cinese Li Keqiang ha offerto un ramoscello d’olivo ai paesi limitrofi (soprattutto Filippine e Vietnam). Lo ha fatto più per limitare l’influenza americana nella zona che altro, ribadendo la sua sovranità sulle isole contese.

Cosa che la Cina ha fatto anche con il Giappone, in un incontro “storico” tra Xi Jinping e il premier giapponese Shinzo Abe, con strette di mano non troppo convinte e impegni più di facciata che reali.

La Cina punta a essere leader mondiale e punta più sulla Russia che sugli Usa come partner.

L’Europa, che i cinesi vedono comunque non come una entità unitaria, rimane come importante partner commerciale. La Russia assicura quello di cui Pechino ha bisogno: fonti energetiche. Così come l’Africa, dove da anni Pechino ha cominciato una opera di neo-colonizzazione.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo.
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Cina: interesse per l'Italia. Nuove strategie economiche

Asia
I capitalisti cinesi investono in Italia 
Elisabetta Esposito Martino
04/11/2014
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Già all’inizio del 1600, Matteo Ricci - autore di un capolavoro dell’etnografia premoderna - non riportava i soliti stereotipi sulla Cina parlando di come "gli artigiani cinesi non si sforzano tanto di produrre manufatti perfetti quanto di farlo con poca spesa ed in un tempo limitato, al fine di vendere la propria merce ad un prezzo ridotto; spesso falsificando molti prodotti, dando loro solo una bella apparenza. Questa è l’imperfezione delle merci cinesi".

Queste parole, che rivelano in fondo la concezione occidentale del sistema economico cinese, ci permettono di comprendere le motivazioni delle scelte politiche dello Stato di Mezzo, frutto di tradizionali strategie geopolitiche, ma soprattutto dell’intenzione di ottenere il definitivo sdoganamento quale grande potenza, per un nuovo Rinascimento, preconizzato in questi mesi di intensi scambi culturali e diplomatici (la visita del presidente del consiglio italiano in Cina, quella del primo ministro cinese in Italia ed il vertice Asem, focalizzati sul Belpaese.

Italia e Cina eccellenze di Occidente e Oriente
In Italia, si sta assistendo negli ultimi mesi a un notevole incremento degli investimenti cinesi, paralle-lamente all’intensificarsi delle relazioni istituzionali tra i due paesi, che il premier Li Keqiang ha definito le “eccellenze” dell’occidente e dell’oriente.

L’input è stato dato dal XVIII Congresso del Partito comunista cinese che, a fronte di una note-vole decelerazione della crescita nello Stato di Mezzo, ha deciso di procedere con una riconversione in un modello sostenibile di lungo termine, attraverso un rallentamento controllato della crescita economica (soft landing), trainata dal terziario avanzato e dalla popolazione urbana che, per la prima volta nella storia cinese, ha superato quella rurale.

Questa strategia complessiva è stata implementata con scelte tattiche finalizzate a dirigere i flussi d’investimenti diretti esteri non solo verso i paradisi fiscali, ma anche verso l’occidente in generale e l’Italia in particolare, probabilmente per l’attrattività del suo territorio e per il ruolo di eccellenza, che vede l'innovazione tecnologica e l’elevato livello di progettazione raccordarsi armoniosamente a conoscenze scientifiche modulate con creatività.

Investimenti cinesi in Italia
Secondo i dati del Centro studi per l'impresa della Fondazione Italia-Cina, sono in costante aumento sia gli investimenti greenfield, con società create ex novo da investitori cinesi sia le acquisizioni dirette da parte di imprenditori cinesi di società italiane preesistenti.

Nel 2014 sono presenti in Italia circa 272 imprese, di cui 187 partecipate da investitori della Cina Popolare e 85 della zona amministrativa speciale di Hong Kong, che impiegano 12mila lavoratori; circa il 90% del totale delle imprese, localizzate per il 75% al nord ed il 15% nel Lazio.

I settori interessati sono estremamente diversificati, con una leggera prevalenza delle imprese commerciali sul settore dei macchinari, chimico e farmaceutico, degli elettrodomestici, delle imbarca-zioni, delle auto.

Molto interesse suscitano poi i settori delle infrastrutture, del fotovoltaico, delle tecnologie industriali, dei personal computer, delle reti per le telecomunicazioni e dell’energia.

A ciò si aggiunge il trend del turismo cinese, in vorticoso aumento, per i risvolti che produce in termini di indotto nei settori del brand e del lusso, del design, della moda e delle manifatture hi-tech.

Il consumismo dei nuovi ricchi cinesi
Le dinamiche di consumo che hanno sostituito, nella post modernità, quella della produzione che ha caratterizzato la modernità, stanno forgiando il consumatore, trasformandolo in creatore di cultura, detentore di un potere di agency per certi versi ancora inesplorato, ma comunque determinante per i risvolti politici e sociali.

Questo avviene soprattutto nella Repubblica popolare cinese dove la realizzazione della via cinese al socialismo è passata dal rifiuto di ogni bene superfluo e differenziato durante la rivoluzione culturale, allo sfrenato consumismo dei nuovi ricchi nel primo decennio del ventunesimo secolo, per approdare, ai giorni nostri, nel più sicuro porto della sobrietà, grazie alle proficue campagne di massa contro gli sprechi e la corruzione.

I timori di un’eccessiva ingerenza cinese nell’economia italiana sono molteplici, come già acca-duto in Grecia nel 2008. Ora come allora, la Cina cerca di guadagnare terreno laddove morde la crisi e l’Italia può approfittare della necessità cinese di investire in Europa ma, d’altro canto, deve mantenere alti i suoi valori e non venderli al miglior offerente: la democrazia, le radici cristiane, lo stato di diritto.

La sfida è quindi aperta. La speranza per la quale si lavora è quella enunciata dal capo del governo cinese, di “dare una vita migliore a tutti”: in Italia recuperando gli immensi patrimoni dalle poliedriche sfaccettature e in Cina attingendo alla millenaria cultura che ha prodotto l’armonia del Celeste Impero e il socialismo con caratteristiche cinesi, declinando il tutto con la libertà.

Elisabetta Esposito Martino è sinologa costituzionalista.
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lunedì 10 novembre 2014

Pakistan: quante cose gli mancano

Il paese di tutte le incertezze
Pakistan, è sempre l’ora dei militari
Sofia Zavagli
26/10/2014
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Non è mai abbastanza. Il Pakistan non è abbastanza grande demograficamente per rivaleggiare ad armi pari con l'India.

Non è abbastanza forte da garantirsi un ruolo da potenza regionale senza il bisogno di un arsenale atomico né di uno stato, l'Afghanistan, che funga da sua profondità strategica, ovvero da suo vassallo.

Non abbastanza nazione da reggersi senza coagulare le proprie tensioni etniche intorno all'Islam, unico perno fondante di uno paese che altrimenti si dissolverebbe sotto il peso delle differenze etniche e religiose.

Soprattutto, il Pakistan non è abbastanza uno stato. Dopo più di sessant'anni di governi autoritari alternati da colpi di stato militari, vive ancora oggi un periodo di grave instabilità.

A più di un anno dalle contestate elezioni che hanno portato al potere la Lega Musulmana (Pml-N) di Nawaz Sharif e all'indomani della proclamazione del nuovo presidente afghano, il Pakistan sembra non uscire da una crisi perpetua.

Chi ha paura di Imran Khan?
Un mezzo fallimento è stata la Marcia delle Libertà che si è tenuta il 14 agosto quando Imran Khan, ex star del cricket e leader del partito Pakistan Tehreek-e -Insaf (Pti), ha guidato il gruppo di chi chiede le dimissioni del governo Sharif, eletto a grande maggioranza, ma accusato di brogli, nel maggio 2013.

Alle proteste scatenate dal Pti si è unito anche il Pakistan Awami Tehreek (Pat) del leader sufi Mohammad Tahir-al-Qadri. Ciononostante, lo slogan di Khan “Go Nawaz Go” non è riuscito a fare breccia nella popolazione e la marcia non ha coinvolto i milioni di persone che gli organizzatori si aspettavano.

Forse perché la vera domanda che serpeggia oggi in Pakistan non è chi ha paura di Imran Khan ma quanto durerà? Quando i militari, per adesso rimasti silenziosamente nell'ombra, torneranno a ricordarci che sono loro a decidere da sessant'anni a questa parte chi comanda?

Dopo il trauma della perdita del Pakistan dell'est (oggi Bangladesh) nel 1971, l'ossessione nazionalista per i confini ha fatto sì che ogni governo abbia dovuto fare i conti con i militari. A loro non è mai piaciuto il disordine politico, perché ad esso sarebbe potuto seguire un vuoto di potere sfruttabile dall'India. Interverranno questa volta per ridare ordine al caos?

Servizi segreti come prezzemolo
Uno dei segreti peggio celati in questa parte del mondo è il costante coinvolgimento del Pakistan e in particolare dei suoi servizi segreti, l'Inter-Services Intelligence (Isi) negli affari interni dello stato. Basta pensare a quanto accadeva durante la guerra in Afghanistan, quando era proprio l'Isi ad occuparsi di distribuire i soldi sauditi e le armi made in Usa ai ribelli che combattevano contro i sovietici.

Dopo l'11 settembre, i quadri di Al-Qaida si sono trasferiti nella regione al confine tra Pakistan e Afghanistan, nota come Fata (Federally administered tribal areas). I Taliban - che godono della simpatia dell’Isi - hanno qui costituito una propria branca nazionale, la Tehreek-e - Taliban Pakistan.

Il governo pakistano ha reagito alla loro presenza nelle semi autonome e semi anarchiche aree tribali nel Nord-Ovest del paese con campagne militari di (voluta?) scarsa efficacia e con il mal sopportato “aiuto” dei droni statunitensi.

Questo fino a giugno 2014 quando, in seguito all'attentato all'aeroporto di Karachi rivendicato dai Taliban, Sharif ha scatenato un'offensiva militare nel Waziristan del Nord che fino ad ora ha provocato la morte di circa 1000 presunti militanti.

Gli amici segreti dei Taliban
La simpatia di ampie fette dell'apparato statale pakistano verso i Taliban e più in generale verso gruppi islamisti militanti, ha fatto sì che l'Afghanistan non sia mai uscito dall'orbita d'interesse di Islamabad.

Ecco perché il governo pakistano guarda con grande attenzione ai recenti sviluppi a Kabul, dove dopo mesi di attesa e numerose (trenta) visite del segretario di Stato americano John Kerry, si è finalmente giunti a un governo di compromesso tra i due candidati maggiori presieduto da Ashraf Ghani, ex ministro delle finanze ed ex consulente per la Banca Mondiale.

Ma ciò che ha attratto veramente gli sguardi della comunità internazionale e di Islamabad in particolare, è stata la firma del Bilateral Security Agreement (Bsa) con gli Usa che prevede la permanenza di circa 10000 unità a partire dal 1° gennaio 2015 e di un trattato simile con la Nato che aggiunge circa 4000 soldati, provenienti in massima parte da Regno Unito, Italia, Germania e Turchia.

Dal punto di vista pakistano, la permanenza delle truppe della coalizione favorisce lo status quo, ovvero impedisce ad altre forze regionali di immischiarsi negli affari interni dell'Afghanistan, fa sì che l'Afghanistan rimanga una zona cuscinetto sua vassalla, allontanando il pericolo di un eventuale accerchiamento da parte delle forze filo-indiane.

Sofia Zavagli è stagista dell’area Sicurezza e Difesa dello IAI.
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