Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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lunedì 19 settembre 2016

La situazione politica in Georgia: un'opinione.

di Federico Salvati



La Georgia insieme alla Moldavia rappresenta una della “success stories” della Eastern Partnership europea. Il paese, negli ultimi anni, ha fatto grandi sforzi per rialzarsi da una situazione che all'inizio degli anni 90, lo vedeva praticamente in ginocchio (ricordiamo che la Georgia era stata dichiarata ufficialmente uno stato fallito dopo le guerre con l'Abkhazia e l'Ossezia). Oggi, nelle strade di Tbilisi, è impossibile trovare il caos e la tensione sociale che è descritto nei report delle missioni ONU e OSCE negli anni immediatamente seguenti alla caduta dell'Unione Sovietica.

La Georgia nelle sue relazioni con l'Europa si prodiga in ogni modo. Lo slancio del governo nelle riforme istituzionali per il “perfezionamento della democrazia nazionale” è eguagliato solo dall' “ammirazione che i georgiani hanno dell'Europa”.

Dietro tutti questi titanici sforzi istituzionali, però, scavando nel profondo, si nasconde una realtà ben più amara, la quale il paese cerca di nascondere dietro il suo “entusiasmo riformista”.

Diciamo innanzi tutto, per mettere subito le cose in chiaro, che “freedom house” definisce la Georgia come “un'autarchia competitiva”. Questo significa che nonostante l'alternanza periodica nell'elezioni politiche i contendenti, una volta al poter, detengono un potere che è va decisamente al di la di quelli che sono i limiti costituzionali, politici e giuridici che contraddistinguono una democrazia.

La società georgiana è caratterizzata da un alto livello di informalità e comunitarismo che male si sposa con gli standard politico amministrativi proposti dall'occidente e dall'EU in particolare. A contraddistinguere la situazione socio-politica del paese è un altissimo livello di amministrazione informale (shadow governance) che continua a pesare sui processi istituzionali in maniera consistente. Tutto ciò crea un forte scollamento tra la base elettorale e le élite di governo.
La classe politico-amministrativa vive in un “paradiso dorato” fatto di privilegi e benessere, mentre la gente comune rimane legata a standard di vita piuttosto bassi in generale.
L'opinione pubblica non ha nessuna fiducia ne nelle istituzioni ne nei suoi rappresentanti. Per questo motivo la vita socio-economica ruota ancora intorno alle conoscenze personali, le dinamiche familiari e l'appartenenza etnica.
Emblematico di ciò che si è appena detto è la figura dell'ex presidente Ivanashvili. Tim Ogden1 scrivendo per GeorgiaToday, si dice sempre più perplesso dal fatto che l'ex presidente Mr. Ivanashvili (che ricordiamo al momento non rimane né più e né meno di un privato cittadino), nonostante abbia esplicitamente affermato il suo non-convolgimento in qualunque azione governativa, continui ad apparire in maniera incessante in tutti gli eventi pubblici di prestigio e sia allo stesso tempo un assiduo frequentatore degli ambienti politici di governo. L'autore afferma apertamente come eventuali disaccordi tra la posizione del Presidente Margvelashvili e quella di Mr Ivanashvili continuano a causare, “inspiegabilmente”, crisi interne nel consiglio di ministri.

Democrazia e Georgia è un binomio che ancora stride in maniera evidente. Per chiarire meglio il concetto, di seguito andiamo a commentare due eventi che, nell'opinione di scrive chi scrive, sono iconici della situazione socio-politica georgiana.

Governance e riforma del sistema di difesa

Alla fine dello scorso anno il governo ha finalizzato un processo di riforma che andava avanti da anni. L'enorme sforzo legislativo ha portato con successo a ristrutturare in maniera consistente il sistema di difesa. Il programma è stato implementato in maniera soddisfacente, con tanto di complimenti dell'ambasciatrice Inglese che ha supervisionato e promosso la riforma.

Nel corso della cerimonia per la chiusura dei lavori però, nei loro discorsi diretti ai presenti, vari partecipanti hanno notato come la questione si presentasse tutt'altro che risolta. Con tale riforma quello che la Georgia voleva ottenere era un maggiore controllo civile delle forze armate. Ciò però può accadere solo attraverso una solida e funzionante base istituzionale che presenti dei requisiti minimi di trasparenza, rule of law e accountability.

Quello che invece è emerso durante la discussione è che ci sono ancora seri dubbi sulle capacità delle sfere militari nazionali di esercitare con successo le funzioni di comando e controllo. Inoltre, gran parte dell'alto comando rimane ancora legato ad una visione sovietica dell'esercito. Ciò sta a significare che i comandanti si rifiutano di abbracciare l'idea di un esercito professionalizzato e svincolato da un qualsiasi coinvolgimento nei processi politico-civili.
Più di ogni altra cosa però si è rimarcato come l'accentramento del potere nella mani delle istituzioni civili non corrisponda ad un parallelo aumento della trasparenza nella gestione delle questioni amministrative e in particolare del budget e degli approvvigionamenti. La debolezza dell'autorità statale, infatti, lascerebbe troppo spazio ad interessi privati che potrebbero avere un peso fondamentale nei processi di decision-making.

Peacebuilding e società civile

È un fatto, ormai, più che rinomato che la Georgia (sponsorizzata da cospicui fondi internazionali per la pace e la stabilità) compie quotidianamente grandi sforzi per costruire un futuro pacifico tra la madre patria e le regioni secessioniste del Sud Ossezia e dell'Abkhazia. Una miriade di NGO , INGO, fondazioni e gruppi d'azione lavora da 20 anni sul processo di pace, promuovendo a scadenze serrate progetti sociali sui temi più vari. Indagando sull'argomento, però, cominciano ad affiorare le solite contraddizioni che fanno sempre apparire profonde rughe sulle fronti di qualunque social worker di Tbilisi, coinvolto nell'argomento.

Messa in maniera semplice, la società civile ha riportato nel campo del peacebuilding risultati a dir poco inconsistenti. L'autore dell'articolo tiene a sottolineare che esistono delle meravigliose eccezioni alla regola in Georgia e alcune associazioni portano avanti programmi che obiettivamente meriterebbero un caloroso e incondizionato supporto sia dalle autorità nazionali che da quelle internazionali. Per la maggior parte però il processo di pace, per come è svolto, lascia grandi dubbi sulla sua efficacia. Nel complesso il quadro potrebbe essere definito più o meno così: da una parte c'è il governo che mantiene una posizione che sembra quasi di disinteresse sulla cosa; dall'altra ci sono le associazioni non governative che cercano di accaparrarsi i fondi della cooperazione alla pace, proponendo ogni volta progetti rivoluzionari che promettono di innescare radicali cambiamenti sociali (i tristemente famosi silver bullet projects). La società civile, comunque, si guarda bene dall'essere sia troppo audace che troppo innovativa. Presentarsi in questa maniera significa suscitare il dubbio tra i donors internazionali e la preoccupazione del governo il quale lascia lavorare la associazioni fin tanto che queste non propongano una vera e propria agenda di opposizione. Da tali circostanze, l'unico risultato ottenibile sarebbe solo l'esclusione del gruppo operante da qualsiasi rete di finanziamento.
A chiudere il circolo troviamo la comunità internazionale che continua finanziare i progetti di cui sopra con la ingenua speranza di avere finalmente dei risultati tangibili.
Chi si occupa un minimo di società civile avrà notato che c'è un grande assente nelle dinamiche appena descritte: il processo di advocacy. L'advocacy è uno dei fattori chiave per permettere alla società civile di partecipare attivamente al dibattito democratico. Questa è il perno della partecipazione popolare attraverso le strutture non-governative. Le associazioni georgiane che si occupano di pace non possono permettersi di fare pressioni sul governo per il raggiungimento di un accordo negoziale al più presto. Tutto ciò è impensabile. Un'azione del genere provocherebbe la furia dei media, del governo e anche di gran parte dei comuni cittadini. Risultando nella cessazione dell'operato della sventurata associazione. Si capisce che ciò che resta ai soggetti della società civile è la speranza di continuare a lavorare nel loro piccolo, portando a casa risultati al quanto limitati e innocui, mentre pregano che fondi internazionali che le finanziano di non smettano di arrivare nelle loro tasche.

La situazione oggi in Georgia assomiglia molto a quella dell'ex jugoslava post Dyton. Il processo di pace si muove in maniera gattopardesca. Gli sforzi della società civile vengono finanziati da lauti fondi internazionali che hanno trasformato il settore in uno dei principali sbocchi d'impiego del paese. La Georgia ha, numericamente, una quantità di NGO legalmente registrate che supera di quella delle stesse presenti in tutti gli Stati Uniti (fonte: City hall Tbilisi). Non è azzardato prevedere che una volta che i fondi per la pace e la cooperazione cominceranno a diminuire tutti questi soggetti spariranno da un giorno all'altro (come è già successo nell'ex Jugoslavia) dal momento che il potere statale non ha ne le risorse ne l'interesse per mantenere in piedi questa complessa struttura.


Conclusioni

Come giudicare la Georgia di oggi dunque? Nel complesso stiamo parlando di un paese che ha un ex calciatore del Milan (Kaladze) che è stato eletto inspiegabilmente ministro delle risolse naturali e dell'energia. Di certo non si deve essere troppo duri con questa povera nazione ma è opinione dell'autore che in passato i commenti riguardo i cambiamenti socio-economico del paese sono stati un pochino esagerati.

Letto in questa ottica diventa più comprensibile, il rifiuto delle Germania sull'approvazione della facilitazione del visti Shengen per la Georgia. La notizia ha suscitato nel paese una rabbia sociale inaspettata. I giornali erano coperti di articoli che recitavano che esprimevano lo sdegno dell'opinione pubblica con espressioni anche forti.

La Georgia, nonostante quello che dicano i georgiani, rimane un partner che soddisfa gli standard Europei di cooperazione solo in superficie. Nel profondo il sistema politico manca ancora dei principali strumenti di rule of law e partecipazione democratica. L'informalità e l'incapacità di amministrazione delle autorità non promettono un miglioramento delle relazioni tra l'EU e il paese nel caso di un'apertura del regime di visti.

In conclusione vorrei comunque citare le parole de rappresentante della NATO qui a Tbilisi che ha commentato, definendo la Georgia un esempio di democrazia per gli altri paesi nella regione.
Si può concordare in pieno con queste parole.
Visti ti risultati di Azerbaijan e Armenia la Georgia appare come il proverbiale orbo in terra di cechi. Ma di certo le possibilità e la realtà politiche del paese non devono essere esagerate, altrimenti rischiamo di scambiare orbi per aquile reali.

1Ogden “Deeply Concerned: Ogden on the Contradictory Nature of Georgian Politics” http://georgiatoday.ge/news/3996/Deeply-Concerned%3A-Ogden-on-the-Contradictory-Nature-of-Georgian-Politics accesso 20/06/2016


mercoledì 14 settembre 2016

Hong Kong: verso la ribellione

Asia
Ombrelli gialli nel Parlamento di Hong Kong
Nello del Gatto
06/09/2016
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Mentre il presidente cinese Xi Jinping era impegnato ad Hangzhou a dimostrare il valore politico e il ruolo che Pechino vuole acquisire nel mondo, l’establishment cinese riceveva un sonoro ceffone da Hong Kong.

Nelle elezioni dell’ex colonia britannica, che servivano a disegnare il nuovo parlamentino (Legislative Council of Hong Kong, LegCo), non solo si è registrata la più grande affluenza al voto nella storia elettorale locale iniziata del 1998 (58%) , ma gli hongkonghini hanno fatto chiaramente sapere che non vogliono perdere il loro status, arrendendosi a diventare una filiale della madre patria.

L’ex colonia britannica ancora assetata d’indipendenza
I leader della protesta del 2014, poi ribattezzata la rivoluzione degli ombrelli dopo essere stata Occupy central, sono entrati in parlamento, cavalcando lo slogan dell’indipendenza. E questo crea non pochi problemi a Pechino.

Il parlamento di Hong Kong conta 70 seggi, 35 dei quali vengono assegnati dal verdetto delle urne e il resto su scelta (diciamo cooptazione) anche di aziende, ma sempre dietro pressioni di Pechino. Questo perché il governo centrale cinese, quando nel 1997 ha preso in mano dagli inglesi Hong Kong, voleva assicurarsi una base su cui poteva contare per far passare idee e leggi.

Mai il legislatore cinese dell’epoca avrebbe potuto pensare che l’ex colonia un giorno si sarebbe rivoltata contro come è successo dal 2014 ad oggi. Gli indipendentisti e gli oppositori a Pechino hanno conquistato, infatti, più dei 24 seggi necessari per bloccare riforme costituzionali. E qui il mal di testa di Pechino che avrà vita non facile per imporre propri cambiamenti in vista del 2047, quando Hong Kong tornerà completamente sotto controllo cinese.

Fino ad allora, dovrebbe vigere il principio di “un paese due sistemi” che dovrebbe garantire una certa autonomia a Hong Kong. Da qualche anno a questa parte però, la pressione di Pechino sull’ex colonia britannica si è fatta sempre più forte, complici soprattutto gli ultimi due leader del governo locale (uno dei quali, Leung Chun-ying, derogando alla tradizione, ha addirittura giurato alla sua nomina in mandarino, lingua della capitale cinese e non i cantonese, parlato a Hong Kong), che non hanno perso occasione per ribadire la filiazione dell’ex colonia dalla “madre patria”.

Suffragio universale, non alla cinese
Proprio sulla figura del capo del governo locale si sono accesi gli animi che hanno portato agli scontri nel 2014. Pechino aveva promesso che le prossime elezioni del 2017 sarebbero state le prime nelle quali la Cina avrebbe concesso il suffragio universale per la scelta del capo del governo locale (chief executive), come stipulato nella Legge Fondamentale, la mini-costituzione di Hong Kong.

Il progetto di riforma di Pechino prevedeva un suffragio universale “alla cinese”: i cittadini di Hong Kong avrebbero sì potuto eleggere il loro candidato preferito alla carica di capo dell’esecutivo locale, ma tra una rosa di due o tre nomi, scelti da un gruppo di 1200 persone per la quasi totalità vicine a Pechino.

Ad agosto 2014, l’annuncio di questa riforma (poi respinta), scatenò le proteste di larga parte dell’opinione pubblica hongkonghina, che sfociarono nell’autunno successivo in settimane di manifestazioni. Una Occupy Hong Kong che chiedendo un vero e proprio suffragio universale, catapultò l’ex colonia britannica sui media internazionali per il grande numero di partecipanti, soprattutto giovani universitari, che si battevano contro il potere di Pechino.

Un vento di cambiamento pericoloso per Pechino
I leader di quella rivolta, tutti giovanissimi, siedono ora in parlamento, uno di loro è il più giovane deputato mai eletto e un altro il più votato in assoluto. Bisogna ora vedere se avranno la capacità politica di non restare fossilizzati sulle loro posizioni (ultimamente parlano solo di indipendenza da Pechino) o saranno in grado di riuscire a stringere alleanze con gli altri partiti anti Pechino, per portare a casa, passo dopo passo, risultati che allontanino la Cina da Hong Kong.

Qui, infatti, si potrebbe davvero realizzare quella piena autonomia che Pechino ha sempre promesso in altre regioni, come Tibet e Xinjiang, ma che non è mai stata realizzata. Per ora Pechino tace, segno che sta pensando a una soluzione.

La Nuova Cina, l’agenzia ufficiale Xinhua, ha riportato il comunicato dell’ufficio del Consiglio di Stato per gli affari di Hong Kong e Macao, nel quale si ribadisce la ferma opposizione a qualsiasi forma di indipendenza contraria alla costituzione cinese e alle altre leggi.

Ma i mal di testa restano e i vertici di Pechino dovranno dimostrare le capacità diplomatiche e di statisti che Xi Jinping ha voluto mettere in mostra ad Hangzhou per accreditarsi con il mondo. Altrimenti, da Hong Kong può spirare (ma è davvero una ipotesi remota) un vento di cambiamento in tutto il Paese. Ed è forse questo il timore maggiore per Pechino.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo (Twitter: @nellocats).

venerdì 2 settembre 2016

Cooperazione sulla difesa tra India e Stati Uniti

Firmato il 30 agosto 2016 a Waschington un accordo Tra Stati Uniti ed India per la condivisione di base aeree e militari in caso di riparazione e fornitura di mezzi. L'Intesa è stata scritta con finalità di sostegno logistico bilaterale, ma in realtà, secondo molti analisti sia indiani che statunitensi, è stata salutata come una pietra miliare nel campo della difesa e cooperazione tra i due Paesi.

L'accordo, il Logistics Exchange Memorandum Agreement,  nasce nel 2002 ma solo ad aprile del 2016 Nuava Delhi ha dato il suo assenso. I termini operativi erano stati definiti lo scorso giugno durante la visita del premier indiano Narendra Modi negli Stati Uniti, resi pubblici con una nota dal pentagono nei giorni scorsi.

Protagonisti dell'accorso sono stati il Segretario alla Difesa degli Stati Unti, Ashton Carter ed il ministro della Difesa indiano Manohar Parrikar. E' convinzione dei protagonisti che le Marine dei due paesi, con questo accordo, potranno sostenere con il relativo supporto logistico esercitazioni, operazioni di peacekeepig e assistenza umanitaria. In molti pensano, peraltro, che questo accordo incida positivamente in tema di sicurezza come contrasto all'estremismo; in pratica si lancia un segnale diretto contro i militanti del cosiddetto Stato Islamico (Is) operante in Afganistan e Pakistan

Massimo Coltrinari
(geografia 2013@libero.it)