Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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mercoledì 23 settembre 2015

Corea del Nord: una ulteriore disgrazia

SICCITA’ NELLA COREA DEL NORD

La Corea del Nord sta fronteggiando una delle peggiori siccità dell’ultimo secolo. Le conseguenze di questo flagello sono pesantissime per l’agricoltura, ove il 30%  delle risai si è prosciugato, secondo quanto ha comunicato l’agenzia Ufficiale Kana.

Negli anni novanta la Corea del Nord ha avuto un’altra pesantissima carestia che ha provocato morte e denutrizione. Si stima che la produzione agricola nordcoreana, secondo fonti sudcoreane, possa subire nel 2015 un crollo del 20%, qualora la siccità (giugno 2015) prosegua anche per il mese di luglio. Infatti le piantine di riso per produrre devono essere parzialmente sommerse all’inizio dell’estate per garantire il raccolto ad ottobre. Il riso è l’alimento di base della debole dieta nordcoreana e questa situazione porterebbe ad aggravare la già difficile situazione interna nordcoreana sotto il profilo della qualità della vita e dei beni di consumo disponibili.

giovedì 17 settembre 2015

L’Everest si è spostato ed abbassato


La montagna più alta del mondo, l’Everest, si è spostato di tre centimetri, dopo il devastante terremoto di magnitudo 7,8 della scala Richter che ha colpito il Nepal lo scorso 25 aprile, provocando oltre ottomila morti e milioni di danni.

Riportate dalla stampa locale di Kathmandu la notizia è tratta da fonti del Servizio Nazionale cinese di geoinformazione.

IL’Agenzia spaziale europea, inoltre, sulla base di dati satellitari, comunica che l’Everst si è abbassato di circa 2,5 centimetri, sempre a seguito del sisma,

 Per paura di scosse ulteriori, dato che il terremoto ha provocato una valanga sull’Everest, uccidendo 18 persone e distruggendo il  campo base degli scalatori, le Autorità nepalesi hanno proibito ogni scalata all’Everst per tutto il 2015

Massimo Coltrinari


lunedì 7 settembre 2015

Corea: un parallelo di nuovo pericoloso

La quasi ‘Guerra della radio’
Coree: nuove turbolenze al 38º parallelo
Francesco Celentano
06/09/2015
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Giovedì 20 agosto il Grande Successore Kim Jong Un, terzo discendente della prima e unica dinastia comunista della storia, ha ordinato alle proprie truppe di sparare contro un altoparlante situato nella zona demilitarizzata al confine con la Corea del Sud, che a sua volta non ha esitato a rispondere al fuoco con 60 cannonate, evacuando gli abitanti dei villaggi vicini.

Un fine settimana di nuove, quanto inaspettate, tensioni ha caratterizzato, quindi, la penisola coreana, da oltre 50 anni ultimo baluardo della Guerra Fredda.

Il giovane Kim ha riunito immediatamente la Commissione militare centrale del Partito, al termine della quale ha ufficializzato l’ultimatum, scaduto poi alle 17 (ora di P’yongyang) di sabato 21 agosto, con cui imponeva il cessare dell’attività propagandistica da parte della Corea del Sud, minacciata di un attacco militare “senza precedenti”.

Propaganda il casus belli
L’assetto di “semiguerra” imposto all’esercito nordcoreano (comandanti, truppe e sottomarini mobilitati), tra i più quantitativamente imponenti al mondo, derivava dall’intensificarsi degli scontri, solitamente solo propagandistici, di questi ultimi mesi tra le due Coree.

Il Sud ha ripreso, dopo circa 11 anni d’inattività, l’opera di propaganda anti regime comunista servendosi di altoparlanti posti, sul lato sudcoreano, lungo il confine con il Nord, ufficialmente per rispondere all’esplosione di una mina (di fabbricazione sovietica) che a inizio luglio è esplosa nei pressi della zona demilitarizzata istituita dalle Nazioni Unite al termine del conflitto, determinando il grave ferimento di due soldati sudcoreani.

Partendo dal presupposto che l’arte della provocazione senza esiti significativi è una delle maggiori “doti” che gli osservatori internazionali riconoscono al giovane leader nord-coreano (e a suo padre prima di lui), fa riflettere, alla luce degli ultimi accadimenti, anche parte del discorso tenuto da Kim Jong Un nel corso delle recenti celebrazioni per il 62° anniversario della firma dell’armistizio, del 27 luglio 1953, con la vicina Corea (unico atto su cui si fonda la tregua, per nulla pacifica, tra i due Paesi).

Il Grande Successore, parlando ai veterani e ricordando l’importanza dell’eterna vittoria - dicitura ufficiale di riferimento per il Regime -, ha avvertito che “in caso di nuove provocazioni il nemico avrebbe conosciuto la sua ultima fossa”.

Le manovre congiunte Sud/Usa
Oltre alla ripresa della propaganda si ritiene che altra causa d’irritazione per la Corea del Nord derivi dalle esercitazioni del programma Ulchi-Freedom Guardian che il governo di Seul sta conducendo, come avviene ogni anno da 11 anni, con gli Usa, quale reciproca prova di forza nella regione ed espressione della cooperazione tra l’esercito sudcoreano e i trentamila soldati statunitensi di stanza nel Paese.

Va detto che le tensioni militari e propagandistiche attuali si fondano anche e soprattutto sui burrascosi precedenti tra i due Paesi. Come se la storia dalla Guerra di Corea in poi non bastasse a definire un rapporto politico travagliato tra due Stati che prima erano uniti.

Gli episodi più recenti del 2010, quando il padre del leader attuale ordinò di affondare una nave della marina sudcoreana causando la morte di 46 dei 104 marinai a bordo e l’attacco all’isola di Cheonan sferrato qualche mese dopo, oltre a tutte le successive minacce di guerra poi ritirate dal Giovane Successore, sono il principale motivo per cui anche la Corea del Sud, più pacifica e diplomaticamente attiva, costantemente sotto pressione da oltre 50 anni, ha deciso di rispondere al recente attacco del Nord, portando avanti la linea dura voluta espressamente dalla prima donna presidente del Paese Park Geun-hye.

Dall’ultimatum alle trattative
Ancora una volta, confermando la regola della strategia della tensione tanto cara al Grande Successore, nulla è accaduto. Ultimatum, mobilitazione armata e proclami hanno lasciato il posto alla volontà di avviare dei colloqui, anche su pressione dell’alleato cinese che, a detta di molti osservatori, inizia a mal digerire i colpi di testa del capriccioso e militarizzato alleato.

Dopo oltre quaranta ore ininterrotte di trattative, tenutesi nello storico villaggio di Panmunjon - dove fu firmata la tregua del 1950 -, il rappresentante nordcoreano Hwang Pyong-So, secondo nella scala di comando del Paese, e il consigliere per la sicurezza nazionale sudcoreano Kim Kwan-jin hanno siglato un accordo in 6 punti.

Il rammarico nordcoreano per le mine al confine e lo smantellamento degli altoparlanti sudcoreani sono stati il punto di partenza di un accordo storico soprattutto per la decisione di riprendere le trattative per il ricongiungimento delle tante famiglie separate all’epoca della guerra e della conseguente chiusura dei confini.

Già in passato comunque i Kim avevano fatto ben sperare con colloqui e rapporti distesi dopo burrascose giornate di proclami. Negli Anni 90 si barattò una tregua sul nucleare (con l’adesione al Trattato di non proliferazione, poi ritirata) in cambio di rilevanti aiuti economici da parte di Stati Uniti e Onu.

Certamente, mentre Cina e Stati Uniti si limitano a vigilare sulla Penisola più militarizzata del mondo, il Sud continuerà a progredire aumentando il divario in termini di tutela dei diritti ed economia con il Nord, che invece sembra destinato a restare succube dei giochi di strategia dell’ultimo erede Kim, di cui la comunità internazionale, palesemente poco interessata ad un intervento diretto che potrebbe destabilizzare una regione così ricca di protagonisti e protagonismi, a questo punto, non può che attendere la prossima mossa.

Francesco Celentano, neolaureato in Giurisprudenza e praticante legale, si sta specializzando nello studio del diritto internazionale, già oggetto della sua tesi di laurea redatta durante un periodo di ricerca presso l'ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra.
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Pakistan. le prospettive di un conflitto

Lotta all’estremismo
Pakistan: i rischi della guerra di Karachi
Francesco Valacchi
07/09/2015
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A due anni dall’inizio del suo mandato, il governo di Nawaz Sharif ha impresso nuova forza ai provvedimenti atti a raggiungere uno degli obiettivi fondamentali delineati nella sua campagna elettorale: la lotta all’estremismo, soprattutto nella città di Karachi.

Infatti la capitale della provincia del Sindh, oltre ad essere il primo porto del Pakistan, con i suoi 62,25 milioni di tonnellate di traffico annuale, continua ad essere una delle maggiori spine nel fianco del governo di Islamabad.

Se la questione dell’instabilità e dell’estremismo islamico nelle Aree Tribali, nel Belucistan (la cui capitale Quetta è stata uno dei centri decisionali del movimento taleban) e nel Kashmir è endemica, la situazione a Karachi è invece andata compromettendosi negli ultimi trenta anni.

La città ha fra i più alti tassi di criminalità del paese e i crimini violenti sono all’ordine del giorno, come i reati connessi al terrorismo.

Il potere dell’Mqm e la sua storia
A farla da padrone dagli Anni Ottanta fino ad oggi, nella galassia dei movimenti estremistici, è stato il Muttahida Qaumi Movement, una formazione definita a più riprese estremista e che è considerata da alcuni Stati, fra cui il Canada, un gruppo terrorista.

Il Movimento partecipa alla vita politica pakistana e, nelle elezioni del maggio 2013 per l’Assemblea Nazionale della Repubblica Islamica del Pakistan, ha ottenuto 24 seggi, affermandosi come quarta forza politica del Paese.

Storicamente il Mqm è il movimento che rappresenta i cosiddetti Muhajir provenienti dall’India, cioè i musulmani di lingua urdu che preferirono la migrazione verso un futuro economicamente incerto al momento della divisione del Pakistan dall’India e della sua nascita come Stato indipendente.

Dal momento della sua nascita a oggi, il Movimento ha affrontato una travagliata storia, difendendo gli interessi delle classi medie pakistane dalle tendenze ritenute eccessivamente riformiste del Pakistan People Party della famiglia Bhutto, ma anche dalle tendenze conservatrici del Pakistan Muslim League.

Allo stesso tempo il Movimento ha fidelizzato un suo elettorato nella regione del Sindh, dove si trasferirono inizialmente gran parte dei Muhajir. Ma i suoi dirigenti e funzionari hanno anche intessuto una serie di legami con il crimine organizzato, specialmente nella città di Karachi, che ne hanno fatto una vera e propria formazione in contrasto con le istituzioni statali.

La forza del Mqm negli anni dal 1980 ad oggi è stata tale che la città di Karachi (ed il territorio nelle sue strette vicinanze) non può essere considerato sotto il completo controllo di Islamabad.

È una situazione particolare e ai limiti del paradosso per una visione occidentale, ma in certi quartieri di Karachi si respira un’atmosfera molto simile a quella di un governo ombra radicato e diffuso sul territorio, estraneo al potere di Islamabad, ma retto da un partito che partecipa alla vita politica pakistana, il Mqm appunto.

L’operazione Clean-up e i suoi effetti
Nel 1992, il governo organizzò una grande repressione contro il Movimento. Il nome dell’operazione fu Clean-up e costò la vita a migliaia di militanti estremisti, criminali comuni legati all’Mqm e semplici lavoratori vicini al Movimento.

Durante le violenze, a volte ingiustificate, perpetrate dall’esercito contro i sostenitori dell’Mqm, i principali dirigenti, compreso il capo indiscusso Altaf Hussain fuggirono rifugiandosi in Europa, da dove continuano a guidare il partito.

L’operazione Clean-up venne lanciata non a caso mentre l’esecutivo nazionale era guidato da Nawaz Sharif, segretario del PML-N, acerrimo avversario politico del Mqm, che invece sostenne in passato Parvaiz Musharraf.

L’operazione riuscì a stabilire il controllo del governo su Karachi per un brevissimo periodo, dopo il quale l’Mqm, grazie alla connivenza di certe fazioni dell’esercito legate a Musharraf, riuscì a riprendere il controllo della città.

Karachi oggi, un intreccio di operazioni
Una serie di azioni della polizia e delle forze anti-terrorismo pakistane, al fine di riconquistare il controllo completo della città di Karachi, sono state condotte tra marzo e agosto. Non a caso nuovamente sotto la spinta dell’esecutivo Sharif.

In particolare sono state condotte sia azioni sul campo, sia operazioni mediatiche atte a colpire e screditare il Movimento. Nel mese di marzo le forze anti-terrorismo hanno circondato e perquisito il quartier generale dell’Mqm, forzando la resistenza degli attivisti.

In seguito all’”aggressione”, com’era stato definito l’atto dagli esponenti dell’Mqm, i deputati presso l’Assemblea nazionale si erano ritirati ed il Movimento operava in una sorta di clandestinità.

Nel mese di giugno, a seguito del massacro di 43 sciiti ismailiti in un attentato rivendicato dal Tehrik Taleban Pakistan (gruppo estraneo all’Mqm), le forze anti-terrorismo hanno compiuto operazioni che hanno portato all’uccisione di decine di terroristi sul campo e a diversi arresti, nonché alla identificazione di un possibile filone di inchiesta che farebbe risalire le cellule estremiste operanti a Karachi a connessioni con i servizi segreti dell’India.

Infatti come indicato da fonti ufficiali pakistane il 27 agosto, sono stati arrestati a Karachi cinque terroristi addestrati dal servizio segreto indiano Research and Analysis Wing. La smentita del governo indiano è arrivata il giorno successivo, ma la verità che emergerà in fase processuale sarà comunque di parte pakistana.

Nel frattempo Islamabad ha iniziato una serie di operazioni atte a screditare l’Mqm, la principale delle quali è stata la pubblicazione su fonti ufficiali pakistane (come riferito dal quotidiano Dawn) di una serie di comunicazioni segrete dell’ufficio stampa del Mqm chiaramente volte ad accattivarsi la simpatia di organizzazioni governative e non governative straniere, in particolare indiane, contro le violenze perpetrate dalle forze armate nelle azioni anti-terroristiche a Karachi.

Questa strategia, prontamente sconfessata dal Movimento, punterebbe a delegittimare l’Mqm agli occhi dell’elettorato pakistano. L’Mqm aveva nel contempo ripreso il dialogo col governo centrale e i propri deputati erano tornati a sedere sui seggi dell’Assemblea nazionale a giugno, sulla base di rassicurazioni del Ministero dell’Interno.

Ma con una comunicazione a sorpresa il 1° settembre il Movimento ha ripreso la strada della clandestinità.

Il rischio che si delinea è che il governo Sharif, cui va comunque riconosciuto di essere stato eletto democraticamente e di avere i numeri sufficienti a garantire la stabilità nel Paese, cada nella tentazione di utilizzare lo spauracchio del terrorismo per eliminare scomodi rivali e cosi facendo causi la radicalizzazione di elementi politici che hanno un notevole peso specifico.

Francesco Valacchi si è laureato in Scienze Strategiche nel 2004 presso l’ateneo di Torino ed in Studi Internazionali presso quello di Pisa nel 2013. È appassionato di geopolitica e strategia; è ufficiale in servizio permanente effettivo nell’esercito italiano.
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sabato 5 settembre 2015

Birmania: le prospettive in vista delle elezioni di novembre

Verso le elezioni
Il triangolo di Malacca: Myanmar tra Cina e India
Francesco Valacchi
26/08/2015
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A pochi mesi dalle elezioni birmane del prossimo novembre, si apre la partita politica per il governo di Rangoon. Saranno le seconde elezioni dopo l’inizio della democratizzazione della Birmania e della politica di apertura (2010).

In realtà, la tornata elettorale del novembre 2010 è stata considerata fortemente influenzata dalla dittatura militare (così come le successive consultazioni parziali).

I risultati saranno importantissimi in ambito regionale. Da un punto di vista geopolitico Myanmar è la porta di accesso allo stretto di Malacca, che prende il nome dalla cittadina malese appartenuta storicamente alle dominazioni portoghese, olandese e britannica.

Malacca è vitale per gli interessi indiani e cinesi, soprattutto nel momento in cui la Cina porta a termine il progetto delle due cinture di collegamenti (l’una marittima passante per Malacca e l’altra terrestre) con il Pakistan.

L’India si vede quindi tagliata fuori dal gioco di contenimento di Pechino, a meno di non riuscire a mantenere una posizione forte sull’Oceano Indiano.

Dal punto di vista della politica economica, acquistare la preminenza nelle relazioni con un Paese sulla soglia dell’apertura al sistema capitalista significherebbe approfittare di un mercato vergine e dalle possibilità offerte dagli oltre 50 milioni di abitanti che presto costituiranno classi medie pronte a entrare in un mercato capitalista.

Inoltre Myanmar rappresenta ciò che in futuro potrebbe essere la Corea del Nord, quando anch’essa dovesse aprirsi al mercato: potrebbe, quindi, costituire un ottimo banco di prova per intrecciare in futuro relazioni con Pyongyang.

Dal punto di vista finanziario, Myanmar è fra i fondatori della Banca asiatica di Investimento per le Infrastrutture, la nuova istituzione monetaria internazionale promossa da Pechino (ed è quindi vitale per la Cina mantenere buoni rapporti).

Infine, l’apparente allontanamento degli Usa offre una finestra di opportunità per divenire il primo interlocutore della nuova Birmania.

La Cina, primo partner, difende la posizione
In passato, la Cina aveva appoggiato il regime militare birmano esercitando una decisa influenza su Myanmar. La forte relazione è stata a più riprese definita come una relazione di convenienza, dalla quale la Repubblica popolare traeva indubbi vantaggi per lo sfruttamento di materie prime e per l’influenza sullo stretto di Malacca, mentre il governo di Rangoon otteneva appoggio politico internazionale (come il veto cinese alle sanzioni nel 2007) e tecnologie anche militari.

Sino al recentissimo passato, i Paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, hanno contestato questa relazione bilaterale. Ogni volta che veniva messa in luce una violazione dei diritti umani da parte della dittatura militare birmana, la comunità internazionale accusava la Cina di comportarsi da free-rider e di non fare abbastanza per condannare il governo di Rangoon.

La Cina rimane il primo interlocutore commerciale di Rangoon e quest’anno, a seguito della cooperazione fra imprese guida nell’estrazione petrolifera - la China National Petroleum Corporation (Cnpc) e la Myanmar Oil and Gas Enterprise (Moge) -, ha aperto un nuovissimo porto sull’Oceano Indiano presso il villaggio di Ramree Island, concepito come punto di passaggio di un importante oleodotto diretto in Cina. È qualcosa di molto simile al porto cinese creato a Gwadar in Pakistan e soprattutto è un ulteriore punto di appoggio su Malacca.

Inoltre gli accordi di cooperazione in ambito energetico (gas) raggiunti nel 2005 e l’appoggio in termini di forniture militari e tecnologiche (costruzione di un oleodotto) che la Cina ha concesso a Myanmar (2009) hanno finito per creare un legame ancora più stretto.

Sembra perciò naturale che il Partito comunista cinese appoggi il regime di Rangoon e tenda al mantenimento dallo status quo, pur attraverso una riforma economica e politica.

L’India, alti e bassi nelle relazioni
Il rapporto con la potenza indiana è invece meno lineare rispetto a quello con la Cina. Dal punto di vista di Nuova Delhi vi sono tre fattori principali da considerare nelle relazioni con Myanmar.

Tali fattori sono: la sicurezza e stabilità del confine indiano a Nord-Est della Birmania e l’influenza della potenza cinese (avversaria del governo di nuova Delhi nella supremazia regionale); l’aspetto economico legato all’apertura del mercato di Rangoon; e la presenza di minoranze hindi sul suolo birmano.

Dall’indipendenza dei due Paesi nel 1947-’48, questi aspetti sono stati sempre importanti nei loro rapporti, che hanno registrato alti e bassi. Fino al 1988, le relazioni fra la Confederazione indiana e la Birmania furono sufficientemente buone, nonostante il conflitto sino-indiano del 1962 (in tale occasione la neutralità di Myanmar fu interpretata da nuova Delhi come un appoggio dell’aggressione cinese).

La crisi si ebbe nel 1988, quando la Confederazione indiana fu il più Paese vicino che criticò più aspramente il governo militare di Rangoon per la repressione della rivolta democratica.

L’ambasciata indiana divenne rifugio per rivoltosi e dissidenti e l’India appoggiò il movimento democratico sino ai primi Anni Novanta, nello stesso periodo in cui la Cina subiva la turbolenta stagione di Piazza Tian An Men.

Tuttavia negli ultimi venti anni le relazioni fra India e Myanmar sono divenute sempre più collaborative e si sono registrate strette relazioni in molti campi, incluso il contrasto all’insorgenza dei movimenti estremisti di etnia Chin e Kachin al confine, la lotta al traffico di droga, la condivisione di elementi di intelligence e, naturalmente, il commercio e gli investimenti.

Un campo in cui non si registra collaborazione di spessore è quello della fornitura di tecnologia militare.

Gli schieramenti in vista delle elezioni
Alle elezioni di novembre gli schieramenti principali saranno lo Union Solidarity and Development Party (Usdp) e la National League for Democracy (Nld). Lo Usdp è il partito del governo militare è guidato da Htayoo, anche se l’attuale presidente Thein Sein è stato un suo membro. L’Nld è il partito democratico di Aung San Suu Kyi (che non potrà essere tuttavia eletta per il veto governativo).

La terza forza in causa saranno i partiti di matrice etnica e regionale, che non dovrebbero tuttavia avere peso, se non quello di interferire con l’Nld accattivandosi parte del suo elettorato.

La Cina dovrebbe appoggiare quasi sicuramente il mantenimento dello status quo imposto dal governo militare di Rangoon, cercando per quanto possibile di evitare stravolgimenti eccessivamente democratizzanti nel processo di apertura al fine di mantenere i vantaggi storicamente acquisiti nell’alleanza con Myanmar.

L’india invece cercherà verosimilmente di appoggiare l’Nld sia per opporsi alla volontà cinese nel gioco di potenze regionale sia per ottenere vantaggi economici e nel campo della sicurezza (cooperazione nel contrasto all’insorgenza).

Francesco Valacchi si è laureato in Scienze Strategiche nel 2004 presso l’ateneo di Torino ed in Studi Internazionali presso quello di Pisa nel 2013. È appassionato di geopolitica e strategia; è ufficiale in servizio permanente effettivo nell’esercito italiano.
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mercoledì 2 settembre 2015

Afganistan: continua la instabilità

Province settentrionali
Afghanistan: stabilità sempre più lontana
Elvio Rotondo
25/08/2015
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Dopo 13 anni di presenza dei militari di Isaf nel paese, l’Afghanistan si trova ora ad affrontare, quasi solamente con le proprie forze, la complicata situazione della sicurezza che affligge il Paese ormai da decenni.

Il 14 luglio ‘Tolo TV’, televisione afghana, annunciava che, negli ultimi giorni, i talebani avevano preso il controllo di 30 villaggi nel distretto di Qaysar, di 40 nel distretto di Almar e di 35 nel distretto di Shirin Tagab, tutti della provincia di Faryab, nel nord-ovest.

Secondo quanto riferito da Rfe (Radio Free Europe), il mese scorso il capo del Consiglio provinciale, Sayed Abdul Baki Hashami, aveva detto che i talebani e i loro alleati stranieri, nel distretto di Almar, bruciano le case di chiunque sia sospettato di appoggiare o aiutare i combattenti filo-governativi.

Gli abitanti della provincia si trovano in una situazione disperata e denunciano la mancanza di sostegno da parte del governo. Hashami aveva informato decine di volte Kabul che quelle aree stavano per cadere in mano ai talebani e che la situazione si stava deteriorando.

Feudi personali del generale Dostum
La provincia di Faryab con quelle di Balkh, Jowzyan e Sar-e-pul, abitate soprattutto da tagiki e uzbeki, sono considerate il feudo personale dell’attuale vice-presidente afghano, Abdul Rashid Dostum, che ha cercato di ottenere aiuto dal suo stesso governo, facendo pressioni sul Consiglio di Sicurezza nazionale per un intervento, al fine di contrastare le incursioni talebane nella provincia. Il 21 agosto, secondo il sito Pajhwok.com, lo stesso Dostum, che era a bordo di un veicolo blindato, sarebbe scampato a un attentato nel distretto di Qaisar.

Dostum, durante la guerra sovietica in Afghanistan, è stato un generale dell'esercito afghano, un comandante chiave nell’esercito di Najibullah. In seguito, divenne un signore della guerra indipendente e leader della comunità uzbeka afghana. Ha partecipato ai combattimenti contro i mujaheddin nel 1980, così come contro i talebani nel 1990, ed era di stanza nel nord dell'Afghanistan, nella roccaforte di Mazar-i Sharif.

La provincia di Fāryāb, considerata un tempo relativamente tranquilla, conta circa 858.600 abitanti, ha come capoluogo Meymaneh e confina con il Turkmenistan.

Le forze in campo nella Regione
I combattenti talebani nella provincia sono circa 3.000, secondo alcuni funzionari della sicurezza, e sono sostenuti da circa 500 guerriglieri stranieri, in gran parte appartenenti al Movimento islamico dell'Uzbekistan (Imu), che, secondo quanto scrive The New York Times, quest'anno avrebbe promesso fedeltà allo Stato Islamico.

Il governo locale non rivela il numero esatto di soldati e agenti di polizia presenti nella provincia, ma la loro entità non è sufficiente. I talebani hanno guadagnato terreno, nonostante la presenza stimata di 5.000 miliziani filo-governativi chiamati in aiuto dai locali per disperazione.

Il generale Dostum, secondo il NYT, sarebbe tornato alle sue radici, attivando a luglio un insieme di milizie private, che, con alcune unità di polizia e dell'esercito afghano, cercherebbero di contrastare i gruppi di talebani.

Il ruolo delle milizie private
Nella provincia di Faryab, un gateway cruciale nel nord del paese, è sempre più chiaro che l'inserimento di queste milizie, di discutibile lealtà, hanno reso il campo di battaglia caotico, tanto da ricordare i combattimenti tra fazioni degli anni ‘90, che fecero centinaia di migliaia di morti.

Le milizie sono a tutti gli effetti degli eserciti privati che rispondono a un leader o a un’etnia: spesso i loro componenti combattono, per ragioni d’opportunità, l’uno o l’altro gruppo rivale, passando persino ai talebani o viceversa; e sovente le milizie contrapposte si affrontano sullo stesso campo di battaglia dove, da decenni, contrastano i talebani per il controllo del territorio. Il tutto si traduce in una lotta per il potere tra le varie fazioni etniche, con alleanze che cambiano improvvisamente.

Questo territorio è molto conteso per la presenza del commercio dell’oppio, importante nell’economia afgana: i papaveri dell’oppio hanno finanziato a lungo i signori della guerra. I progetti governativi di riconvertire la produzione del papavero in coltivazioni lecite come quella dello zafferano non hanno avuto molto successo. Molti piccoli agricoltori, disperatamente poveri, sono ancora orientati verso la coltivazione dell’oppio perché più conveniente.

Signori della Guerra, oppio e rifugiati
Secondo il gruppo norvegese Norwegian Refugee Council, quest’anno circa 30.000 civili avrebbero lasciato le loro terre a causa della violenza nella provincia di Faryab, proprio quando ci si preparava al raccolto. Le Nazioni Unite riportano un incremento di vittime civili e di sfollati, a causa di combattimenti tra milizie filo-governative rivali nella regione.

A giugno, secondo quanto riferisce il Wall Street Journal, Abdul Rashid Dostum e Mohammed Atta, il governatore della provincia di Balkh, un tempo in competizione per il controllo delle vie commerciali e dei traffici di droga, avrebbero stretto un’alleanza, unendo le milizie a loro fedeli contro i talebani.

Il Governo afgano avrebbe permesso alle milizie dei due ex rivali di operare apertamente per contribuire a combattere i talebani nel nord dell'Afghanistan, suscitando timori di un ritorno ai tempi dei Signori della Guerra.

Infine, la presenza di combattenti stranieri e la comparsa dello Stato Islamico in Afghanistan appaiono alquanto preoccupanti perché potrebbero essere d’ispirazione ideologica per alcuni comandanti talebani, creare fratture al loro interno e condizionare eventuali futuri processi di pace con il governo.

Hamid Karzai, l’ex presidente afghano, durante una visita a Mosca, ha detto che lo Stato Islamico utilizzerebbe l'Afghanistan come piattaforma di lancio per diffondere la propria influenza in tutta la regione.

L’aumento dell’integralismo islamico in Asia centrale e un Afghanistan ancor più debole e destabilizzato sono fonte di preoccupazione per molti Paesi, tra cui la Russia.

Elvio Rotondo è Country Analyst de “Il Nodo di Gordio”.
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