Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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venerdì 31 marzo 2017

Le due Coree: prospettive italiane

ontani e vicini
Il futuro della penisola coreana e l’Italia
Nicola Casarini
29/03/2017
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C’è un film di Wim Wenders del 1993 il cui titolo – così lontano, così vicino - ben si addice alla relazione tra l’Italia e la penisola coreana. Quest’ultima è infatti uno dei territori più distanti da noi. Eppure è proprio con una parte della penisola – la Corea del Sud – che l’Italia e l’Europa hanno stretto rapporti economici e politici tra i più intensi al mondo.

Seul è stata infatti la prima capitale di un grande Paese industrializzato a siglare un accordo di libero scambio (Free trade agreement – Fta) con l’Ue nel luglio 2011. Da allora, l’interscambio Ue-Corea del Sud è in continuo aumento, anche perché dal 1̊ luglio 2016 i dazi all’importazione sono stati eliminati su tutti i prodotti ad eccezione di un numero limitato di derrate agricole.

Rapporti Corea del Sud-Ue sempre più stretti
L’interscambio bilaterale Italia-Corea del Sud è cresciuto di conseguenza negli ultimi anni. Secondo i dati Ice, nel 2010 l’interscambio complessivo era pari a 5,5 miliardi di euro con esportazioni italiane per 2,5 miliardi di euro. Nel 2015, l’interscambio è arrivato a 7,7 miliardi di euro e le nostre esportazioni sono salite oltre i 4,5 miliardi di euro, a dimostrazione del salto di qualità rappresentato dall’accordo di libero scambio.

I dati definitivi per il 2016, sebbene non ancora pubblicati, lasciano intravvedere un aumento ulteriore dell’interscambio, in particolare nell’alimentare e nella moda, ma anche in settori quali automotive, macchine utensili, biomedicale e biotecnologie.

Sull’onda del successo dell’accordo con la Corea del Sud, la Ue sta finalizzando un Fta con il Giappone (che si dovrebbe concludere quest’anno), ha aperto le discussioni con l’India e ha in corso negoziazioni con la Cina su un accordo sugli investimenti.

La Corea del Sud ha pertanto fatto da apripista agli accordi commerciali tra la Ue e i grandi Paesi asiatici. Seul rappresenta – dopo Giappone, Cina e India - la quarta potenza economica dell’Asia e la sesta potenza manifatturiera mondiale, avendo superato proprio l’Italia nel 2010.

Il legame tra Corea del Sud e Europa non è solo economico, ma anche politico. Seul è stata, infatti, la prima capitale sempre di un grande Paese industrializzato a siglare, nel 2015, un accordo con la Ue per la partecipazione alle missioni europee di gestione delle crisi, in particolare in Africa. Anche in questo caso, la Corea del Sud sta facendo da apripista per altri paesi asiatici.

Questa luna di miele tra Ue e Seul richia, però, di venire turbata da un terzo incomodo: Pyongyang.

La minaccia nord-coreana
La Corea del Sud si trova ora in uno stato di massima allerta, dopo che il 6 marzo, quattro missili sono stati lanciati simultaneamente dal sito militare di Tongchang-ri in Corea del Nord. Il lancio è avvenuto in risposta all’inizio delle annuali esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, che da quarant’anni si tengono solitamente in questo periodo e che Pyongyang vede come delle vere e proprie prove di invasione.

Allo stesso tempo, Usa e Corea del Sud hanno trovato un accordo per l’installazione dello scudo missilistico Thaad (Terminal High Altitude Area Defense), che avrà il compito di neutralizzare la minaccia missilistica nordcoreana. Il test simultaneo di inizio marzo ha accelerato i piani di dispiegamento, a tal punto che le prime componenti dello scudo missilistico sono già arrivate a Seul.

Il tutto succede in un momento di grave crisi politica nel Sud, dopo che il 10 marzo – e dopo ben quattro mesi dallo scandalo che aveva portato la presidentessa Park Geun-hye alla messa in stato d’accusa - la Corte costituzionale sudcoreana ha confermato con voto unanime le accuse mosse nei confronti della Park, obbligandola di fatto a rassegnare le proprie dimissioni.

In un tale conteso, il 17 marzo è avvenuta la visita di Rex Tillerson in Corea del Sud. Il segretario di Stato Usa ha voluto rassicurare l’alleato, dichiarando che tutte le opzioni sono aperte (‘all options are on the table’) nei confronti della Corea del Nord.

Cosa può fare l’Italia
Di fronte alla minaccia nord-coreana e al dispiegamento del Thaad, non c’è molto che l’Europa e l’Italia possano fare, se non ricordare - come ha fatto l’Alto Commissario Federica Mogherini in varie dichiarazioni nelle ultime settimane – la ferma condanna alle provocazioni provenienti da Pyongyang e l’auspicio che si trovi una soluzione che garantisca pace e stabilità alla penisola coreana.

Una cosa però il governo italiano può fare. Ed è di ricordarsi che la penisola coreana non è cosi lontana, e che i missili nord-coreani colpiscono indirettamente anche noi, visto che minacciano la sicurezza di un Paese – la Corea del Sud - che è sempre piu vicino a noi, sia economicamente, che politicamente.

In qualità di membro del club del G7, l’Italia deve sforzarsi – nonostante il provincialismo della maggioranza della classe politica italiana – a pensare in maniera globale. Perche se è vero che Roma può fare poco, è altrettanto vero che, anche solo mantenendo l’attenzione viva sulla crisi che attanaglia la penisola coreana, l’Italia dà il suo contributo alla questione. In tal senso il 30 marzo lo IAI organizza a Firenze una conferenza su What Future for the Korean Peninsula?.

Nicola Casarini è coordinatore dell’area di ricerca Asia dello IAI.

martedì 28 marzo 2017

Una volta si chiamava Birmania

Asia
Myanmar: la pace non è più un gioco a somma zero
Francesco Valacchi
27/03/2017
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Si terrà entro fine marzo il secondo incontro del processo di pace tra fazioni etniche del Myanmar ed il primo governo democraticamente eletto e indipendente del Paese.

Se la reggenza militare che ha accompagnato (direttamente e indirettamente) il Myanmar sino al 2016 aveva investito nella ricerca di accordi bilaterali con i vari gruppi etnici, per dividere le fazioni e controllare meglio la situazione nel Paese, il governo attuale sta invece intraprendendo una strategia più ampia. Il perseguimento di una soluzione cooperativa che unisca i gruppi armati in una visione comune ha però bisogno di vantaggi condivisi nel processo di pace che devono essere creati sul medio e lungo termine per essere appetibili.

Gli accordi del regime militare
Un importante punto del programma della Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San SuuKyi è l’impegno politico per una soluzione di ampio respiro al problema della presenza dei gruppi armati nel Paese. La strategia del regime militare aveva, da par suo, ottenuto risultati parziali, siglando accordi bilaterali con le singole fazioni, in modo da consolidare il potere centrale con un classico gioco a somma zero.

I risultati di rilievo raccolti negli ultimi anni erano stati gli accordi bilaterali con l’”Organizzazione per l’indipendenza del Kachin” (1994), l’“UnitedWa State Army” (cessate il fuoco nel 2011 e accordi nel 2013), il “Gruppo per la restaurazione del Consiglio Shan” (cessate il fuoco nel 2012), il “Partito progressista Shan” (cessate il fuoco nel 2012), l’”Unione nazionale Karen” (cessate il fuoco nel 2012), il “Partito Progressista delle Nazionalità Karenni” (accordi fra 2012 e 2013), il “Fronte Nazionale Chin” (2012)e con il “Partito per la liberazione dell’Arakan” (2012).

Tuttavia, la quasi totalità di queste intese, eccezion fatta per quelli riguardanti la nazionalità Karenni (arricchiti nel 2013 da una commissione mista di controllo delle misure attuative) hanno vacillato o sono naufragati per il comportamento di entrambe le parti. Gli accordi con i Karenni sono stati importanti per la creazione di condizioni di sicurezza in un territorio stravolto dal problema dei campi minati. La causa del fallimento degli altri trattati è invece da ricercarsi nella posizione generale delle parti (governo militare da un lato, gruppi di insorgenza dall’altro) che hanno negoziato al fine di ottenere vantaggi parziali per la propria fazione.

La strategia di Aung San Suu Kyi
Il partito di Aung San Suu Kyi ha cercato invece un approccio più riflessivo alla questione dell’insorgenza etnica nel Paese, pur affrontando in maniera pronta e proattiva la questione. Nell’agosto 2016, pochi mesi dopo l’insediamento del governo, si è infatti tenuta nella capitale Naypyidaw la Conferenza di Pace di Panglong del XXI secolo (dal nome dell’iniziativa che si tenne nel 1947 nell’omonima cittadina e con cui gli organi politici delle nazioni Chin, Kachin e Shan presero la decisione di entrare nell’Unione Birmana).

L’incontro ha visto l’estensione dell’invito a tutti i gruppi di ribelli, prendendo le mosse da una prima iniziativa a dimensione nazionale già realizzata dal precedente esecutivo: l’Accordo nazionale di cessate il fuoco. Tale documento era stato siglato da otto gruppi con il governo nell’ottobre 2015 e conteneva le basi dell’intesa per un inclusivo processo di pace a partire dal riconoscimento della sovranità del governo birmano sul territorio e dal contemporaneo, generale, riconoscimento di una certa dimensione di autonomia federalista, specialmente dal punto di vista economico.

L’iniziativa Panglong-21, procede dall’intesa del 2015 e cerca di formare un tavolo di dialogo continuativo, inclusivo e a tappe, a cadenza semestrale. Hanno partecipato, in vari titoli e forme, le rappresentanze di tutti i gruppi di insorti ad eccezione dell’“Esercito di Arakan”, dell’“Esercito nazionale di liberazione del Ta’ang”, dell’“Esercito dell’Alleanza nazionaldemocratica per il Myanmar” e di alcuni gruppi della nazione Khaplang.

Il risultato principale è stato il coinvolgimento inclusivo dei gruppi a livello nazionale per la ricerca di una soluzione definitiva che includa tutte le realtà. Questo meccanismo è destinato a superare gli accordi bilaterali che lasciavano spazio da un lato alla decadenza degli interessi di una parte e alla successiva ripresa delle ostilità, e dall’altro ad alleanze fra le fazioni per cercare una soluzione egoisticamente migliore. Si è intrapresa quindi una strada politica che mira a cercare una soluzione generale e coinvolge le parti per la prima volta in una visione essenzialmente nazionale del problema.

Difficoltà e cooperazione
Gli aspetti che ancora purtroppo non convincono dell’iniziativa Panglong-21 sono il mantenimento ad un livello generale delle trattative, che saranno però approfondite nei successivi incontri, e il rischio che i richiami frequenti dei convegni non consentano un avanzamento delle condizioni di partenza della posizione delle singole parti.

La seconda conferenza Panglong-21, inizialmente prevista per febbraio è stata rimandataa fine marzo per permettere un ulteriore coordinamento fra gruppi partecipanti come firmatari di accordi precedenti e non (in particolare con i componenti dell’etnia Wa), e se possibile, una parificazione delle loro posizioni di fronte a quella dell’esecutivo birmano. Proprio per raggiungere le trattative al meglio, alcuni gruppi, fra partecipanti e non alla Conferenza, si sono incontrati, nel frattempo,nella confinante provincia cinese dello Yunnan con rappresentanti del governo di Pechino.

Tanto sta avvenendo mentre nelle regioni dell’Arakan e dello Shan vi sono stati e sono in corso combattimenti tra fazioni ed esercito birmano, che saranno forieri di un clima di difficile incertezza nelle trattative.

I vantaggi di un gioco cooperativo possono essere attrattivi a medio termine se rappresentano un tangibile win-win economico per le parti in causa. Allo stesso tempo, l’ingresso nei mercati, conseguenza della democratizzazione del paese, potrà essere la svolta per la creazione di significative occasioni economiche condivisibili fra le parti (ad esempio in ambito turistico), dando vigore all’iniziativa Panglong-21 e accelerandone i tempi.

Francesco Valacchi si è laureato in Scienze Strategiche nel 2004 presso l’ateneo di Torino ed in Studi internazionali presso quello di Pisa nel 2013. È appassionato di geopolitica e strategia; è ufficiale in servizio permanente effettivo nell’esercito italiano.

domenica 26 marzo 2017

Corea del sud:: si cerca una soluzione

Asia
Scudi missilistici e crisi politica: Corea Sud dopo Park 
Lorenzo Mariani, Giuseppe Spatafora
22/03/2017
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Si è conclusa con quasi dieci mesi di anticipo rispetto alla naturale scadenza del mandato la presidenza di Park Geun-hye, figlia dell’ex-dittatore Park Chung-hee e prima donna alla guida della Corea del Sud.

Il 10 marzo, dopo quattro mesi dallo scandalo che aveva portato la presidentessa alla messa in stato d’accusa, la Corte costituzionale sudcoreana ha confermato con voto unanime le accuse mosse nei confronti della Park, obbligandola di fatto a rassegnare le proprie dimissioni.

La Park era stata sospesa dall’incarico nel dicembre dello scorso anno a seguito del presunto coinvolgimento nel caso di corruzione che aveva portato all’arresto di Choi Soo Sil, sua amica d’infanzia. Dalle indagini era emerso che la Choi, vera e propria eminenza grigia dell’amministrazione Park, aveva avuto regolare accesso a documenti governativi riservati ed era accusata di aver influenzato le scelte della presidentessa: una circostanza che aveva messo in discussione l’integrità e l’affidabilità della più alta carica dello Stato.

Il vuoto di potere generato dalla crisi di governo apre ora un periodo delicato per la Corea del Sud. Se il rallentamento della crescita economica e la necessità di riformare le chaebol (i conglomerati industriali che dominano l’economia sudcoreana) rappresentano i due temi di politica interna di maggior urgenza, è tuttavia dal punto di vista internazionale che il prossimo presidente dovrà scegliere con cautela la propria strategia. In un clima globale particolarmente teso, il primo ministro e presidente ad interim Hwang Kyo-ahn avrà di fronte a sé 60 giorni per condurre il Paese alle elezioni anticipate.

Equilibri nella penisola
Dal punto di vista internazionale, Seoul si ritrova in una situazione geopolitica particolarmente critica, marcata dalle crescenti tensioni con la Corea del Nord e dalle scelte in possibile rotta di collisione con la Cina del presidente statunitense Donald Trump.

Il 6 marzo, quattro missili sono stati lanciati simultaneamente dal sito militare di Tongchang-ri in Corea del Nord: tre di questi sono ammarati nel Mar del Giappone, all’interno della zona economica esclusiva (Zee) di Tokyo. Il lancio è avvenuto in risposta all’inizio delle annuali esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, che da quarant’anni si tengono solitamente in questo periodo e che Pyongyang vede come delle vere e proprie prove di invasione.

L’elezione di Trump, lo scorso novembre, aveva messo in discussione la cooperazione militare tra americani e sudcoreani, ma il presidente sembrerebbe essere tornato sui suoi passi riguardo la necessità per Washington di mantenere salda la propria presenza nella penisola, almeno per il momento.

Allo stesso tempo, Usa e Corea del Sud hanno trovato un accordo per l’installazione dello scudo missilistico Thaad (Terminal High Altitude Area Defense), che avrà il compito di neutralizzare la minaccia missilistica nordcoreana. Il test simultaneo di inizio marzo ha accelerato i piani di dispiegamento, tanto che le prime componenti dello scudo missilistico sarebbero già arrivate in Corea poco dopo.

Seoul fra Cina e Usa
Ed è proprio sulla questione dell’installazione del Thaad che nelle settimane passate le relazioni tra Pechino e Seoul si sono fatte sempre più tese. Nonostante la Cina abbia recentemente riconosciuto la necessità per la Corea del Sud di far fronte alla crescente minaccia nordcoreana, dal suo punto di vista lo scudo missilistico americano rappresenterebbe più una manovra di contenimento nei confronti del Paese del Dragone che un sistema di difesa per Seoul.

Il raggio d’azione dello scudo si estenderebbe, infatti, ben oltre la penisola coreana e, se integrato con nuove installazioni nelle Filippine ed in Giappone, rappresenterebbe una seria minaccia ai crescenti interessi della Cina nella regione.

Pechino ha minacciato ritorsioni economiche nei confronti di aziende sudcoreane: nel corso dell’ultima settimana, una campagna di boicottaggio ha preso di mira la catena di supermercati Lotte, dopo la notizia che il gruppo sudcoreano avrebbe concesso al governo di Seoul alcuni terreni di sua proprietà per ospitare il Thaad.

Le crescenti tensioni diplomatiche rischiano di mettere in seria discussione non solo i rapporti commerciali e finanziari tra i due Paesi ma anche di trascinare la Cina verso un’ulteriore corsa agli armamenti. Alle parole del ministro degli Esteri cinese WangYi (secondo il quale Seoul e Washington “dovranno rispondere di tutte le conseguenze” che scaturiranno dalle loro “scelte sbagliate”) hanno fatto seguito i preoccupati editoriali pubblicati dal Global Times e dall’agenzia cinese Xinhua, nei quali si invitava Pechino a incrementare il proprio arsenale militare per controbilanciare l’egemonia militare statunitense.

I candidati alla successione
Come prevedibile, l’impeachment della presidentessa Park ha riportato gran parte del consenso dell’elettorato sudcoreano verso l’attuale forza di opposizione, il Democratic Party of Korea (Dpk), per il quale ora si presenta una grande occasione per riconquistare la presidenza dopo i due mandati consecutivi del partito conservatore.

Stando alle ultime proiezioni rilasciate dall’agenzia Realmeter, la breve campagna elettorale non dovrebbe riservare grandi sorprese: i due candidati favoriti sono entrambi del Democratic Party e hanno un distacco percentuale che gli avversari potranno difficilmente recuperare. In testa ai sondaggi, con il 32% delle preferenze, è Moon Jae-in, sessantaquattrenne ex parlamentare del Dpk, l’avversario sconfitto dalla Park nel 2012 con uno scarto di appena il 3%.

In politica estera, Moon si discosta profondamente dall’amministrazione uscente: è a favore di un approccio più flessibile con Pyongyang ed ha anche promesso di rivedere la decisione di dispiegare il Thaad alla luce della reazione cinese.

Il candidato che potrebbe maggiormente insidiare Moon è An Hee-jung, anch’egli proveniente dall’ala di centrosinistra: secondo le rilevazioni, è dato al 17%. Come Moon, An suggerisce di rivedere la strategia nazionale nei confronti della Corea del Nord, ma senza rinunciare allo sviluppo del Thaad. Con la sua posizione più moderata, An ha intenzione di creare una grande coalizione, cercando di attirare i voti non solo dell’elettorato centrista ma anche dei conservatori delusi dalla Park.

Fra le fila del centrodestra, attualmente al minimo storico dei consensi, potrebbe emergere la candidatura del presidente ad interim Hwang Kyo-ahn, considerato uno dei fedelissimi della Park e fermo sostenitore della sua politica estera. Dalla sua parte sarebbe al momento il 9% dell’elettorato. Hwang, che ha promesso di portare a termine l’istallazione dello scudo missilistico prima delle elezioni, potrebbe sfruttare questi ultimi due mesi prima del voto per raccogliere consensi tra i sostenitori della presidentessa delusi dalla decisione della Corte costituzionale.

Lorenzo Mariani e Giuseppe Spatafora sono assistenti alla ricerca dell’area Asia dello IAI, dove si occupano di Relazioni internazionali dell’Asia orientale.

mercoledì 8 marzo 2017

CINA: nuove prospettive in Europa

Cina
La nuova Via della Seta passa per i Balcani
Anastas Vangeli
06/03/2017
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I Paesi dell’Europa centro-orientale hanno un ruolo significativo per l’attuazione della Belt & Road Inititative (Bri), la nuova Via della Seta che punta a migliorare collegamenti e cooperazione nella regione eurasiatica. Una convinzione rafforzata dalle visite del presidente cinese Xi Jinping a Praga, Belgrado e Varsavia, l’anno scorso.

Già nel 2012, la Cina aveva lanciato una piattaforma per la cooperazione 16+1 con i sedici paesi dell’Europa centrale, orientale e sud-orientale. Con l’avvio della Bri, nel 2013 il raggruppamento 16+1 è stato riformulato come uno dei meccanismi per l’implementazione della nuova iniziativa.

Insoddisfazione per l’Ue, arriva Pechino
In Europa, il principale interrogativo attorno alla cooperazione 16+1 riguarda i suoi potenziali effetti sulle relazioni fra Unione europea, Ue e Cina: undici dei Paesi interessati sono infatti membri dell’Ue. Interrogativi altrettanto importanti - anch’essi con ricadute sulle relazioni fra Bruxelles e Pechino - suscita pure la cooperazione fra la Cina e i rimanenti cinque Paesi della regione, interlocutori privilegiati dell’Ue in ottica di allargamento: Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Montenegro e Serbia.

Le guerre degli anni Novanta e il conseguente declino politico ed economico della regione hanno privato i Paesi balcanici di buona parte del loro peso internazionale. Negli ultimi 25 anni, l’agenda regionale è stata di fatto dettata dalla comunità internazionale, vale a dire in primis dall’Ue e dagli Stati Uniti.

Vista in passato come portatrice di cambiamenti positivi, l’Ue è oggi considerata sempre più come parte del problema. Ancora peggiore è il bilancio sul piano delle trasformazioni economiche. Le riforme neoliberiste hanno prodotto devastazione economica. La crisi finanziaria globale ha finito per consolidare la posizione dei Balcani quale “super-periferia” dell’Europa, che ha sofferto maggiormente della recessione globale del 2008-2009. Se i settori ad alta intensità di lavoro prosperano nella regione, è perché qui il lavoro manuale costa ancora meno che in Cina.

Una cooperazione pragmatica
La Bri approda quindi nei Balcani proprio nel momento in cui a dominare è l’insoddisfazione per i paradigmi prevalenti negli ultimi 25 anni. I principi su cui si basa l’iniziativa sono assai differenti da quelli sinora promossi dall’Occidente. La parola-chiave impiegata dalla Cina è infatti “potenziale economico non sfruttato”: la cooperazione interessa cioè diversi ambiti, ma viene qualificata come “pragmatica”, nel senso che le questioni politiche vengono lasciate al di fuori del perimetro delle discussioni.

L’attenzione si concentra piuttosto sull’elaborazione e sull’attuazione di progetti concreti, in alcuni settori prioritari: le reti infrastrutturali di trasporto ed energia, la cooperazione in materia di capacità industriale e il potenziamento di commercio e investimenti.

Lentamente ma con costanza, la Cina ha saputo garantire risultati concreti: autostrade, centrali elettriche e stabilimenti siderurgici sono in fase di realizzazione o sono già stati completati, mentre un numero sempre maggiore di progetti è oggetto di discussione in svariate sedi politiche e accademiche.

Nonostante Pechino riconosca la differenza esistente fra Stati membri dell’Ue e non - e anzi attribuisca ai secondi una maggiore “flessibilità” nella cooperazione -, l’approccio sinora seguito dalla Cina rifugge dalla caratterizzazione dei Balcani come gruppo strutturalmente distinto per specificità storiche e culturali (spesso negative). Al contrario, Pechino guarda ai Paesi dell’ex Jugoslavia come parte di una regione più ampia, definita sulla base di somiglianze strutturali e prossimità geografiche.

Allo stesso modo, la geografia mentale della Cina non vede nei Balcani il retroterra dell’Europa, bensì un ponte fra regioni diverse. È su queste basi che sono stati inclusi nella Bri progetti infrastrutturali su vasta scala, come la cosiddetta China-Europe Land-Sea Express Railway, che collega Budapest al porto greco del Pireo (ora posseduto al 67% dalla cinese Cosco) attraverso Serbia e Macedonia, coinvolgendo Paesi Ue e non.

Si mira così a superare le distinzioni e le contrapposizioni storiche attraverso una cooperazione intra-regionale che appare oggi imprescindibile. Ciò dovrebbe permettere ai Balcani di ritrovare un ruolo internazionale e di agire in prima persona sulla propria agenda di sviluppo.

La cooperazione all’interno della Brisi presenta come un processo aperto e senza condizionalità, con risultati facilmente visibili e misurabili in termini di investimenti infrastrutturali e di flussi commerciali. L’iniziativa è ancora allo stadio iniziale e avrà bisogno di tempo per crescere ed espandersi. Assumendo che la tendenza attuale continui, quali potranno esserne i risultati?

La Cina non intende sostituire l’Ue e gli Stati Uniti quale principale attore esterno nella regione; non ne avrebbe peraltro il potenziale. Né può fare miracoli, come spera qualcuno.L’esperienza di altre regioni mostra, tuttavia, che a un intensificarsi della diplomazia economica cinese corrispondono migliori performance economiche. Anche se ciò ha un prezzo: per esempio, la Cina influenza indirettamente il dibattito locale sui modelli politici, offrendo spesso ispirazione ai fautori di militarismo e liberalizzazione economica.

Bca, Bri e riflessi per l’Italia
Quale sarà la risposta degli altri attori globali - e dell’Ue in particolare - all’espansione della Bri nei Balcani? Nel 2014, Bruxelles ha avviato il cosiddetto Processo di Berlino sui Balcani occidentali e nel 2015 la Balkan connectivity agenda (Bca), mettendo per la prima volta l’accento sullo sviluppo economico.

Dati il cambiamento di approccio e la somiglianza con quanto la Cina sta facendo nella regione, la Bca è stata vista da alcuni come la risposta europea alla Bri. Ma Cina e Ue restano dopotutto partner strategici: così come hanno individuato forme di coordinamento fra il piano Juncker e la Bri, potrebbero riuscire a creare sinergie tra la Bca e la componente balcanica della Bri.

Infine, che cosa significa per l’Italia il crescente coinvolgimento della Cina nei Balcani? Tramite il mare Adriatico e il porto di Trieste, l’Italia è fisicamente connessa ai Balcani, i suoi legami storici e culturali con la regione sono profondi e Roma resta tuttora uno dei principali partner economici dei Paesi balcanici.

Le nuove vie di comunicazione terrestri e marittime delineate dalla Bri non potranno che rafforzare tali legami, mentre il rilancio di un’agenda economica per i Balcani creerà nuove opportunità per la cooperazione economica. Sono questi, di per sé, incentivi sufficienti per mettere a frutto l’esperienza che l’Italia ha maturato nella cooperazione tanto con la Cina quanto con i Balcani.

Traduzione dall’inglese a cura di Simone Dossi.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Anastas Vangeli, dottorando, Graduate School for Social Research dell’Accademia polacca delle scienze; junior research fellow, T.wai

martedì 7 marzo 2017

Orizzonte CIna: Marzo 2017



Bentornati al bimestrale OrizzonteCina (ISSN 2280-8035). In questo numero articoli su:
• La Belt & Road Initiative e il nuovo globalismo sinocentrico di Pechino | Enrico Fardella
• La geo-economia marittima, la Cina e la nuova centralità del Mediterraneo | Massimo Deandreis
• L’impatto della Belt & Road Initiative sull’economia italiana | Giorgio Prodi
• La dimensione people-to-people nella Belt & Road Initiative: come un pubblico strategico cinese percepisce l’Italia | Giovanni Andornino
• La Via della seta nei Balcani: contesto e prospettive | Anastas Vangeli
• Sicurezza, stabilità e interessi sulle sponde del Mar Rosso: il ruolo dei caschi blu cinesi | Andrea Ghiselli
• La Via della seta marittima e il Mediterraneo | Nicola Casarini e Lorenzo Mariani
• L’importanza crescente degli studenti universitari cinesi per la società italiana | Daniele Brigadoi Cologna
• Li Kunwu e Philippe Ôtié, Una vita cinese. Il tempo del padre | Recensione di Giuseppe Gabusi

CIna: le influenze economiche in Italia

Economia
Cina, impatto nuova Via della Seta su Italia
Giorgio Prodi
27/02/2017
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Forse per riguardo alla storia passata, a Marco Polo e a Matteo Ricci, tutte le mappe che descrivono le nuove Vie della seta (o, per dirla alla cinese, la Belt & Road Initiative, Bri) prevedono un terminale a Venezia. Ma quale potrà essere l’impatto economico sul nostro Paese delle migliaia di miliardi di dollari previsti in investimenti infrastrutturali?

È difficile dare una risposta precisa, mentre il presidente cinese Xi Jinping, incontrando a Pechino il Capo dello Stato Sergio Mattarella, invita l’Italia a essere un partner chiave della Bri.

Da un lato, molti degli investimenti in infrastrutture devono essere ancora effettuati, se non addirittura progettati. Dall’altro, gli investimenti infrastrutturali sono solo una delle componenti della Bri. Va tuttavia notato che gli investimenti previsti dalla Bri si concentrano prevalentemente in Asia. In primo luogo, quindi, la Bri renderà più forti le connessioni tra i Paesi asiatici: il Vecchio Continente potrebbe, almeno in termini relativi, perdere parte della sua centralità economica.

Due sono gli aspetti che possono avere maggiore impatto sulle imprese e sull’economia dell’Italia: le nuove reti ferroviarie che connettono la Cina all’Europa e il rafforzamento dei porti, in particolare nel sud del continente.

Ferrovie: Roma vs Berlino
La Bri prevede tre corridoi principali. Il primo è quello che dalla Cina attraversa Kazakhstan, Russia e Polonia e termina in Germania. Il secondo connette la Cina alla Transiberiana e quindi all’Europa. Il terzo è invece un passaggio più a sud. Il primo servizio di trasporto ferroviario commerciale che unisce Pechino all’Europa è del 2011 ed è quindi antecedente all’annuncio della Bri. Più recentemente, altri ne sono stati attivati, portando treni dalla Cina a Madrid e in altre città europee (ma pure a Teheran), anche se, bisogna dire, si tratta di treni con pochissimi container.

L’aumento delle connessioni ferroviarie con l’Asia (non solo con la Cina) crea sicuramente nuove opportunità per le nostre imprese. Tuttavia l’impatto, almeno nel medio periodo, non sarà particolarmente rilevante. Le stime più accreditate prevedono che le nuove ferrovie saranno in grado di movimentare dai 300mila ai 500mila container l’anno. Numeri interessanti ma che rappresentano una piccola percentuale dei circa 20 milioni di container trasportati via mare ogni anno tra Europa e Asia.

Vi sono però filiere produttive che potrebbero veder cambiare la propria posizione competitiva. Chi esporta prodotti che hanno un rapporto valore/peso elevato può guardare con interesse a un’opportunità che permette di tagliare i tempi di trasporto tra Europa e Asia da 35/40 giorni a 15/18 giorni, a fronte però di costi di trasporto che possono essere dalle tre alle quattro volte superiori a quelli via nave.

Il settore automobilistico è uno di questi. Oggi, i produttori italiani hanno un limitato vantaggio competitivo rispetto ai competitor tedeschi: poiché quasi tutto viene trasportato via mare, ciò che è imbarcato nei porti italiani ha cinque giorni nave di vantaggio rispetto a quanto è imbarcato in Germania. L’utilizzo del trasporto su ferro azzererebbe il vantaggio tricolore e anzi lo ribalterebbe in parte, perché i tedeschi risulterebbero più vicini alla Cina rispetto ai concorrenti italiani. Diventerebbe però più facile per i cinesi esportare sui mercati europei e, quindi, anche in Italia.

Ad oggi, l’Europa importa oltre 12 miliardi di dollari in beni relativi al settore automobilistico dalla Cina: è una percentuale minima rispetto al totale delle importazioni (350 miliardi di euro nel 2015), ma si tratta di volumi che potrebbero aumentare considerevolmente.

Porti: il Pireo cannibalizza l’Adriatico?
La sfida più importante che l’Italia deve affrontare riguarda però gli investimenti che la Cina sta facendo in diversi porti del Mediterraneo. Il più importante è sicuramente l’acquisizione del porto del Pireo da parte di Cosco, ma altri corposi investimenti sono in programma, ad esempio nel porto di Cherchell, in Algeria, che potrebbe competere con Gioia Tauro per le attività di trasbordo.

È tuttavia il porto greco che può cambiare gli equilibri competitivi dell’Europa meridionale. Da un lato, il rafforzamento del Pireo è un fattore positivo perché aumenta l’attrattività del Mediterraneo, ma, dall’altro, può togliere traffico ai nostri porti, in particolare a quelli adriatici. Prima dell’investimento cinese, il porto ateniese movimentava circa 500mila container l’anno, oggi divenuti 3,1 milioni e con prospettive di raddoppiamento in pochi anni.

Se a questo si aggiunge che, con fondi cinesi, si sta progettando una ferrovia per collegare il Pireo al centro Europa passando per i Balcani, appare chiaro come i porti italiani siano in una posizione di potenziale debolezza. Una condizione che non si ferma solo ai porti, ma colpisce anche le imprese che utilizzano queste infrastrutture e i relativi territori, che si trovano ad essere meno competitivi.

Necessaria una strategia nazionale 
La dimensione degli investimenti previsti e il numero dei Paesi coinvolti obbliga questi ultimi a sviluppare una strategia nazionale. Il localismo, in questo caso, non paga. Entrando nel capitale della Banca per gli investimenti cinesi, l’Italia si è assicurata di poter almeno sedere a uno dei tavoli strategici più importanti. Questo però non basta. I porti di Ravenna, Venezia e Trieste movimentano oggi meno della metà dei container del solo Pireo.

Per rispondere a una crescita di questo tipo è necessario che i porti del nord Adriatico attuino una strategia comune. Nessuno di essi, da solo, è in grado di attrarre sufficienti volumi di traffico e gli investimenti necessari per diventare una scelta alternativa al Pireo. Gli stessi cinesi potrebbero essere interessati ad avere una sorta di seconda opzione al Pireo. Ad esempio, se la costruzione della ferrovia che deve attraversare i Balcani incontrasse degli ostacoli - con i rapporti tra i paesi dell’area non esattamente pacificati -, la rotta adriatica potrebbe acquisire nuova centralità.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Giorgio Prodi, Università di Ferrara e T.wai
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