Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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martedì 28 giugno 2016

Orizzonti Cina.

VOL. 7, N. 2 | MARZO_APRILE 2016


bimestrale OrizzonteCina (ISSN 2280-8035). In questo numero articoli su:

• Un nuovo modello per le relazioni tra Stato e società in Cina
• “Emancipare la mente al servizio della modernizzazione socialista”
• La Legge sulle organizzazioni caritatevoli e la qualità dell’attività legislativa in Cina
• La Legge sulle organizzazioni caritatevoli: opportunità, ma solo per i lungimiranti
• Il bicchiere delle riforme ancora mezzo pieno — ma per quanto?
• Se in Italia gli alunni cinesi non sono i primi della classe
• L’effetto della migrazione sul Pil cinese
• Politica, società e cultura di una Cina in ascesa. L’amministrazione Xi Jinping al suo primo mandato –

 Recensione

giovedì 23 giugno 2016

Rapporti da approfondire

Relazioni Europa-Cina
Pechino, se l’Ue crede ancora nelle riforme
Nicola Casarini
15/06/2016
 più piccolopiù grande
Per l’Europa, il bicchiere delle riforme in Cina sembra ancora essere mezzo pieno. La legge sulle organizzazioni caritatevoli e la legge sull’amministrazione delle organizzazioni non governative (Ong) finanziate dall’estero - entrambe approvate di recente - sono un indubbio segno dei cambiamenti in atto nel paese.

Due riforme che gettano luce sui tentativi da parte della dirigenza cinese di fornire un quadro normativo alle molteplici istanze provenienti da una società civile che si è sviluppata alquanto negli ultimi decenni, sulla scia della formidabile crescita economica avvenuta nel paese del Dragone dall’inizio della politica di riforme e dell’apertura attuata da Deng Xiaoping a partire dalla fine degli anni Settanta.

L’evoluzione del rapporto tra Stato e società civile in Cina è uno degli elementi cruciali per valutare gli effettivi cambiamenti in corso. Questo è particolarmente importante per l’Occidente, che ha scommesso sui riformatori cinesi fin dalla fine della guerra fredda, una volta riprese le relazioni politiche deterioratesi in seguito alla repressione degli studenti di Piazza Tiananmen del giugno 1989.

Economia, libertà e democrazia
A partire dai primi anni Novanta, Europa, Stati Uniti e Giappone hanno riformulato il loro approccio verso la Cina, nella speranza che una maggiore interdipendenza dell’economia cinese con il resto del mondo portasse con sé lo sviluppo di una società civile che avrebbe domandato maggiore libertà politica e democrazia.

Questo fu messo nero su bianco in un importante rapporto della Commissione Trilaterale del 1994: in esso si auspicava una maggiore integrazione della Cina con le nazioni sviluppate dell’Occidente e il Giappone al fine di promuovere il cambiamento interno in senso liberal-democratico, cosa che avrebbe oltretutto avuto effetti benefici per l’ordine regionale ed internazionale.

Tra i membri della Trilaterale, furono gli europei - meno preoccupati di “contenere” la Cina rispetto a statunitensi e giapponesi - ad appoggiare in maniera piena i tentativi dei riformatori cinesi dell’epoca di cambiare il Paese: un approccio iniziato ufficialmente nel 1995 con la pubblicazione del primo documento Ue sulla Cina dove compare la definizione di "impegno costruttivo".

Questo significava, in sostanza, che le questioni delicate quali la democrazia e i diritti umani - seppur importanti per le opinioni pubbliche occidentali - non avrebbero comunque impedito lo sviluppo di relazioni a tutto campo con il gigante asiatico, in particolare in ambito economico-commerciale, con il duplice obiettivo di trarre vantaggio dal grande mercato cinese e promuovere, in tal modo, il cambiamento interno.

Un importante risultato in tal senso fu l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) nel 2001, un evento fortemente sostenuto dalle élite industriali e politiche europee dell’epoca, ma poi criticato negli ultimi anni, soprattutto da esponenti politici italiani tra cuil’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che nei suoi libri ha più volte identificato l’entrata della Cina nell’Omc come una delle cause principali degli attuali problemi dell’industria italiana.

Temi questi che sono riaffiorati negli ultimi mesi riguardo alla questione se l’Ue debba riconoscere alla Cina entro la fine del 2016 lo status di economia di mercato.

I timori di Roma 
L’Italia è fortemente contraria a tale riconoscimento e sostiene - a ragione - che la Cina non è ancora un’economia di mercato nel pieno senso della parola - e comunque non lo è sicuramente secondo i criteri stabiliti dalla Commissione europea.

Il resto dell’Europa, in particolare quella nordica e centro-orientale, non la pensa allo stesso modo, sostenendo - con varie sfumature - che in Cina, in ambito economico le forze del mercato e della società civile continuano a fare progressi (anche se non in maniera lineare e con frequenti marce indietro) e che sarebbe importante, pertanto, mandare un chiaro segnale di sostegno ai riformatori cinesi.

In ambito politico sta succedendo la stessa cosa. Se da una parte la legge sull’amministrazione delle Ong finanziate dall’estero ha ricevuto numerose critiche in Occidente, d’altro canto la legge sulle organizzazioni caritatevoli è stata accolta in maniera più favorevole, grazie anche al fatto che tale provvedimento fornisce finalmente un quadro normativo a un settore no profit che, nato e sviluppatosi durante gli ultimi quattro decenni, mancava di una chiara regolamentazione.

Organizzazioni caritatevoli e Ong
L’impressione che si ricava a Bruxelles è che i policy-makers europei vedano con favore la legge sulle organizzazioni caritatevoli - seppur con qualche distinguo -, mentre voci critiche si sono levate per sottolineare alcuni aspetti delle norme sull’amministrazione delle Ong finanziate dall’estero che potrebbero nuocere alle attività delle numerose organizzazioni e fondazioni europee operanti in Cina per promuovervi lo sviluppo di un’autonoma società civile, nonché democrazia e diritti umani.

Sia il dibattito in corso sulla questione dello status di economia di mercato sia quello relativo alle recenti disposizioni legislative riguardo le Ong finanziate dall’estero e le organizzazioni caritatevoli mostrano l’esistenza di varie posizioni in seno alla Ue, all’interno delle istituzioni europee di Bruxelles, ma anche all’interno e tra i 28 paesi membri.

Una situazione che non rende facile all’Unionel’assunzione di una chiara e netta posizione su queste tematiche, al contrario degli Stati Uniti che sembrano prediligere un approccio più tranchant verso la Cina e che hanno talvolta criticato l’Europa per la sua tendenza al compromesso.

La politica dell’“impegno costruttivo” - seppur declinata in maniera diversa a seconda del momento e della questione trattata - sembra comunque ancora dominare l’approccio di Bruxelles verso il gigante asiatico, come tra l’altro si evince dalla lettura dell’ultimo documento Ue sulla Cina - l’Agenda strategica Ue-Cina 2020.

C’è da chiedersi, però, per quanto tempo ancora questo approccio possa durare, essendo sotto attacco sia da molteplici partiti politici all’interno dell’Europa - come dimostra il dibattito sullo status di economia di mercato - che dai nostri tradizionali alleati e partner asiatici.

Per ora, l’Europa vede il bicchiere delle riforme ancora mezzo pieno. C’è da sperare che ulteriori cambiamenti in senso liberal-democratico all’interno della Cina possano permettere all’Ue di continuare in un tale approccio. Se ciò non avvenisse e le chiusure aumentassero, è probabile che il Vecchio continente segua Washington e Tokyosulla via di un “contenimento costruttivo”.

Nicola Casarini è coordinatore dell’area di ricerca Asia allo IAI.
 
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Italia, deus ex machina di un accordo Ue e Cina?, Nicola Casarini
Le relazioni militari tra Cina ed Europa: dinamiche attuali e prospettive, Nicola Casarini
Pechino: Nato, Ue e vicinato d'Italia,Giuseppe Cucchi

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sabato 4 giugno 2016

Turchia: lo sguardo verso l'Europa

Europa orientale
Balcani in salsa turca
Matteo Garnero
25/05/2016
 più piccolopiù grande
Un'alta personalità turca in Bosnia. Ufficialmente per fede, ma in realtà per un giro di affari fatto di soft power. Il 7 maggio, il dimissionario Primo Ministro turco Ahmet Davutoğlu ha presenziato all’inaugurazione della moschea di Ferhat Pasha a Banja Luka, la seconda città della Bosnia-Erzegovina. Un gesto che oltre a scrivere una pagina della storia dei Balcani, si inserisce nel più ampio obiettivo della politica estera di Ankara di consolidare la propria presenza nella parte occidentale di questa regione.

L’inaugurazione della moschea di Ferhat Pasha
La moschea di Ferhat Pasha, risalente al XVI secolo, era stata rasa al suolo nel 1993 dalle milizie serbo-bosniache, un destino condiviso con altre 15 moschee di Banja Luka distrutte fra il 1993 ed il 1995. E per tenere a memoria quanto accaduto in questi anni alle comunità islamiche in Bosnia, il 7 maggio, viene celebrato il Giorno delle Moschee.

I lavori di ricostruzione della moschea, allora parte del patrimonio Unesco, erano stati inaugurati proprio il 7 maggio del 2001, data segnata da violente contestazioni ad opera di nazionalisti serbi, causando un morto.

Il costo complessivo dei lavori è stato di 5 milioni di dollari, di cui oltre 1 è stato fornito dalla Tika, l’agenzia di cooperazione turca. Consultando i canali ufficiali dell’agenzia si nota l’evidente impegno della cooperazione turca nei Balcani occidentali che non è concentrato solo nei Paesi in cui Ankara detiene i principali interessi economici (Serbia, Macedonia e Bosnia).

I progetti finanziati dalla Tika riflettono una strategia multidimensionale che comprende forme di sostegno alla popolazione in situazioni di emergenza come in caso di alluvioni, programmi educativi nel settore agro-alimentare e il rafforzamento dei legami culturali fra la Turchia ed i Balcani che passa attraverso la costruzione o il rinnovamento di biblioteche, monumenti e, per l’appunto, moschee.

Il ritorno della Turchia nei Balcani
Il ritorno nei Balcani della Turchia si è proprio registrato nel corso degli anni Novanta, durante i quali il processo di disgregazione della Jugoslavia ha alimentato processi di frammentazione e drammatiche guerre civili in un’area prossima ai confini turchi.

Nel corposo volume di geopolitica “Profondità strategica” pubblicato nel 2001 quand’era direttore del dipartimento di Relazioni internazionali dell’Università Beykent di Istanbul, Ahmet Davutoğlu aveva individuato nei Balcani uno dei “bacini geo-culturali di prossimità” della Turchia, status determinato non solo dall’ovvio legame geografico di connessione fra l’Anatolia e l’Europa centrale, bensì anche dall’eredità storica rappresentata dall’Impero Ottomano nella regione.

Commentando nel merito della presenza turca nei Balcani, il sito del Ministero degli Affari Esteri turco definisce la Turchia “un Paese balcanico”, in continuità con la visione di Davutoğlu, aggiungendo che “le relazioni bilaterali con questi Paesi sono basate sui principi di indipendenza, sovranità e integrità territoriale, non interferenza negli affari interni e ulteriormente sanciti dei legami storici che ci legano, nonché alla luce del principio di buon vicinato”.

Soft power turco
Durante l’era del partito di Giustizia e Sviluppo, Akp (Adalet ve Kalkınma Partisi), l’azione esterna della Turchia ha adoperato sempre più strumenti di soft power, attraverso il finanziamento di progetti per il tramite dell’agenzia Tika ed il consolidamento delle relazioni commerciali con i Paesi della regione.

Consultando i dati riportati dall’istituto statistico turco Tuik, è possibile rilevare come, nel periodo 2012-2015, si sia registrato un notevole incremento degli scambi con quasi tutti i Balcani occidentali: Montenegro (+31%), Serbia (+29%), Macedonia (+19%), Bosnia-Erzegovina (+16%), Albania (+12%) e Kosovo (-6%). Il dato relativo a Pristina, tuttavia, riporta una diminuzione degli scambi rispetto al 2012 solo nel corso del 2015.

Un fenomeno interessante di queste relazioni è rappresentato dal successo delle soap turche, particolarmente seguite in Bosnia, Macedonia, Kosovo e Serbia. Negli ultimi anni, il settore in questione ha registrato una crescita significativa, rendendo la Turchia il secondo Paese esportatore al mondo, dopo gli Stati Uniti, di serie tv.

Il successo nei Balcani, in particolare, è determinato non solo dalla facile accessibilità che l’intreccio delle soap offre, bensì anche da riferimenti culturali simili, quale la rappresentazione che viene fatta della famiglia o i richiami al passato ottomano, come viene fatto in Muhteşem Yüzyıl incentrato sulla vita di Solimano I il Magnifico.

L’importanza economica della Turchia registra quindi un trend positivo ed è diventato un mezzo efficace per migliorare le relazioni bilaterali con i Paesi della regione e per offrire un’immagine positiva alla popolazione.

Oltre il neo-ottomanesimo
Nonostante le accuse di “neo-ottomanesimo” mosse dai nazionalisti della regione e alcuni esponenti dell’accademia, la politica estera di Ankara nei confronti dei Balcani è stata, in larga parte, a sostegno del processo di adesione all’Ue, nonché nel quadro Nato.

La Turchia è stata infatti fra i membri fondatori del South-East European Cooperation Process, il quale si pone l’obiettivo di facilitare l’integrazione con le piattaforme comunitarie e del patto atlantico. Ankara ha avviato inoltre delle iniziative politiche di natura più indipendente, quali gli incontri trilaterali con Bosnia e Serbia, i quali hanno facilitato il dialogo fra i due Paesi, pur sempre i linea con le aspirazioni dell’Ue.

Ciò non toglie che sia possibile rilevare numerosi elementi culturali di riferimento alle minoranze turche nei Balcani, all’eredità ottomana e alla religione islamica. Proprio durante il discorso in occasione della cerimonia di inaugurazione della moschea, infatti, Davutoğlu ha ricordato i legami culturali che accomunano i due Paesi, esprimendo un forte senso di solidarietà e di supporto. Ha inoltre sottolineato l’importanza dell’unità territoriale della Bosnia, nonché la necessità di coesistenza pacifica fra le diverse fedi.

In quest’ottica, dunque, l’attivismo turco della regione non rappresenta una novità e i commenti di un “ritorno” di Ankara nei Balcani sembrano ignorare la continuità, al contrario, dell’ovvio interesse e coinvolgimento della Turchia nell’immediato vicinato.

È pur vero che questa stessa presenza ha modificato i propri strumenti e approcci, ma ciò va interpretato piuttosto alla luce di una serie di fattori di natura sistemica, più che di un strutturale ripensamento della politica estera turca. Con la fine della Guerra Fredda, la disgregazione della Jugoslavia e il processo di integrazione europeo, la Turchia ha semplicemente preso atto dei nuovi elementi che hanno dato forma al quadro regionale.

Matteo Garnero è stagista dell’area Europa dello IAI.
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