Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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lunedì 18 aprile 2016

Un conflitto latente tra Armenia e Azerbaijan

Caucaso
Nagorno-Karabakh, la guerra dei quattro giorni
Marilisa Lorusso
13/04/2016
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Qualcuno la definisce già la guerra dei quattro giorni: dal 2 aprile fino a una concordata de-escalation del 5 si è combattuto in Nagorno-Karabakh.

È il primo conflitto armato di medie proporzioni che porta al culmine un crescendo di tensioni, iniziato nell’estate 2011. Allora come oggi era in vigore il cessate il fuoco deciso nel 1994, che aveva portato se non a una stabilizzazione della situazione di sicurezza almeno a una pausa negli scontri.

La tregua, firmata dai rappresentati delle repubbliche di Armenia e di Azerbaijan e dal comandante in capo dell’esercito secessionista del Nagorno-Karabakh congelava un conflitto iniziato nel 1988 e ulteriormente esacerbatosi dopo la fine dell’Urss, per il controllo del territorio, abitato prevalentemente da armeni ma de jure facente parte dell’Azerbaijan.

Il Karabakh e sette regioni circostanti (la così detta cintura di sicurezza) rimaneva in mano armena, ma come repubblica indipendente non riconosciuta. Sul terreno i due eserciti - quello del Karabakh e quello azero - occupavano postazioni e trincee immutate per due decenni.

Gli scontri di inizio aprile
Dal 2011, ogni estate si sono registrate “offensive”, con l’intensificarsi degli scambi di fuoco. Ma non episodi sporadici: la febbre del Karabakh ha continuato a salire, e le violazioni del cessate il fuoco si sono fatte sempre più frequenti e distribuite nel tempo. A inizio del 2016 erano ormai quotidiane. Nessuna aveva però implicato una alterazione dello status quo sul campo di battaglia e, tutte, con rare eccezioni, si limitavano all’uso di armi leggere.

La svolta, nella natura del conflitto di bassa intensità che era in corso, avviene fra la tarda notte del 1° aprile e le prime ore del 2: lo scambio di fuoco si fa intenso lungo la così definita “linea di contatto” fra Azerbaijan e Karabakh.

Alle 8.30 muore il primo civile, il dodicenne Vaghinak Grigoryan, vittima di un MM 21 (Grad) che colpisce la sua scuola presso Martuni, a circa 40 km a Est della capitale del Karabakh Stepanakert (in azero, Khankendi). Mentre le parti si accusano reciprocamente di avere causato l’inasprimento degli scontri, si continua a combattere tutto il giorno, e per altri tre giorni, con vari gradi di intensità, di giorno e di notte.

L’Azerbaijan porta avanti un’offensiva che pare finalizzata a occupare le alture nel nord della linea di contatto, fra cui la collina Lala Tepe, di rilevanza strategica. Alla fine dell’offensiva, questo scopo militare pare raggiunto, ma non vi sono conferme da parte di Stepanakert.

Il fronte del conflitto è comunque stato esteso all’intero confine karabakho-azero. Il nord-est dovrebbe essere l’unica area in cui si è proceduto ad evacuare i paesi e paesini esposti agli scontri. A sud, invece, c’è stato uno sconfinamento del conflitto in territorio iraniano: tre colpi di mortaio sono caduti a Khoda-Afarin, nel nord-est, senza tuttavia causare vittime.

Il bilancio dei caduti è provvisorio e non verificabile. Le uniche fonti sono quelle ufficiali e i numeri che si attribuiscono reciprocamente hanno variazioni di grandezza notevoli. Le parti hanno riconosciuto che almeno 81 persone sono state uccise tra il 2 e il 5 aprile: 33 soldati armeno-karabakhi, 31 soldati azeri, 4 civili armeno-karabakhi, 6 civili azeri e 7 volontari armeni, colpiti da un drone sul bus che li portava alle zone di conflitto; 25 soldati armeno-karabakhi vengono ancora indicati come dispersi in battaglia.

Le posizioni di Azerbaijan e Armenia
Il conflitto si è ufficialmente combattuto fra un esercito di un paese non riconosciuto e il paese di cui de jure fa parte. Baku, però, non considera la guerra del Karabakh un conflitto secessionista, ma un atto di aggressione e poi occupazione della vicina Armenia a danni della propria integrità territoriale. E il ritorno al regime di cessate il fuoco è stato concordato fra il capo di stato maggiore dell’Azerbaijan e il capo di stato maggiore dell’Armenia.

Per Yerevan, ufficialmente non coinvolta direttamente nelle operazioni militari, questa è stata un’aggressione verso un paese sovrano e indipendente, anche se non riconosciuto, e con il quale ha rapporti preferenziali.

È da sottolineare che gli scontri del 2-5 aprile non hanno riguardato il confine armeno-azero, chiuso dalla guerra degli anni ’90 e in passato interessato da scambi di fuoco. Questo fa ipotizzare che si ci sia stato una sorta di tacito accordo - o una coincidenza di obiettivi strategici - a non far impennare il conflitto verso una guerra aperta fra due Stati riconosciuti internazionalmente, Armenia e Azerbaijan.

In questa tattica di delicatissimo equilibrio, entrambi i Paesi hanno rispettato le regole: l’Azerbaijan non ha esteso l’attacco, l’Armenia ha sistematicamente sottolineato nelle dichiarazioni ufficiali di non essere coinvolta direttamente nelle operazioni militari, semmai minacciando di prendervi parte o di ricorrere a forme di pressione diplomatica come il riconoscimento del Karabakh.

Mosca e Ankara, i risvolti militari
È questo forse l’unico dato incoraggiante, in un quadro molto poco chiaro che può anche fare ipotizzare uno sviluppo non controllabile. E se da una parte c’è uno status quo sempre più insostenibile, dall’altra ci sono soluzioni amministrative e politiche molto difficilmente negoziabili e ancora più remotamente implementabili per la totale distanza delle posizioni delle parti coinvolte. Ed è un quadro che ha anche importanti implicazioni militari.

Un aperto conflitto armeno-azero attiverebbe un processo a catena che rischierebbe di trascinare in guerra su posizioni opposte Russia e Turchia, legate dalle rispettive alleanze militari. L’Armenia è infatti membro dell’organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva, l’alleanza militare che raccoglie anche Russia, Kazakhstan, Tagikistan, Kirghizstan e Bielorussia.

L’Azerbaijan ha invece ratificato un accordo di partenariato strategico e mutuo supporto con la Turchia, entrato in vigore nel 2011 e che obbligherebbe Ankara a intervenire a difesa dell’alleato in caso di aggressione da parte di uno stato terzo.

Solo lo sviluppo sui campi di battaglia e dietro le porte sigillate delle diplomazie potrà confermare se questo rischio sarà scongiurato.

Marilisa Lorusso è Dottoressa in Democrazia e Diritti Umani, Cultrice di Storia dell'Europa Orientale, Facoltà di Scienze e Politiche, Università di Genova (marilisalorusso.blogspot.it).
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martedì 12 aprile 2016

Mongolia: a luglio sotto i riflettori

Asia
Mongolia verso Asem, occhio a Mosca e Pechino
Nello del Gatto
07/04/2016
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Dalla piazza principale di Ulaanbaatar, Gengis Khan (o come lo chiamano qui Cinghis) continua a guardare dall’alto del suo trono la sua Mongolia. Ma quello che, da lui creato, è stato nei secoli uno dei più grandi imperi e che qualche anno fa ha fatto registrare uno dei tassi di crescita più importanti a due cifre, sta attraversando un periodaccio.

Il vertice Asia-Ue
I conti vacillano, la situazione politica è instabile, molti settori trainanti dell’economia mongola sono alla canna del gas, tanti cittadini scontenti. Pochi giorni fa centinaia di minatori hanno manifestato a Ulaanbaatar contro il contratto di 5,4 miliardi di dollari che il governo ha sottoscritto con la Rio Tinto per l’estrazione mineraria nella zona di Oyu Tolgoi, la più importante del Paese, parlando di svalutazione dei beni dello Stato.

E, nonostante tutto questo, a luglio la Mongolia sarà al centro del mondo politico internazionale quando, il 15 e il 16, ospiterà il vertice Asem, che raduna i capi di Stato e di governo dell’Unione europea e quelli asiatici riuniti nell’Asean, più invitati illustri come cinesi e russi. Dopotutto, proprio questi due sono i convitati di pietra della Mongolia, che nella sua storia ha sempre dovuto fare i conti sia con Pechino sia con Mosca.

Gli ingombranti vicini
Sono stati proprio i russi prima ad “aiutare” i mongoli invasi dai cinesi (che si erano vendicati di centinaia di anni di battaglie perse occupando nel 1919 la Mongolia) e poi a instaurare un regime sovietico nel paese, crollato dopo la perestrojka.

E verso Pechino (nel cui territorio - esattamente nella provincia autonoma della Mongolia interna - vivono più mongoli che nella stessa repubblica di Mongolia) si muove la quasi totalità (il 95,3% secondo i dati del 2014) delle esportazioni mongole, legate soprattutto alle miniere. Il sottosuolo mongolo è, infatti, ricchissimo di rame, oro, carbone, molibdeno, fluorite, uranio, stagno e tungsteno.

Da Pechino arriva più di un terzo del volume totale delle importazioni mongole: i dati del 2014 dicono che dalla Cina arriva il 41.5% delle importazioni totali, dalla Russia il 27.4%, Corea del Sud 6.5%, Giappone 6.1%.

Economia in affanno e ruolo italiano
L’economia mongola soffre: se nel 2013 la crescita era stata dell’11,3% e l’anno successivo del 7,8%, le stime del 2015 parlano del 3,5% (altre invece sono ancora più basse, del 2,3%). A pesare, il crollo dei prezzi dei minerali estratti, che ha dato uno scossone anche al fiorente settore immobiliare e delle costruzioni. Sono molti i palazzi e i grattacieli di Ulaanbaatar che attendono di essere completati o che sono vuoti e le imprese, anche straniere, che non sono state pagate per lavori effettuati.

Il tutto, in un Paese che ha una popolazione giovanile molto numerosa (il 43% dei mongoli ha meno di 25 anni, il 45% tra i 25 e i 54), un tasso di disoccupazione del 7,7% (2014, in aumento secondo stime all’8,3) e un reddito medio di 12.500 dollari.

Secondo i dati dell’ufficio Ice di Pechino (che ha giurisdizione anche sulla Mongolia), l’Italia è al quinto posto tra i paesi destinatari dell’export della Mongolia, con una quota di mercato dell’1,3%; come fornitore (provenienza dell’import) si attesta invece al 12° posto, con una fetta di mercato pari allo 0,6% (maggio 2015).

Nel primo semestre 2015, le esportazioni italiane in Mongolia hanno registrato un calo del 15% rispetto al primo semestre 2014, attestandosi a 11,6 milioni di euro, costituendo comunque il decimo fornitore per il paese (tra le voci principali: meccanica, moda, arredo e alimentare).

La meccanica strumentale rappresenta la voce principale dell’export italiano nel paese, seguita dalla moda e dai prodotti della metallurgia. Le importazioni, pari a 25 milioni di euro, sono aumentate del 25%, e in gran parte sono costituite da prodotti agricoli.

La quota di mercato dell’export italiano è dello 0,9%, terza dopo Germania (3%) e Francia (1%). I settori di punta sono il minerario e il tessile; questi ultimi in dettaglio: 4,2 milioni di dollari per le esportazioni di metalli (2015), 7,4 milioni di dollari per le esportazioni nel settore tessile e dell’abbigliamento. Gli investimenti diretti italiani in Mongolia si attestano al 2013 a 10 milioni di euro.

Gli italiani in Mongolia sono davvero pochi: attualmente - compresi missionari e missionarie - sono poco più di una trentina, principalmente impegnati nei macchinari e nella moda (cachemire soprattutto). Ma il Paese, nonostante la crisi che sta attraversando, rappresenta comunque una grande opportunità per le nostre aziende.

Basti pensare che a fronte di quasi 3 milioni di abitanti in totale (due terzi dei quali vivono a Ulaanbaatar, in un Paese che è cinque volte l’Italia, il diciannovesimo al mondo), vivono oltre 40 milioni di animali e non c’è una industria capace di poterne processare le carni e le pelli e manca la catena del freddo.

Bisogna poi considerare l’importanza strategica del Paese non solo da un punto di vista industriale-minerario (che solo di striscio interessa l’Italia, mentre australiani e cinesi la fanno da padroni).

Un interlocutore per trattare con Pyongyang
Schiacciata tra due potenze, ma forte della sua neutralità, la Mongolia negli ultimi anni si è accreditata come interlocutore affidabile in una serie di situazioni. Prima fra tutte la Corea del Nord. Ad Ulaanbaatar c’è una forte presenza nordcoreana (è anche ospitata una rappresentanza diplomatica di Pyongyang) e nel regno di Kim Jong-un la rappresentanza diplomatica mongola è spesso la base per negoziati più o meno ufficiali tra il regime e il mondo.

L’Asem servirà proprio a questo, a dimostrare al mondo che la Mongolia può ritagliarsi un ruolo nello scacchiere internazionale, nonostante la sua attuale instabilità politica (le elezioni si terranno poco prima del vertice internazionale).

E l’Italia giustamente non vuole stare a guardare. Non a caso a dicembre il ministro Paolo Gentiloni ha annunciato l’apertura di una nostra ambasciata nel paese (attualmente c’è solo un console onorario e tutto dipende dall’ambasciata a Pechino), mentre a Roma è già presente una rappresentanza diplomatica mongola così come funziona una Camera di Commercio italo-mongola.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo (Twitter: @nellocats).
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