Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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mercoledì 14 gennaio 2015

Cina: morire avvelenati

Cina
La lunga ombra dell’inquinamento sul cielo di Pechino
Giulia Clara Romano
30/12/2014
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Dall’inizio dell’inverno 2011, l’inquinamento atmosferico di Pechino è diventato oggetto di attenzione internazionale, dopo che l’ambasciata americana ha reso noti dati sull’inquinamento della città ben più preoccupanti dei numeri ufficiali pubblicati dall’Agenzia di protezione ambientale di Pechino.

La differenza tra i due sistemi di misurazione risiedeva nella formula per il calcolo della concentrazione di polveri fini (PM2,5). La versione cinese, benché utilizzasse la stessa funzione per determinare il livello d’inquinamento dell’aria (basata su di un calcolo delle concentrazioni di diverse sostanze inquinanti), prendeva in considerazione un range diverso nella valutazione della concentrazione di PM2,5.

In altri termini le densità di concentrazione di queste micro-particelle dannose per la salute umana erano edulcorate. La giustificazione addotta è che la Cina si trova a un livello d’industrializzazione meno avanzato degli Stati Uniti.

Il governo municipale si è trovato a dover rispondere alle richieste di maggior trasparenza, iniziando quindi a diffondere dati più corretti. L’Air Quality Index (Aqi) è così diventato di dominio pubblico, anche attraverso le applicazioni per smartphone e i monitor dei vagoni delle metropolitane.

Tuttavia, la maggiore trasparenza non è stata accompagnata da un miglioramento della qualità dell’aria. Al contrario, i nuovi numeri mostrano un progressivo peggioramento dell’inquinamento di Pechino, che ha raggiunto, a gennaio 2013, l’inquietante concentrazione di PM2,5 di 886 microgrammi per metro cubo, circa 35 volte superiore al livello ritenuto pericoloso per la salute umana dall’Organizzazione mondiale della sanità.

In quei giorni, con un misto di macabro umorismo, la stampa cinese aveva soprannominato il fenomeno “air-pocalypse” (kongqi mori, 空气末日). Non si tratta di un’esagerazione: per tutto il mese di gennaio 2013, l’Aqi mostrava livelli superiori a 700 (tenendo conto che il grado massimo della scala è 500), spingendo molti residenti a evitare di lasciare le proprie abitazioni.

Le maggiori responsabili dell’inquinamento di Pechino (ma anche della più ampia area Tianjin-Hebei-Shandong, del Jiangsu, di Shanghai, del Nord-est e delle province dello Shaanxi e Shanxi) sono le centrali a carbone, che rispondono a una domanda energetica in costante crescita, spinta dai bisogni dell’industria e dall’urbanizzazione galoppante.

Il governo cinese a questo proposito ha deciso di investire in questi cinque anni 275 miliardi di dollari per “ripulire l’aria”, attraverso misure di riduzione dell’inquinamento che passano obbligatoriamente dalla chiusura di stabilimenti industriali particolarmente inquinanti, ma anche attraverso la scelta di fonti energetiche più pulite, soprattutto il gas naturale.

Altre misure per contenere l’inquinamento atmosferico sono la limitazione del traffico e dell’acquisto di automobili. Tuttavia, l’automobile è diventata ormai un vero status symbol del successo economico, la cui diffusione presso le famiglie cinesi più abbienti appare difficilmente controllabile.

La Cina si propone di portare il consumo di gas all’8,3% entro il 2015 (il peso del gas nel mix energetico della Repubblica popolare cinese rimane per ora intorno al 4%), ma il gap tra la domanda e la produzione di questa risorsa mette la Cina di fronte alla prospettiva di dover aumentare la propria dipendenza per l’approvvigionamento da paesi come Turkmenistan, Qatar e Russia (ma non solo).

Per un paese che già importa il 60% del petrolio consumato, la scelta deve essere ben ponderata. Per quanto riguarda le rinnovabili, un sistema di produzione e distribuzione energetica ancora troppo a favore dei produttori di carbone (sostenuto in particolar modo dalle politiche delle province carbonifere, in contraddizione con le richieste di Pechino), fa sì che l’energia prodotta da queste fonti non sia ancora competitiva, nonostante l’adozione di strumenti come le tariffe incentivanti (feed-in tariff) e la maggiore importanza segnalata dai documenti di pianificazione economica.

Certamente il livello d’industrializzazione meno avanzato della Cina fa sì che la protezione ambientale rimanga un obiettivo secondario rispetto al bisogno immediato di garantire crescita economica e posti di lavoro.

D’altra parte, mentre prosegue il dibattito sul “sogno cinese” lanciato dall’attuale dirigenza nazionale e crescono le disponibilità economiche delle famiglie cinesi, è auspicabile che alla dimensione dello sviluppo si accompagni sempre più quella della sostenibilità umana e ambientale.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Giulia C. Romano è project manager, Programme energie et environnement, Asia Centre; dottoranda in Scienze politiche Sciences Po, Parigi.
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CIna: la corsa verso il primato

Asia
Il risiko commerciale tra Cina e Usa 
Nello del Gatto
19/12/2014
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La corsa tra Cina e Usa per diventare prima potenza del mondo passa anche attraverso corridoi commerciali e accordi di libero scambio. Più che una relazione “win-win”, il rapporto “odio-amore” fra le due superpotenze richiama quella di due amanti che, soprattutto dal punto di vista economico, si prendono e si lasciano.

Gli avvicinamenti e gli allontanamenti che Cina e Usa hanno avuto negli scorsi mesi soprattutto sulla questione delle zone di libero scambio che si affacciano sul Pacifico mostrano da un lato l’interdipendenza mai realmente dichiarata, ma reale, delle due superpotenze, dall’altro la necessità di mostrare i muscoli per mantenere o conquistare le posizioni dominanti in un’area, come quella sud est asiatica e pacifica, strategica per una serie infinite di ragioni.

L’intenzione è soprattutto quella di sminuire la presenza preponderante dell’altro nella zona e nel mondo. Così tra i due grandi paesi si “gioca” da un lato a conquistare spazi e dall’altro a contenere quelli del “rivale”, su una scacchiera che vede spettatori numerosi altri paesi che devono scegliere se stare con i bianchi o con i neri.

Tpp Vs Ftaap
Il terreno ultimo di questo scontro diplomatico-commerciale - che si trascina da tempo, ma che ha avuto un picco allo scorso vertice Apec di novembre a Pechino - è la decisione dei due paesi di perseguire due distinte zone di libero scambio nelle medesime aree, giocando sulle rispettive alleanze e influenze sui paesi interessati.

Gli Stati Uniti da tempo lavorano al Partenariato trans-pacifico (Trans-Pacific Partnership, Tpp) che dovrebbe inglobare 12 paesi sulle due sponde dell’oceano Pacifico (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore, Usa e Vietnam), escludendo la Cina.

Pechino, dal canto suo, lavora alla realizzazione della Ftaap (Free trade area of the Asia-Pacific), l'accordo di libero scambio per integrare le 21 economie dell'Asia-Pacific cooperation (Apec).

Tra questi paesi, ci sono anche gli Usa che nel 2009 (quattro anni dopo l’inizio dei colloqui) entrarono nella Tpp con l’idea di contenere la Cina.

L'area coperta dalla Ftaap (esclusi gli Stati Uniti) ospita il 35% della popolazione mondiale e genera il 34% del Pil; in caso di successo, la Tpp ingloberebbe quasi la metà delle ricchezze prodotte nel mondo, il 35% del commercio internazionale e il 30% della popolazione.

Allo scorso vertice Apec si è deciso di studiare il piano, che intende superare lo stallo dei negoziati di Doha del Wto, fino al 2016.

Blocco usa contro la Cina
Il presidente cinese Xi Jinping ha aperto le porte agli Usa, sia in termini di possibili collaborazioni con la Tpp, sia di non interferenza con la proposta americana. Gli Usa però continuano a fare blocco contro i cinesi.

Dal punto di vista politico, Washington intende continuare a tenere un rapporto stretto con quei paesi da sempre suoi vicini. Gli Usa hanno anche sfruttato, nel tempo, le acredini che Pechino ha avuto con Giappone, Filippine, Vietnam per continuare a sostenere questi paesi, facendo sentire sempre più forte la sua presenza.

Dal punto di vista economico, i dati commerciali danno ragione a Washington sulla decisione di perseguire la Tpp contro la Ftaap.

Secondo le stime Peterson Institute of International Economics citati dal Wall Street Journal, la Ftaap rappresenterebbe una soluzione "win-win" per gli Stati Uniti e la Cina, anche se la Cina riuscirebbe a “mettere un piede” dinanzi agli Usa, perdendo di meno.

Per l’istituto economico, infatti, entro il 2025, la Ftaap aiuterebbe gli Stati Uniti a guadagnare circa 626 miliardi di dollari in esportazioni, mentre la Cina guadagnerebbe almeno 1.600 miliardi di dollari.

Se invece entrasse in vigore la Tpp così come è, senza la Cina, gli Stati Uniti guadagnerebbero molto meno nelle esportazioni (circa 191 miliardi dollari), ma Pechino perderebbe circa 100 miliardi di dollari di esportazioni dal momento che le nazioni facenti parte della Tpp potrebbero spostare la loro attenzione commerciale esclusivamente alle altre economie degli stati membri della zona di libero scambio.

Il pivot asiatico di Obama
La questione è aperta, anche perché se da un lato per il presidente Usa questa è la strategia economica del “pivot asiatico”, dall’altro è stata Pechino a giocare in contropiede, dichiarandosi interessata alla Tpp.

È stato il viceministro delle finanze cinesi, Zhu Guangyao che, parlando ad ottobre al Peterson, ha dichiarato l’intenzione del presidente Xi, nell’ambito della ondata di aperture economiche e commerciali, di aderire all’area proposta dagli Usa. Questo ha scombussolato i piani di Washington, dove l’annuncio ha avuto un effetto esplosivo, dividendo tra favorevoli e contrari economisti e politici.

Le aperture benevole di Xi Jinping alla Tpp sono state in qualche modo contraddette dalla stampa di Pechino. In un editoriale del Global Times, apparso anche sul sito del Quotidiano del Popolo (organo del partito comunista cinese), si bolla la proposta Usa come un tentativo di contenere la Cina attraverso l’asse Usa-Giappone.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo.
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venerdì 9 gennaio 2015

Giappone: l'esame dell'elettorato per il Governo

Asia
Elezioni in Giappone, un test ad Abenomics
Mark W. Valentiner
12/12/2014
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Abenomics a scrutinio degli elettori. Il primo ministro giapponese Shinzo Abe si appresta infatti ad affrontare il prossimo 14 dicembre le elezioni per il rinnovo anticipato della Camera bassa.

Le votazioni avvengono in un momento particolarmente difficile per l’economia del Sol Levante che sta vivendo una profonda crisi, in particolare dall’introduzione, lo scorso aprile, di un aumento dell’Iva dal 5 all’8% (si prevede un secondo aumento dall’8 al 10% per l’ottobre 2015).

La ricetta che fa declassare il Sol Levante
Questa manovra avrebbe dovuto arginare il debito pubblico del paese, il più alto a livello globale. Questo ha influenzato negativamente la capacità di spesa dei consumatori, trascinando l’economia nipponica in una curva discendente.

Gli ultimi dati non fanno che confermare tale trend: dopo il declassamento del paese da parte di Moody’s al rating di A1, l’8 dicembre il Pil del terzo trimestre è stato rivisto, al ribasso (-1,9%,).

Tale proiezione mostra quanto sia lontano un possibile recupero per l’economia, mettendo a nudo la fragilità dell’Abenomics, il cui punto di massima debolezza è l’incontro tra uno yen sempre più debole e i salari che non riescono a sostenere inflazione e l’aumento della pressione fiscale.

Solamente due anni fa, nelle elezioni del 2012, il programma del futuro premier prometteva il grande rilancio del paese, attraverso l’applicazione di tre misure fondamentali: un radicale allentamento monetario, maggiore spesa pubblica e riforme coraggiose.

Nelle intenzioni di Abe questa doveva essere la ricetta per risolvere per sempre il malessere economico del Giappone che, invece, si ritrova oggi in una recessione senza precedenti.

Abe chiama alle urne
Perché, quindi, il primo ministro ha deciso proprio ora per la chiamata alle urne? Anche se il suo governo ha una maggioranza rilevante, Abe sembra voler attuare una mossa strategica che ha come fine il consolidamento del suo potere, prima che la sua popolarità possa diminuire irrimediabilmente.

Il primo ministro spera che una vittoria possa conferirgli il mandato necessario per portare a compimento gli Abenomics.

C'è anche un altro motivo dietro la richiesta di nuove elezioni: Abe avrebbe la possibilità di affrontare in maniera diretta i propri avversari, non solo la debole opposizione del Partito Democratico del Giappone, ma, soprattutto i suoi veri oppositori: l’ala tradizionalista del suo partito.

Vari economisti liberaldemocratici spingono per l’attuazione dell’aumento delle tasse come da programma, per rimettere sotto controllo il galoppante debito nazionale. Temono infatti una crisi di fiducia dei mercati che impedirebbe al Giappone di vendere in futuro le proprie obbligazioni.

Abe invece è convinto che l’unica possibilità sia quella di stimolare l’economia, rinviando il secondo aumento delle tasse, in programma per il prossimo ottobre.

Rendendo l'aumento delle imposte l’argomento protagonista delle elezioni, il premier sta stringendo una morsa attorno ai propri oppositori interni che si trovano così davanti a un perentorio aut-aut: confermare la sua leadership oppure rischiare di dover affrontare non solo la crisi del paese, ma anche quella del partito.

Nonostante la partita sembri per il premier più dura del previsto, il leader liberaldemocratico può contare ancora su sondaggi favorevoli, sostenuti dallo slogan “non c’è alternativa all’Abenomics” e su un sostanziale appoggio da parte dei mercati finanziari.

Trans-Pacific Partnership
Se dovesse vincere le elezioni in modo definitivo e chiaro, per i prossimi quattro anni non dovranno più essere indette elezioni votazioni. Si aprirebbe la strada a un vero governo riformista.

Nel breve periodo, la speranza è riposta in un rilancio della competitività commerciale attraverso la Trans-Pacific Partnership (Tpp) per la quale Abe è determinato a spingere per un rapido accordo sui negoziati con gli Usa.

Ma le trattative devono confrontarsi con il veto imposto da particolari gruppi di pressione, in primis il settore agricolo che spesso impone il blocco dei colloqui commerciali.

La chiamata alle urne sembra quindi un’opportunità per utilizzare il sostegno pubblico come arma per silenziare ogni opposizione. La maggioranza della popolazione ritiene - come Abe - importanti le riforme strutturali. In pochi però sembrano disposti a mettersi in fila davanti ai seggi.

Solo un rinnovamento profondo del Giappone potrà, citando lo stesso Shinzo Abe, far diventare il paese “ancora una volta il centro del mondo e brillare".

Mark W. Valentiner è stagista di ricerca all'Istituto Affari Internazionali.
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