Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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venerdì 17 luglio 2015

Corea del Nord: sempre sul filo del rasoio

Regime e popolo
Corea del Nord, una nuova carestia
Francesco Celentano
04/07/2015
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In questi giorni, i media internazionali hanno rivelato che la Corea del Nord sta patendo una nuova grave carestia, dovuta principalmente a un’improvvisa siccità, che si prevede possa determinare nefaste conseguenze in termini di vite umane e danni economici, considerato che la struttura statale non appare pronta, almeno senza sovvenzioni internazionali, a fronteggiare una crisi di tale portata.

Il Paese asiatico, com’è noto, è guidato da ormai più di mezzo secolo da un’unica famiglia, i Kim, i cui componenti si tramandano il potere in maniera dinastica e non democratica.

La popolazione, che ammonta a circa 24 milioni di abitanti, patisce le conseguenze d’una gestione propagandisticamente anti-imperialista basata sul culto della personalità del Kim di turno al comando.

Elemento principale e ispiratore della politica del Paese è l’ideologia Juche ispirata al comunismo, ma con una forte componente nazionalista, fondata sul concetto, elaborato da Kim Il Sung, fondatore della Repubblica, di autosufficienza.

Un forte apparato militare e la massimizzazione delle risorse interne, inclusa la forza lavoro dei cittadini, sono i due unici presupposti per costruire una Nazione forte e competitiva, almeno a detta di colui che è stato proclamato, dopo la morte, Presidente eterno.

La peggiore siccità degli ultimi 100 anni
L’Agenzia ufficiale Kcna ha, stranamente, riconosciuto che la situazione agricola del Paese s’è deteriorata drasticamente nel corso dell’ultimo anno. L’allarme riguarda la disponibilità di acqua nei bacini che, a detta di alcuni funzionari ministeriali, “è ai livelli più bassi della storia così come fiumi e torrenti sono letteralmente a secco”. Di conseguenza, oltre il 30% delle risaie, che costituiscono la principale fonte di approvvigionamento del Paese, risultano prosciugate.

Il World Food Programme, Agenzia dell’Onu operante nel settore alimentare, ha già reso noto che, qualora la situazione risultasse irreparabile, gli aiuti internazionali arriveranno, così come successo tra il 1990 e il 1994, quando il Paese ebbe in dono oltre quattro miliardi di dollari d’aiuti in cambio di una maggior collaborazione in tema di non proliferazione nucleare (maggiore collaborazione poi cessata una volta superata la crisi alimentare).

Con gli eventuali aiuti del Wfp si riaprirebbe un rapporto, umanitario, tra la comunità internazionale e la Repubblica democratica: un rapporto quasi completamente interrottonegli ultimi 10 anni, soprattutto a causa dell’inarrestabile corsa al nucleare dei Kim.

Il giovane Kim alla prova dei fatti
Colpisce, dal punto di vista delle relazioni internazionali, la tempistica con cui il governo nordcoreano ha deciso di rendere nota la situazione precaria del Paese.

Difficilmente in questi anni, infatti, fatte salve le minacce più o meno velate a Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone e i proclami di forza e grandezza del leader al comando, si sono mai avute notizie, in particolare negative, inerenti la terra dei Kim.

La diffusione dell’informazione coincide con il rilascio di due prigionieri sudcoreani, accusati di “ingresso illegale” nel Nord, e con una politica distensiva portata avanti, recentemente, dal giovane KimJong-un, oggetto di costante monitoraggio nella Comunità internazionale per le stravaganti iniziative, vere o presunte, che caratterizzano la sua attività politica.

Non potendo trovare una diretta risposta alla siccità, causata da avverse condizioni metereologiche, il regime di Pyongyang ha indetto un nuovo periodo di totale mobilitazione com’è tradizione del Paese in caso di necessità.

“Mobilitiamoci tutti con la massima efficienza e dedichiamo tutti i nostri sforzi all’agricoltura”, così inizia il comunicato con cui si rende noto che tutti i nordcoreani a partire dalla scuola elementare, funzionari e casalinghe inclusi, dovranno dedicarsi per 40 giorni al lavoro agricolo nelle fattorie collettive, i kolchoz.

Obiettivo della mobilitazione è di prevenire la carestia derivante dalla siccità che rischia di uguagliare quella degli Anni Novanta, conosciuta come “l’ardua marcia” a causa dei tre milioni di vittime causati.

La mobilitazione in vista degli aiuti
Il peso della situazione avversa ricadrà, quindi, ancora una volta sulla popolazione che dovrà fornirsi autonomamente degli strumenti necessari al lavoro nei campi, abbandonando l’istruzione o il lavoro nella speranza di poter accedere direttamente a razioni di cibo più abbondanti di quelle attualmente ripartite secondo il piano nazionale di riferimento.

Appare chiaro che l’obiettivo principale del regime sia di sbloccare nuovamentela macchina degli aiuti internazionali scesi negli ultimi dieci anni da 300 a “soli” 50 milioni di dollari.

È di questi giorni la notizia, diffusa dal Ministero per l’Unificazione sudcoreano, di una flebile ripresa del dialogo tra Nord e Sud, su iniziativa proprio della parte settentrionale della Penisola.

Tutti elementi che rafforzano le tesi, maggioritarie, di una volontà nordcoreana di tornare a dialogare con la comunità internazionale tutta e non soltanto con gli storici alleati russi e cinesi, dopo oltre dieci anni d’isolamento, senz’altro imposto dall’esterno, ma sicuramente non contrastato dall’interno.

Questi costanti cambi di politica estera, prima minacciosa poi dialogante e viceversa,e le voci circa il rafforzamento di una minoritaria corrente di opposizione nell’élite del regime sono l’indicazione che forse, nella statica Pyongyang, qualcosa s’inizia a muovere.

Francesco Celentano, neolaureato in Giurisprudenza e praticante legale, si sta specializzando nello studio del diritto internazionale, già oggetto della sua tesi di laurea redatta durante un periodo di ricerca presso l'ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra.
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CIna: allarme rosso per le borse

agno di umiltà
Cina: la bolla delle borse
Nello del Gatto
10/07/2015
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È un bagno di umiltà e una svolta verso il reale quella che sta affrontando la Cina di questi giorni. La bolla scoppiata nella borsa cinese, che ha portato a perdere oltre 3,5 miliardi di dollari (valori che superano di 11 volte il Pil greco, di quattro volte il valore delle borse spagnole e di due quelle indiane), più del 30% del suo valore, ha fatto realizzare a molti, semmai ce ne fosse bisogno, che Pechino ha bisogno di una operazione verità sui suoi numeri.

Operazione verità sui numeri
Si è cominciato con la crescita: da un paio di anni, il 10% e passa è diventato un miraggio e la Cina si sta stabilizzando su quello che è un sogno per molti Paesi ma che per i cinesi all’inizio era una iattura, il 7% di crescita. Considerato troppo basso fino a qualche anno fa, ma che ora pare più realistico: questo è attualmente l’obiettivo, che alcuni considerano di difficile ma non impossibile raggiungimento, visto l’andamento dell’economia cinese.

Si è proseguito con la borsa: dal giugno 2014 al 12 giugno scorso, ritenuto il vero “venerdì nero” della borsa cinese, sui mercati azionari del Paese del Dragone si era riusciti a guadagnare il 150%. Davvero tanto, per non fare poi scoppiare una bolla che, in poco meno di un mese, ha bruciato un bel po’ di risparmi. Che la borsa cinese sia volatile e, per certi versi, non affidabile è dimostrato dall’altalena dei risultato dei risultati: giovedì 9 luglio, il primo vero test dopo le misure messe in campo dal governo, c’è stata un’apertura a -4%, poi l’indice di Shanghai in chiusura ha guadagnato il 5,7%.

Il colpevole? La mancanza di realismo
La stessa cifra che aveva registrato come perdita il giorno precedente. Una situazione che ha portato le autorità cinesi ad essere euforiche il 9, dopo avere parlato di “panico” l’8 e ad avere annunciato indagini per cercare i colpevoli di questa situazione. Ma il vero colpevole è la mancanza di realismo, di certezza sui numeri. Come molti analisti hanno osservato, il problema è che in Cina tutto è gigantesco e per di più mancano l'esperienza, le competenze e “la forza intrinseca del sistema per gestire crisi di queste proporzioni”.

Nel Paese i dati economici non sono del tutto chiari: c’è un problema notevole relativo ai debiti delle amministrazioni locali, le province, che hanno contratto mutui con le banche statali per arginare la crisi del 2008 mettendo in campo grandi infrastrutture e per fare girare l’economia. Ad oggi, non si sa se e quando potranno restituire quei soldi.

Neofiti dall’entusiasmo alla disperazione
C’è un problema di verità legato alla presenza di un sistema bancario e finanziario occulto, di proporzioni gigantesche e che pare sia il vero motore economico del Paese, in termini di prestiti e denaro della classe media e delle piccole e medie imprese. Proprio questi ultimi sono tra i più colpiti della bolla finanziaria. In un mercato dove non è peccato arricchirsi e dove, come detto, si è guadagnato il 150% in un anno, buttare in borsa i soldi risparmiati è sembrato l’investimento più giusto.

Se poi si considerano i prezzi degli immobili sempre più alti (altra bolla in Cina) e l’intervento continuo del governo quasi a sostenere la borsa, si capisce il motivo per il quale i piccoli risparmiatori cinesi, milioni di persone, abbiano anche preso soldi a prestito per investire in borsa. Neofiti che ora si stanno mangiando le mani e che si lamentano sui social network delle perdite.

Il governo corre a drastici ripari
Ma il governo è corso ai ripari, come solo un esecutivo di regime può, mettendo in campo misure drastiche: blocco delle vendite per i prossimi sei mesi agli investitori che detengono più del 5% delle azioni di una compagnia; conferma da parte della banca centrale, la People's Bank of China, di continuare a fornire ampia liquidità alle istituzioni che concedono prestiti a chi vuole investire in Borsa; blocco delle Ipo; taglio dei tassi di interesse e interventi sulle riserve obbligatorie delle banche; compagnie statali obbligate a comprare azioni; aumento della quantità di azioni che le compagnie di assicurazioni possono acquistare; costituzione, da parte dei 21 broker principali del Paese, di un fondo da 120 miliardi di yuan per stabilizzare il mercato, che si è impegnato a non vendere azioni fino a quando l'indice di Shanghai sarà inferiore a quota 4.500.

Tutte misure che hanno avuto l’effetto di iniettare, oltre a soldi, fiducia soprattutto nei piccoli risparmiatori. Ma aumenta la volatilità e, soprattutto, il dubbio che il problema sia strutturale e che possa riverberarsi sull’economia reale. Anche se la borsa cinese ha un valore pari al 40% del Pil (in molti altri paesi si supera il 100%) è, come detto, considerato un bene rifugio da tanti. La corsa del governo cinese a far cambiare faccia al Paese del Dragone, facendolo diventare da “fabbrica del mondo” a “negozio del mondo”, tentando di aumentare i consumi interni, sta mietendo vittime. E’ in campo soprattutto la credibilità si un sistema che, come detto, pare si basi su travi -alcune delle quali- d’argilla.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo.
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mercoledì 15 luglio 2015

CIna: nuovi rapporti con il Pakistan a margine della Via della Seta

Cina-Pakistan
La geografia della politica di Xi
Francesco Valacchi
29/06/2015
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Con il progetto della “Nuova Via della Seta” la Cina sembra tornare a riorientarsi al mezzo di comunicazione terrestre: un atteggiamento che corrisponde all’introduzione del concetto di Sogno cinese dell’attuale presidente Xi Jinping e che ha come punto forte la straordinaria amicizia con Islamabad.

Il presidente Xi sta completando il lancio del suo progetto ‘Sogno cinese’. Le iniziative nei vari campi amministrativi dimostrano una tendenza a conferire alla Repubblica popolare l’immagine di una grande potenza, artefice della costruzione di un sogno politico che coinvolgerà i suoi alleati asiatici.

L’amministrazione Xi ha iniziato un rinnovamento interno con la campagna anticorruzione che ha sconvolto il Partito (oltre ai clamorosi casi Bo Xilai e Zhou Yongkang un buon numero di dirigenti è stato inquisito). Si tratta di uno sforzo per creare una più positiva immagine della quinta generazione di leader sconfiggendo una delle piaghe più evidenti nella storia della Cina: la corruzione degli apparati governativi.

L’internazionalizzazione dell’economia
Un altro elemento del Sogno è una internazionalizzazione dell’economia concertata a livello centrale (sempre più forte) e portata avanti in senso commerciale (con accordi di varia natura) e finanziario (internazionalizzazione di mercati e moneta).

Si mira alla legittimazione internazionale della potenza economica di Pechino che partiva da una immagine di free-rider. La Cina appariva intenta a conseguire vantaggi immediati per la propria inarrestabile crescita anche contravvenendo alle regole del commercio internazionale.

A partire dall’insediamento di Xi, invece, viene promossa la regolarizzazione del comportamento delle imprese nazionali (le 120 State Owned Enterprises definite campioni dell’economia) e si legifera anche nel senso di un controllo più accentrato.

La Cina sembra oggi perseguire una strategia nella stipula di trattati prediligendo, come con l’Unione europea, Ue (negoziato iniziato nel 2013), Bilateral Investment Treaties a veri e propri Free Trade Agreements che probabilmente aprirebbero troppo il mercato e non darebbero la possibilità di mantenere un residuo di controllo.

Il primo ministro Li Keqiang (principale regista delle riforme economiche) ha promosso una politica di supporto agli istituti bancari, una serie di manovre per l’internazionalizzazione della moneta e l’istituzione di una nuova Banca asiatica di sviluppo a guida cinese (Asian Infrastructure Investment Bank).

L’internazionalizzazione del renminbi non è ancora un obiettivo chiaro: la Cina sa bene che necessiterebbe di una economia più forte per farlo senza incorrere in rischi speculativi; eppure, la Banca Centrale Cinese continua a muoversi in direzione dell’internazionalizzazione (con la creazione di stocks di titoli internazionali e l’apertura dei mercati finanziari).

L’obiettivo attuale è probabilmente la creazione di una immagine della Cina potenza finanziaria internazionale che serva ad un rafforzamento economico (e, solo sul lungo termine, all’internazionalizzazione). Allo stesso modo le manovre per la creazione della AIIB sono un tentativo cinese di soppiantare in Asia la presenza delle istituzioni di Bretton Woods, opportunità che la Cina può perseguire, agli occhi degli altri Stati asiatici, dopo la crisi thailandese del 1997-1998.

La nuova Via della Seta e il Sogno cinese
La ben nota Nuova Via della Seta è parte fondante del Sogno cinese. Il monumentale canale logistico-commerciale-diplomatico che rafforzerà i rapporti con l’Ue e con tutti i Paesi asiatici attraversati avrà una serie di ricadute positive sull’immagine cinese.

Sul versante interno lo sviluppo economico della più arretrata frontiera occidentale beneficerà del traffico che verrà promosso (creando consenso per il Partito). Per l’immagine internazionale ancora più positivi saranno il risalto ed i benefits ottenuti dal collegamento tra la cintura terrestre della Nuova Via della Seta e quella marittima che passa per la regione indo-pacifica e giunge sino al Mediterraneo.

Con questa duplice cintura la Cina si allontana dalla Russia per volgersi al Centro Asia e alleggerisce la propria pressione sull’Area Indo-Pacifica (che non è più il binario di collegamento unico) con una ricaduta molto positiva sulla diplomazia nell’area.

Allo stesso tempo Pechino concederà libertà di movimento a Mosca nei Mari del Nord e andrà a consolidare tutta una serie di rapporti con attori dell’Asia centrale (molti dei quali Paesi in via di sviluppo) accrescendo la sua immagine di potenza e traendone indubbi vantaggi economici.

Il perno Pakistan della politica asiatica cinese
Il perno della politica cinese sarà ancora una volta l’eterno alleato Pakistan, come ha dimostrato la visita del presidente ad Islamabad e l’asse principale dell’alleanza correrà sulla Karakoram Highway. La Cina ha siglato accordi per ingenti investimenti. Il focus di tali stanziamenti sarà il China-Pakistan Economic Corridor: asse che congiungerà la Via della Seta col corridoio marittimo, passando per il porto di Gwadar.

Al rinnovo dell’amicizia col Pakistan ha contribuito sicuramente la rinnovata stabilità politica di Islamabad. Il governo Sharif è frutto di una democratica elezione che ha posto fine alla crisi governativa iniziata nel 2010.

In precedenza le crisi erano state risolte da putsch militari o avevano dato luogo a lunghi periodi di instabilità (come nel decennio 1988-1998). Con questo governo la Repubblica islamica ha l’opportunità di inaugurare un brillante periodo di sviluppo (se riuscirà a vincere la partita col terrorismo) e diviene così maggiormente appetibile agli investimenti cinesi.

Le parole d’ordine ‘felicità’ e ‘rinnovamento’ fulcro del Sogno di Xi sono esemplarmente esemplificate nell’alleanza con Islamabad: felicità per i benefits ottenuti e rinnovamento della secolare alleanza.

L’alleanza rappresenta il premio per gli attori asiatici (in particolare per i Pvs) che si orienteranno a sostenere il Sogno cinese. Il primo alleato a godere dell’amicizia con Pechino è poi, non a caso, il principale avversario dell’unico possibile elemento di resistenza al sogno: l’India.

Dal momento che la Cina ha da sempre perseguito una politica estera di contenimento economico dell’India, ci si deve aspettare un rinnovamento delle alleanze tradizionali (che si confanno a tale politica) e invece un raffreddamento di quelle solamente occasionali.

Francesco Valacchi si è laureato in Scienze Strategiche nel 2004 presso l’ateneo di Torino ed in Studi Internazionali presso quello di Pisa nel 2013. È appassionato di geopolitica e strategia e ufficiale in servizio permanente effettivo nell’esercito italiano.
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giovedì 2 luglio 2015

Cina: la democrazia resiste ad Hog Kong

Cina e Hong Kong
Dissidio su una riforma
Nello del Gatto
22/06/2015
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Piccoli democratici crescono ad Hong Kong e ne è chiaro segnale il voto con il quale il parlamentino dell’ex colonia britannica ha respinto la controversa riforma elettorale voluta da Pechino.

Nei piani della dirigenza cinese, la cui longa manus negli ultimi anni si è sempre più stretta intorno a Hong Kong tanto da fare nascere e rinvigorire movimenti anti Pechino (in particolare composti da giovani e giovanissimi), le prossime elezioni del 2017 sarebbero state le prime nelle quali la Cina avrebbe concesso il suffragio universale per la scelta del capo del governo locale (chief executive), come stipulato nella Legge Fondamentale, la mini-costituzione di Hong Kong.

L’ex colonia dal 1997 è una Speciale Regione Amministrativa (Sar) della Cina con una forte autonomia (nel solco della politica de “un paese due sistemi”), molto orgogliosa della sua tradizione e della sua diversità da Pechino che comunque esercita una grande influenza anche politica.

Non a caso, l’attuale chief executive di Hong Kong, Leung Chun-ying, è considerato pienamente allineato con Pechino, tanto da aver effettuato in mandarino e non, come da tradizione, in cantonese (lingua parlata a Hong Kong) il suo discorso di insediamento nel luglio del 2012.

Respinto il suffragio universale “alla cinese”
Il progetto di riforma di Pechino prevedeva un suffragio universale “alla cinese”: i cittadini di Hong Kong avrebbero sì potuto eleggere il loro candidato preferito alla carica di capo dell’esecutivo locale, ma tra una rosa di due o tre nomi, scelti da un gruppo di 1200 persone per la quasi totalità vicine a Pechino.

L’annuncio, lo scorso agosto, di questa riforma, scatenò le proteste di larga parte dell’opinione pubblica hongkonghina, che sfociarono nell’autunno in settimane di manifestazioni, una Occupy Hong Kong che catapultò l’ex colonia britannica sui media internazionali per il grande numero di partecipanti, soprattutto giovani universitari, che si battevano contro il potere di Pechino. Ci furono scontri con la polizia, si parlò anche della possibilità che Pechino potesse inviare carri armati.

L’occupazione pacifica delle piazze di Admiral e di altri quartieri di Hong Kong da parte degli universitari, durata oltre 10 settimane, appoggiati da professionisti e da tanta gente comune, preoccupò non poco Pechino che decise di mantenere il silenzio di fronte ai manifestanti dall’”ombrello giallo” (il simbolo della protesta), confidando poi in un voto favorevole del Parlamento.

Il no del Parlamento dopo quello dei giovani
Voto che giovedì 18 non c’è stato: la proposta di riforma è stata respinta con 8 voti a favore e 28 contro. Trentaquattro parlamentari pro Pechino hanno lasciato l’aula prima del voto; ma comunque non sarebbero riusciti a fare nulla, dal momento cheil governo aveva bisogno di almeno 47 dei 70 voti per l'approvazione.

Mentre a Hong Kong all’esterno del parlamentino e in altre zone della città si festeggiava, a Pechino non si rideva. Anzi. La stampa cinese pro partito comunista ha fortemente attaccato i deputati usciti dall’aula.

Si è parlato di problema di comunicazione, di débâcle politica. Il voto ha rafforzato il movimento democratico di Hong Kong che, nato sulle proteste, sta ora cercando di assumere sempre più potere e consenso. Sul piatto non ci sono più solo le elezioni del 2017 del capo dell’esecutivo, ma le elezioni locali del prossimo novembre quando saranno eletti i membri dei 18 consigli distrettuali.

Elezioni locali dal sapore politico
Elezioni locali, ma dal forte carattere politico, perché l’anno successivo, ci saranno le elezioni del Legco (Legislative Council), il parlamentino di Hong Kong influenzato comunque dalla politica locale. Non solo: i consiglieri hanno voti importanti sia nella commissione di nomina del chief executive, sia esprimono due seggi nel Legco e scelgono i candidati per altri tre posti.

Il movimento democratico, che aveva organizzato proteste solidali (con raccolta di spazzatura, distribuzione di viveri e vestiti e altro) sta cercando ora di organizzarsi per combattere contro l’emanazione a Hong Kong del partito comunista cinese, galvanizzato dal risultato del voto sulla riforma, per ribadire la propria autonomia, sperando poi nell’approvazione di una vera riforma elettorale a suffragio universale che, il chief executive vicino a Pechino, ha annunciato comunque che metterà da parte nei due ani restanti di suo governatorato.

Ci sarà a breve una sorta di campo organizzativo nel quale si getteranno le basi per l’organizzazione strutturale di questo movimento, con l’intenzione soprattutto di svecchiare la politica di Hong Kong e sfruttare l’energia messa su strada dai manifestanti nei 79 giorni di protesta.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo.
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