Cina e Hong Kong Dissidio su una riforma Nello del Gatto 22/06/2015 |
Piccoli democratici crescono ad Hong Kong e ne è chiaro segnale il voto con il quale il parlamentino dell’ex colonia britannica ha respinto la controversa riforma elettorale voluta da Pechino.
Nei piani della dirigenza cinese, la cui longa manus negli ultimi anni si è sempre più stretta intorno a Hong Kong tanto da fare nascere e rinvigorire movimenti anti Pechino (in particolare composti da giovani e giovanissimi), le prossime elezioni del 2017 sarebbero state le prime nelle quali la Cina avrebbe concesso il suffragio universale per la scelta del capo del governo locale (chief executive), come stipulato nella Legge Fondamentale, la mini-costituzione di Hong Kong.
L’ex colonia dal 1997 è una Speciale Regione Amministrativa (Sar) della Cina con una forte autonomia (nel solco della politica de “un paese due sistemi”), molto orgogliosa della sua tradizione e della sua diversità da Pechino che comunque esercita una grande influenza anche politica.
Non a caso, l’attuale chief executive di Hong Kong, Leung Chun-ying, è considerato pienamente allineato con Pechino, tanto da aver effettuato in mandarino e non, come da tradizione, in cantonese (lingua parlata a Hong Kong) il suo discorso di insediamento nel luglio del 2012.
Respinto il suffragio universale “alla cinese”
Il progetto di riforma di Pechino prevedeva un suffragio universale “alla cinese”: i cittadini di Hong Kong avrebbero sì potuto eleggere il loro candidato preferito alla carica di capo dell’esecutivo locale, ma tra una rosa di due o tre nomi, scelti da un gruppo di 1200 persone per la quasi totalità vicine a Pechino.
L’annuncio, lo scorso agosto, di questa riforma, scatenò le proteste di larga parte dell’opinione pubblica hongkonghina, che sfociarono nell’autunno in settimane di manifestazioni, una Occupy Hong Kong che catapultò l’ex colonia britannica sui media internazionali per il grande numero di partecipanti, soprattutto giovani universitari, che si battevano contro il potere di Pechino. Ci furono scontri con la polizia, si parlò anche della possibilità che Pechino potesse inviare carri armati.
L’occupazione pacifica delle piazze di Admiral e di altri quartieri di Hong Kong da parte degli universitari, durata oltre 10 settimane, appoggiati da professionisti e da tanta gente comune, preoccupò non poco Pechino che decise di mantenere il silenzio di fronte ai manifestanti dall’”ombrello giallo” (il simbolo della protesta), confidando poi in un voto favorevole del Parlamento.
Il no del Parlamento dopo quello dei giovani
Voto che giovedì 18 non c’è stato: la proposta di riforma è stata respinta con 8 voti a favore e 28 contro. Trentaquattro parlamentari pro Pechino hanno lasciato l’aula prima del voto; ma comunque non sarebbero riusciti a fare nulla, dal momento cheil governo aveva bisogno di almeno 47 dei 70 voti per l'approvazione.
Mentre a Hong Kong all’esterno del parlamentino e in altre zone della città si festeggiava, a Pechino non si rideva. Anzi. La stampa cinese pro partito comunista ha fortemente attaccato i deputati usciti dall’aula.
Si è parlato di problema di comunicazione, di débâcle politica. Il voto ha rafforzato il movimento democratico di Hong Kong che, nato sulle proteste, sta ora cercando di assumere sempre più potere e consenso. Sul piatto non ci sono più solo le elezioni del 2017 del capo dell’esecutivo, ma le elezioni locali del prossimo novembre quando saranno eletti i membri dei 18 consigli distrettuali.
Elezioni locali dal sapore politico
Elezioni locali, ma dal forte carattere politico, perché l’anno successivo, ci saranno le elezioni del Legco (Legislative Council), il parlamentino di Hong Kong influenzato comunque dalla politica locale. Non solo: i consiglieri hanno voti importanti sia nella commissione di nomina del chief executive, sia esprimono due seggi nel Legco e scelgono i candidati per altri tre posti.
Il movimento democratico, che aveva organizzato proteste solidali (con raccolta di spazzatura, distribuzione di viveri e vestiti e altro) sta cercando ora di organizzarsi per combattere contro l’emanazione a Hong Kong del partito comunista cinese, galvanizzato dal risultato del voto sulla riforma, per ribadire la propria autonomia, sperando poi nell’approvazione di una vera riforma elettorale a suffragio universale che, il chief executive vicino a Pechino, ha annunciato comunque che metterà da parte nei due ani restanti di suo governatorato.
Ci sarà a breve una sorta di campo organizzativo nel quale si getteranno le basi per l’organizzazione strutturale di questo movimento, con l’intenzione soprattutto di svecchiare la politica di Hong Kong e sfruttare l’energia messa su strada dai manifestanti nei 79 giorni di protesta.
Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo.
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L’ex colonia dal 1997 è una Speciale Regione Amministrativa (Sar) della Cina con una forte autonomia (nel solco della politica de “un paese due sistemi”), molto orgogliosa della sua tradizione e della sua diversità da Pechino che comunque esercita una grande influenza anche politica.
Non a caso, l’attuale chief executive di Hong Kong, Leung Chun-ying, è considerato pienamente allineato con Pechino, tanto da aver effettuato in mandarino e non, come da tradizione, in cantonese (lingua parlata a Hong Kong) il suo discorso di insediamento nel luglio del 2012.
Respinto il suffragio universale “alla cinese”
Il progetto di riforma di Pechino prevedeva un suffragio universale “alla cinese”: i cittadini di Hong Kong avrebbero sì potuto eleggere il loro candidato preferito alla carica di capo dell’esecutivo locale, ma tra una rosa di due o tre nomi, scelti da un gruppo di 1200 persone per la quasi totalità vicine a Pechino.
L’annuncio, lo scorso agosto, di questa riforma, scatenò le proteste di larga parte dell’opinione pubblica hongkonghina, che sfociarono nell’autunno in settimane di manifestazioni, una Occupy Hong Kong che catapultò l’ex colonia britannica sui media internazionali per il grande numero di partecipanti, soprattutto giovani universitari, che si battevano contro il potere di Pechino. Ci furono scontri con la polizia, si parlò anche della possibilità che Pechino potesse inviare carri armati.
L’occupazione pacifica delle piazze di Admiral e di altri quartieri di Hong Kong da parte degli universitari, durata oltre 10 settimane, appoggiati da professionisti e da tanta gente comune, preoccupò non poco Pechino che decise di mantenere il silenzio di fronte ai manifestanti dall’”ombrello giallo” (il simbolo della protesta), confidando poi in un voto favorevole del Parlamento.
Il no del Parlamento dopo quello dei giovani
Voto che giovedì 18 non c’è stato: la proposta di riforma è stata respinta con 8 voti a favore e 28 contro. Trentaquattro parlamentari pro Pechino hanno lasciato l’aula prima del voto; ma comunque non sarebbero riusciti a fare nulla, dal momento cheil governo aveva bisogno di almeno 47 dei 70 voti per l'approvazione.
Mentre a Hong Kong all’esterno del parlamentino e in altre zone della città si festeggiava, a Pechino non si rideva. Anzi. La stampa cinese pro partito comunista ha fortemente attaccato i deputati usciti dall’aula.
Si è parlato di problema di comunicazione, di débâcle politica. Il voto ha rafforzato il movimento democratico di Hong Kong che, nato sulle proteste, sta ora cercando di assumere sempre più potere e consenso. Sul piatto non ci sono più solo le elezioni del 2017 del capo dell’esecutivo, ma le elezioni locali del prossimo novembre quando saranno eletti i membri dei 18 consigli distrettuali.
Elezioni locali dal sapore politico
Elezioni locali, ma dal forte carattere politico, perché l’anno successivo, ci saranno le elezioni del Legco (Legislative Council), il parlamentino di Hong Kong influenzato comunque dalla politica locale. Non solo: i consiglieri hanno voti importanti sia nella commissione di nomina del chief executive, sia esprimono due seggi nel Legco e scelgono i candidati per altri tre posti.
Il movimento democratico, che aveva organizzato proteste solidali (con raccolta di spazzatura, distribuzione di viveri e vestiti e altro) sta cercando ora di organizzarsi per combattere contro l’emanazione a Hong Kong del partito comunista cinese, galvanizzato dal risultato del voto sulla riforma, per ribadire la propria autonomia, sperando poi nell’approvazione di una vera riforma elettorale a suffragio universale che, il chief executive vicino a Pechino, ha annunciato comunque che metterà da parte nei due ani restanti di suo governatorato.
Ci sarà a breve una sorta di campo organizzativo nel quale si getteranno le basi per l’organizzazione strutturale di questo movimento, con l’intenzione soprattutto di svecchiare la politica di Hong Kong e sfruttare l’energia messa su strada dai manifestanti nei 79 giorni di protesta.
Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo.
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