Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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venerdì 27 marzo 2015

Cina: le prospettive nel mondo

Orizzonte Cina
I cinesi d’oltremare che lasciano il 'sogno italiano'
Daniele Brigadoi Cologna
24/03/2015
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Sul ponte di Tashan, lungo la statale 330 che dalla città di Wenzhou porta a Qingtian, storico focolaio di emigrazione dalla Cina verso l’Europa, campeggia una grande scritta in lettere alfabetiche gialle su fondo blu cielo.

Il messaggio è ripetuto per tre volte, nelle diverse lingue dei paesi che oggi ospitano le maggiori collettività di cittadini della Repubblica popolare cinese (Rpc) in Europa: italiano, spagnolo e francese.

Tra foglie cadute e testuggini marine
Quella italiana recita: “Benvenuto al distretto cinese d’oltremare Qingtian”, ma è la versione francese che svela il senso vero di questi cartelli: “Bienvenue a Qingtian aux Chinois d’outre-mer”.

Il benvenuto è diretto, infatti, alle “foglie cadute che ritornano alle radici” e alle “tartarughe marine” (gioco di parole sul diverso significato di termini omofoni: “coloro che tornano da oltremare”/“testuggini marine”), ovvero agli emigranti e agli studenti o specializzandi che scelgono di tornare alla madrepatria dopo aver fatto fortuna o essersi formati all’estero. Sottinteso: emigranti che tornano al “paese degli antenati” per investirvi capitali, idee e competenze accumulate altrove.

Lungo il corso degli anni Duemila, e con un’impennata significativa dal 2007 in avanti, una quota consistente di chi aveva lasciato la Cina per formarsi all’estero ha cominciato a tornare in patria.

Lo hanno fatto soprattutto gli individui più qualificati o in corso di alta formazione, ma il fenomeno ha gradualmente investito anche i migranti a bassa qualificazione trasferitisi in Europa.

I primi indubbiamente sedotti dalle migliori prospettive di crescita e di carriera offerte da uno dei pochi contesti internazionali ad alta resilienza, dopo che la crisi finanziaria internazionale ha cominciato a farsi sentire in tutto l’Occidente e oltre.

I secondi, invece, in parte attratti dalle opportunità di investimento e speculazione offerte dalla vitalità del mercato cinese, in parte perché ormai disillusi rispetto alle possibilità di fare fortuna nei paesi europei di maggior insediamento cinese.

L’emigrazione dal Zhejiang ha conosciuto il primo picco proprio pochi anni prima dello scoppio della crisi. In Italia, ad esempio, i flussi più consistenti si sono avuti negli anni 2003, 2004 e 2005, per lasciare poi il posto a incrementi decrescenti fino a un nuovo picco negli anni 2009, 2010 e 2011, cui è seguita una fase di contrazione degli ingressi tuttora in atto.

Dal 1994 al 2013 complessivamente 12.061 persone hanno fatto ritorno in patria. Oltre il 60%di questi ritorni si è verificato negli ultimi cinque anni. Certo, non sono poi molti: rapportati ai 256.846 cittadini cinesi residenti in Italia nel 2013, è un modesto 4,7%, che senza dubbio raccoglie anche molti anziani desiderosi di trascorrere il crepuscolo delle proprie esistenze nel paese natale.

Visitando i contesti di origine, tuttavia, non si può non restare colpiti dalla frequenza con cui ci si imbatte in persone giovani che dichiarano di essere tornati in Cina dopo aver trascorso periodi relativamente brevi in Italia.

Nelle cittadine di media grandezza i “ritornati” sono persone di età inferiore ai trentacinque anni: in questi contesti urbani, tuttora pervasi da un certo fervore commerciale, queste persone svolgono mestieri (tassisti, portieri d’albergo, commessi) che fino a metà degli anni Duemila erano più spesso riservati a migranti interni.

I più avventurosi aprono piccoli esercizi commerciali, negozi di abbigliamento o bar “in stile italiano”. Quelli che in Italia hanno fatto fortuna sul serio tendenzialmente si dedicano all’import-export, o si cimentano in arditi progetti di speculazione immobiliare.

L’Europatown di Tonglu
Un buon esempio è il progetto “Italia in Tonglu”, recentemente presentato presso la Camera di commercio italo-cinese da Jiang Wenyao (Oscar Jiang), presidente dell’Associazione generale del commercio diQingtian in Italia.

Tonglu è una “cittadina modello”, a un’ora d’auto dalla capitale del turismo interno cinese, Hangzhou. Il progetto - in cui si è impegnata una cordata di imprenditori transnazionali originari di Qingtian e residenti in Italia - prevede la realizzazione di una “Europatown”, un quartiere che amalgami in un ibrido esotizzante parchi a tema, centri commerciali, hotel di lusso, spa resort e casinò d’ispirazione europea.

China European City, infatti, si presenta come un insieme coeso di edifici costruiti in modo da emulare i tratti caratteristici del borgo italiano tipico, ma con un tocco di gigantismo alla cinese (la piazza, il campanile, i portici...). L’impatto estetico del rendering del progetto sull’osservatore europeo è straniante: un bizzarro esempio di esotismo occidentalista, ma sul consumatore cinese benestante - assicurano i proponenti - l’effetto è di grande seduzione.

Per tutti quei cinesi che non possono o non vogliono recarsi all’estero, questo surrogato offrirà le medesima opportunità di acquistare i grandi marchi europei, mangiare e bere all’europea, andare all’opera o a un concerto, per poi svagarsi all’ombra di cupoloni brunelleschiani e colonnati simil-Bernini. L’area coinvolta è di 400 mila metri quadrati, l’investimento è poco più di 420 milioni di euro (al cambio di gennaio 2015).

Se l’epopea italiana non decolla
Non è un caso che a proporre questo tipo di iniziative siano migranti transnazionali che risiedono in Italia o in altri paesi europei, e non return migrants ristabilitisi in Cina.

Il fattore motivante del ritorno di questi ultimi - per quanto riguarda l’area storica di provenienza dei “nostri” cinesi - sembra essere piuttosto il crollo delle aspettative, la fine del loro “sogno italiano”.

Emigrati sull’onda dell’ultima grande sanatoria e dei primi decreti flussi, convinti di poter realizzare a breve termine quelle “epopee veloci” di riuscita economica che avevano portato molti migranti degli anni Ottanta e Novanta dalla condizione di lavapiatti a quella di proprietario di una trattoria nel giro di meno di dieci anni, sono stati colti in contropiede dall’impatto con le mutate condizioni del mercato del lavoro degli anni Duemila.

I loro coetanei rimasti in Cina hanno spesso carriere più rapide delle loro, che perseguono assieme ai propri amici e parenti, nei contesti in cui sono cresciuti. Quelli che raccontano la decisione di tornare dopo pochi anni in Italia lo fanno senza amarezza, contenti di essere tornati per tempo in un paese che sentono ancora in corsa, ancora capace di stupire il mondo e offrire loro una chance di realizzazione personale.

Un paese che, a differenza di chi li ha preceduti, sono ancora in grado di sentire proprio, in cui si sentono a casa. E in cui, conservando i legami familiari con l’estero, fare da snodo locale per le imprese di import-export gestite dai propri parenti in Europa, aprendo loro le porte del mercato cinese.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Daniele Brigadoi Cologna è ricercatore e docente di Lingua e cultura cinese, Università degli Studi dell’Insubria; fondatore, agenzia di ricerca sociale Codici.

venerdì 20 marzo 2015

Cina: i rapporti con la Santa Sede

Santa Sede
Parolin, il chirurgo che ricuce tra Cina e Vaticano
Aldo Maria Valli
16/03/2015
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Sono molti i segnali di un rinnovato dialogo tra Santa Sede e Cina. Prima di tutto l’interesse di papa Francesco per l’Asia, testimoniato da numerose affermazioni del pontefice sull’importanza del continente e dai suoi viaggi in Corea del Sud, Sri Lanka e Filippine (il cui primate, cardinale Tagle, è di madre cinese).

Poi c’è il permesso concesso da Pechino al sorvolo del territorio cinese da parte dell’aereo papale sia all’andata che al ritorno da Seul (con relativi telegrammi del papa per invocare pace e benessere per il paese).

Né va dimenticata la frase di Bergoglio ai giornalisti (“Se andrei in Cina? Ma sicuro, domani!”) a seguito di uno scambio di messaggi con il presidente cinese Xi Jinping subito dopo il conclave.

A tutto questo si somma la decisione, in occasione della Via Crucis al Colosseo del 2013, di far portare la croce a due seminaristi provenienti dalla Cina.

E infine c’è la costante attenzione verso la Cina da parte del segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Pietro Parolin, il quale, quando era viceministro degli esteri vaticano durante il pontificato di Benedetto XVI, guidò trattative riservate con Pechino.

Tutto risolto, dunque tra Cina e Vaticano? Certamente no, perché i nodi sono tutti lì, ancora intricati. E si possono riassumere in due parole: vescovi e Chiesa. Ovvero: chi sceglie i vescovi in Cina? E da chi dipende la Chiesa cattolica cinese?

Vescovi e Chiesa in Cina
Attualmente i vescovi li sceglie il governo, attraverso l’Ufficio affari religiosi che è come dire il Partito comunista cinese. Da questo punto di vista, nulla in sostanza è cambiato rispetto ai tempi di Mao Tse-tung.

E qui veniamo al problema della Chiesa cattolica cinese che il governo vuole mantenere indipendente dal Vaticano, una Chiesa “patriottica” fedele più a Pechino che a Roma.

Da parte del governo cinese c’è stata qualche timida apertura sui vescovi. Pechino sembra ora disponibile a concedere al Vaticano una voce in capitolo nella scelta dei vescovi. È però irremovibile sul ruolo dell’Associazione patriottica, l’organismo che di fatto controlla ogni attività della Chiesa rispondendo direttamente al Partito comunista.

Insomma, se in Cina un cattolico vuole essere davvero fedele al papa, deve scendere, metaforicamente ma non tanto, nelle catacombe, e far parte della Chiesa detta sotterranea o clandestina.

A questo punto, quali margini di manovra ci sono? Sulla scelta dei vescovi, la Santa Sede è disponibile a trovare una formula che tenga conto delle esigenze di Pechino, a patto di avere l’ultima parola.

Nel 2007 Benedetto XVI lo disse chiaramente nella sua lettera ai cattolici cinesi: se l’ultima parola non spetta alla Santa Sede, il diritto alla libertà religiosa è una finzione. Da questo orecchio Pechino, però, non sembra sentirci.

Bergoglio, il non capitalista che piace alla Cina 
Ma allora perché il cardinale Parolin, parlando dei rapporti con la Cina in un’intervista al periodico dei francescani di Assisi, ha detto che “le prospettive sono promettenti” e ha accennato a “gemme” che potrebbero fiorire e dare buoni frutti?

Uno dei motivi di ottimismo è che Bergoglio, in quanto argentino, non è visto da Pechino come un classico rappresentante dell’Occidente capitalista. La sua provenienza geografica e culturale e le sue reiterate prese di posizione contro gli eccessi del liberismo lo stanno accreditando come un interlocutore con il quale poter avviare un confronto proficuo.

Francesco si ispira al confratello gesuita Matteo Ricci che cinque secoli fa andò missionario in Cina come uomo del dialogo, attento all’incontro con le persone e rispettoso della cultura cinese. Per Bergoglio, come per padre Ricci, l’azione culturale e quella diplomatica devono procedere insieme, sulla base del rispetto.

Sembrano progressi piuttosto labili, ma, sotto sotto, c’è anche qualcosa di più concreto. Secondo il sito argentino Infobae, mai smentito dal Vaticano, l’anno scorso papa Francesco, attraverso emissari argentini, avrebbe fatto recapitare una lettera personale al presidente cinese XI Jinping.

Conterrebbe un invito formale a visitare il Vaticano e vi si parlerebbe della necessità di stabilire rapporti costanti (le relazioni diplomatiche si sono interrotte nel 1951) “per contribuire così alla presa di decisioni in modo multipolare per garantire un superiore grado di governance al servizio di una società planetaria più fraterna e con maggiore equità sociale”.

Durante l’incontro con gli emissari argentini Bergoglio avrebbe detto: “Io sono un clinico. Ho detto che desidero andare in Cina, ma sui temi dell’Asia il chirurgo è il cardinale Parolin”.

In effetti è così. E il “chirurgo” Parolin deve operare su diversi tavoli. Oltre a curare i rapporti con le autorità di Pechino, deve occuparsi della questione, alquanto spinosa, dei rapporti fra gli stessi cattolici cinesi.

Decenni e decenni di divisioni e di intricati legami con il potere politico hanno portato a una situazione alquanto complicata e confusa. Individuare interlocutori credibili non è semplice, mentre è facilissimo urtare qualche sensibilità.

Davvero per il “clinico” Francesco e il “chirurgo” Parolin l’operazione Cina è ancora tutta in salita.

Aldo Maria Valli è vaticanista di Rai1.

venerdì 13 marzo 2015

Iran: quello che sta succedendo sul fronte avversario

Accordo sul nucleare iraniano
Netanyahu e l’alternativa del fallimento del negoziato 
Riccardo Alcaro
05/03/2015
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Il discorso al Congresso del premier israeliano Benjamin Netanyahu è sopra ogni cosa motivo di sconcerto.

Che un capo di governo straniero, su invito del partito politicamente avverso al presidente, attacchi senza misure né contraddittorio, il presidente degli Stati Uniti, a casa sua, di fronte alle camere riunite del Congresso degli Stati Uniti d’America, lascia una sensazione di sottile turbamento. Vale così poco il prestigio della carica presidenziale della nazione ritenuta la più potente della Terra?

Netanyahu contro l’accordo sul nucleare iraniano
Tuttavia, è necessario domandarsi se le circostanze che hanno originato il discorso siano tanto straordinarie da renderlo, se non appropriato sul piano del protocollo, necessario sul piano politico.

Tralasciando il fatto che Netanyahu ha criticato un testo ancora in fase di negoziazione, gli argomenti del premier israeliano possono essere ridotti a due:
- L’accordo consente all’Iran di mantenere un’autonoma capacità di arricchire l’uranio, per quanto limitata e sotto stretta sorveglianza internazionale, concedendogli, in sostanza, di mantenere una tecnologia necessaria a produrre non solo materiale per reattori, ma anche per bombe.
- L’accordo ha una durata limitata nel tempo; dopo dieci o quindici anni all’Iran verrebbe concesso di aumentare le sue capacità di arricchire l’uranio su scala industriale; e che cosa gli impedirebbe di costruirsi un arsenale nucleare?

I 5+1 (Usa, Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia più l’Ue), ha sostenuto Netanyahu, dovrebbero lasciare il tavolo e chiamare il bluff degli iraniani che hanno bisogno di un compromesso più di quanto ne abbiano bisogno gli Usa, visto che in palio c’è la (progressiva) revoca delle sanzioni.

Per Netanyahu, l’unico accordo possibile è uno che costringa l’Iran a rinunciare all’arricchimento dell’uranio (o a mantenerlo in misura simbolica), una richiesta del tutto irricevibile per gli iraniani.

Invece che rincorrere i 5+1 offrendo loro maggiori concessioni è quindi più probabile Teheran li accusi di avanzare richieste eccessive e continui ad arricchire l’uranio.

Sanzioni sull’Iran
Chiunque conosce la questione sa benissimo tuttavia che la richiesta di rinunciare all’arricchimento è per l’Iran del tutto irricevibile. La vera alternativa proposta da Netanyahu è quindi l’assenza di un accordo e il fallimento del negoziato.

L’Iran deve continuare a sentire il peso delle sanzioni (che secondo lui dovrebbero essere mantenute a prescindere) e dell’isolamento internazionale.

Le sanzioni sono state però adottate per costringere l’Iran a trattare; se gli statunitensi facessero saltare il tavolo negoziale con richieste universalmente ritenute irragionevoli, quanto a lungo potrebbero mantenersi saldo il regime di sanzioni?

Ed in ogni caso le sanzioni possono avere inferto un danno all’economia iraniana, ma non hanno mai fermato il programma nucleare.

Tolta agli iraniani la chance di ottenere la revoca di almeno alcune delle sanzioni, che cosa li fermerebbe dal continuare a sviluppare il loro programma nucleare? E una volta raggiunta la ‘soglia critica’ oltre la quale l’Iran acquisirebbe capacità nucleari belliche, quale potrebbe essere la risposta di Usa e Israele, se non un attacco?

Eppure, nemmeno un attacco sarebbe risolutivo. Il Pentagono anni fa calcolò che al massimo rallenterebbe il programma nucleare iraniano di un paio d’anni o qualcosa di più.

E certamente a quel punto l’Iran non avrebbe più motivo per accettare ispezioni Onu sulle sue attività nucleari che con ogni probabilità verrebbero apertamente indirizzate ad uso militare. L’attacco sarebbe solo parzialmente efficace e al prezzo di avere ulteriormente destabilizzato il Medio Oriente.

Opzioni Obama e Netanyahu allo specchio
L’alternativa diplomatica dell’amministrazione Obama non è ideale. Ma è migliore di quella (non) proposta da Netanyahu.

L’Iran continuerà comunque ad arricchire l’uranio; nel caso di un accordo (opzione Obama), lo farebbe in modo molto limitato e sotto ispezioni Onu per dieci anni almeno e poi su scala più grande successivamente. Secondo l’opzione Netanyahu, l’Iran non avrebbe vincoli né incentivi ad accettare ispezioni più intrusive.

L’Iran avrà una capacità di arricchimento industriale prima o poi. Secondo l’opzione Obama, lo farà al termine di un processo almeno decennale durante il quale dovrà attenersi a standard di non-proliferazione molto stringenti. Secondo l’opzione Netanyahu, potrebbe espandere l’arricchimento su scala industriale a partire da domani.

L’Iran potrebbe sempre barare. Vero, ma con l’opzione Obama dovrebbe farlo avendo ispettori Onu sul terreno; secondo l’opzione Netanyahu, potrebbe arrivare a limitare al minimo le ispezioni. Più facile quindi scoprire l’inganno nel primo che nel secondo caso.

Il rischio di un confronto armato non è scongiurato. Ma nell’opzione Obama sarebbe comunque rimandato tra almeno dieci anni e, se davvero si arrivasse a tanto, nessuno potrebbe accusare gli Stati Uniti di non avere fatto di tutto pur di risolvere la questione diplomaticamente.

L’opzione Netanyahu invece avvicina il rischio di un attacco mentre ne riduce la legittimità internazionale.

Lo spettacolo di numerosi membri del Congresso che accolgono il premier di una nazione straniera quasi fosse un generale di ritorno da una guerra vittoriosa, facendogli largo al passaggio, affrettandosi a stringergli la mano, interrompendolo con applausi scroscianti dozzine di volte mentre attacca il loro stesso presidente, è ben poco edificante per il loro prestigio.

Che lo abbiano messo in scena di fronte ad argomenti tanto deboli è poco rassicurante riguardo alla loro capacità di giudizio.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello IAI e non-resident Fellow presso il CUSE della Brookings Institution di Washington.
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