Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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lunedì 23 dicembre 2013

Auguri


A tutti gli amici e lettori di questo blog



I più sinceri auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo

mercoledì 18 dicembre 2013

Thailandia: le proteste crescono


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La nuova ondata di proteste contro il Primo Ministro thailandese Yingluck Shinawatra è arrivata ormai alla seconda settimana ma è destinata nel weekend ad una breve tregua. I protagonisti degli scontri di piazza, le cosiddette “camicie gialle”, esponenti ultramonarchici e antigovernativi, hanno deciso di rispettare i festeggiamenti del compleanno del Re Bhumibol Adulyadej. L’interruzione sarà temporanea e la protesta riprenderà alla fine dei festeggiamenti, dopo la grande tensione accumulatasi a Bangkok negli ultimi giorni. Dall’inizio di dicembre i manifestanti hanno iniziato a scontrarsi con la forze di polizia che respingevano gli assalti ai ministeri. Le “camicie gialle” sono schierate contro il Pheu Thai Party del Primo Ministro e sono vicine al partito di opposizione Democratic Party. La causa scatenante dei tumulti è da rintracciarsi nella legge di amnistia voluta dal Premier e della quale beneficerebbe suo fratello Thaks! in Shinawatra. Questi è stato Primo Ministro fino al 2006 quando un colpo di Stato dei militari l’ha deposto; oggi è in esilio dopo una condanna per abuso e conflitto di interessi. I festeggiamenti del Re arrivano a placare temporaneamente anche le tensioni tra “camicie gialle” e i contromanifestanti delle “camicie rosse”, gruppo di pressione politica filo-Thaksin. Le “camicie gialle” però hanno annunciato che continueranno a protestare finché non solo la legge di amnistia verrà ritirata ma anche Yingluck rassegnerà le dimissioni in quanto considerata un fantoccio del fratello esiliato. L’intento è di rovesciare il grande potere del Pheu Thai Party che da solo ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento alle elezioni del 2011, dando maggiore fiducia all’esecutivo di Yingluck e accelerando la presentazione dell’amnistia.
i integrazione tra Federazione Russa, Bielorussia, Kazakistan e altri Paesi dello spazio post-sovietico(Fonte C.E.S.I)
 Chi non desidera questo post è pregato di scrivere a geografia2013@libero.it

lunedì 16 dicembre 2013

Orizzonti Cina: novembre 2013




  
Bentornati alla newsletter OrizzonteCina (ISSN 2280-8035)
Il numero di novembre tratta di:

• La politicizzazione della ricerca orientata alle politiche pubbliche

• Nuova procedura penale e cooperazione internazionale

• Ripresa in attesa delle riforme

• La degenerazione del modello di sviluppo

• I think tank in Cina: da “penne di partito” a “imprenditori di idee”?

• Lotta alla corruzione e cooperazione Cina-Europa. Intervista a Pino Arlacchi

(cliccando su numero di novembre si va agli articoli proposti. Chi non desidera questo post
è pregato di scrivere a geografia2013@libero.it. I commenti possono essere fatti sulla casella annessa a questo post: www.coltrinariatlanteasia.blogspot.com)

venerdì 13 dicembre 2013

Cina: tensione con Giappone e Stati Uniti per la ADIZ nel Mar Cinese Orientale

Cina
Cina 130
Le relazioni della Cina con Giappone e Stati Uniti vivono una nuova escalation di tensione. La causa è stata l’istituzione da parte di Pechino di una Zona di Identificazione per la Difesa Aerea (ADIZ) che, racchiudendo gran parte del Mar Cinese Orientale, si sovrappone alla Zona Economica Esclusiva (ZEE) del Giappone. Con l’ADIZ gli aerei che sorvolano l’area devono fornire i propri piani di volo all’autorità cinese, mentre il diniego di informazioni porta potenzialmente all’attuazione di contromisure militari. I piani difensivi cinesi però non sono scattati quando due bombardieri B-52 dell’Aeronautica Militare degli Stati Uniti hanno sorvolato l’ADIZ senza identificarsi. La mossa statunitense ha dato il via alla violazione dell’ADIZ anche da parte del Giappone e della Corea del Sud. La mossa cinese è una chiara provocazione rivolta al Giappone per quanto riguarda le dispute nel Mare Cinese Orientale: queste, infatti, compren! dono sia le isole Senkaku (chiamate Diaoyu dai cinesi) che il giacimento di gas di Chunxiao. Le rivendicazioni territoriali cinesi sul tratto di mare in questione hanno sempre trovato una reazione decisa da parte di Tokyo, coadiuvata da Washington, che anche stavolta non si è fatta attendere. Il braccio di mare conteso è strategico per Pechino, non solo perché è tra i più pescosi dell’Asia ed è un corridoio fondamentale dei traffici del Sud-est asiatico. Averne il pieno controllo porterebbe la Cina ad una maggiore influenza regionale e al contempo consentirebbe di allontanare ancor di più dalle sue coste la presenza della Marina Militare statunitense con le sue portaerei.

giovedì 5 dicembre 2013

Afganistan:Isaf deve rimanere fino alla fine

Missione Isaf
Il conto salato di un ritiro preventivo dall’Afghanistan
Claudio Bertolotti, Francesco Giumelli
25/11/2013
 più piccolopiù grande
In occasione del dibattito sul rinnovo del finanziamento alle missioni, sono state presentate due mozioni di minoranza, Sinistra Ecologia e Libertà (Sel) e Movimento 5 Stelle (M5s), che ripropongono la tradizionale richiesta del ritiro immediato del contingente italiano. Benché la posizione del governo e della maggioranza parlamentare sia del tutto diversa, queste mozioni alimentano nell'opinione pubblica aspettative e opinioni irrealistiche e forse anche politicamente dannose, che potrebbero complicare l'attuazione della strategia di progressivo disimpegno attualmente in corso.

Il tutto avviene a dispetto degli impegni presi a livello internazionale, della politica estera in generale e degli accordi bilaterali Italia-Afghanistan in particolare.

Caro prezzo
Mentre la Camera dei deputati sta discutendo il rifinanziamento delle missioni internazionali fino al 2013, questa proposta appare interessante se non fosse che l’Italia ha già annunciato il suo ritiro dall’impegno “operativo” dopo le elezioni per il successore del presidente Hamid Karzai.

Il ritiro, previsto per il dicembre 2014, si inserisce in un quadro già concordato con gli alleati Nato, anch'essi in fase di disimpegno che prevede già la riduzione del contingente italiano con il rientro di 486 militari italiani a dicembre. Anticipando il ritiro solamente di alcuni mesi si dovrebbe pagare un prezzo molto alto.

Isaf (ad oggi 87 mila unità) vede la partecipazione di quasi cinquanta nazioni. Dal 2007, la Nato ha diviso la presenza di Isaf in sei comandi regionali al fine di contribuire al ristabilimento delle istituzioni statali e sostenere i circa 27 Provincial Reconstruction Team, la cui attività riguarda ad esempio la costruzione di strade, scuole e ospedali. L’Italia è responsabile della Comando occidentale, al confine con Iran e Turkmenistan, e l’intera area di competenza italiana è composta da quattro province.

Transizione
In previsione di concludere la fase “combat” entro il 2014, i comandi regionali hanno iniziato la transizione dei poteri alle forze di sicurezza locali. Il piano è diviso in cinque tranche e i tremila soldati italiani hanno già ceduto la responsabilità della sicuezza dell’87% della popolazione locale e dell’80% del territorio che controllavano nel 2010 (che dovrebbe diventare quasi il 100% entro fine anno).

Questo processo di responsabilizzazione delle autorità locali è stato voluto principalmente dall’amministrazione Obama, che nel 2009 ha deciso di inviare 33 mila nuove truppe in Afghanistan e allo stesso tempo di programmare il ritiro della quasi totalità del contingente americano tra il 2011 e dicembre 2014.

Nel 2015 dovrebbe prendere il via la missione Resolute Support della Nato, un impegno militare limitato e concentrato su addestramento ed equipaggiamento delle forze afgane - ma sufficiente per intervenire a loro sostegno - con il mantenimento di nove basi e l’istituzione di cinque comandi assegnati a Stati Uniti (aree meridionali e orientali), Germania (area settentrionale), Italia (area occidentale) e Turchia ( distretto di Kabul). I dettagli della missione sono proprio al centro di colloqui fra l’amministrazione americana ed il governo di Hamid Karzai nell’ambito di un programma strategico pensato sul piano della politica estera. L’opposto di quello che potrebbe discutere il Parlamento italiano.

Sfide
Andare via in questo momento presenterebbe tre sfide cruciali. In primo luogo metterebbe in discussione la credibilità dell’Italia nell’Alleanza atlantica. Roma ha partecipato alla missione fin dall’inizio ed è oggi uno dei paesi più rilevanti in Afghanistan. Violare gli accordi bilaterali con lo stesso governo di Kabul sarebbe un duro colpo dato ai nostri alleati.

Vi è poi una sfida tattica. Che cosa accadrebbe alla transizione in corso nelle province ancora controllate anche dalle forze italiane? Queste province hanno tuttora forti problemi legati alla sicurezza. Abbandonarle significa fare una cortesia ai gruppi di opposizione armata, vanificando gli sforzi fatti negli ultimi anni.

La terza sfida riguarda la tempistica del ritiro. Per portare a casa i nostri militari non basta comprare loro un biglietto aereo. Il ritiro coinvolgerebbe uomini ed equipaggiamenti accumulati in dodici anni di missione. Tutto questo deve essere fatto in sicurezza, perché attaccare contingenti militari che stanno facendo le valigie sarebbe un ottimo colpo per le forze che intendono destabilizzare la transizione e la legittimità del governo centrale.

In queste condizioni è difficile pensare che esistano i tempi per completare un ritiro prima della data prefissata.

Le forze di sicurezza afghane registrano oggi in media cento caduti al giorno. Nel breve termine, questa situazione lascia presagire uno scenario molto più prossimo a un collasso del governo di Kabul che non a una condizione di stallo dinamico, così come attualmente garantito dalla presenza di truppe straniere sul suolo afghano.

Gli Stati Uniti hanno studiato un piano di cinque anni per lasciare l’Afghanistan, la proposta presentata da M5s e Sel lo vorrebbe fare in poche settimane. M5s e Sel propongono di andarsene per risparmiare alcuni milioni di euro (molti meno dei 124,5 stanziati dal decreto per la missione Isaf ai quali andrebbero sottratti quelli per il ritiro), ma al prezzo di costi umani, sociali e politici di valore estremamente superiore al risparmio economico.

A pagare l’immaturità di questa eventuale scelta sarebbero gli afghani e la comunità internazionale. Le truppe straniere - e tra queste anche l’Italia - dovrebbero lasciare l’Afghanistan dopo aver contribuito a creare adeguate forze di sicurezza locali in grado di garantire la prosecuzione dei progetti avviati e gestire la conflittualità.

Francesco Giumelli è assistant professor presso il Departmento di Relazioni internazionali e organizzazione internazionale dell’Università di Groningen. Al momento lavora sull’efficacia delle sanzioni dell’Unione Europea e sulle missioni internazionali dell’Unione Europea.
Claudio Bertolotti (Ph.D) analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi strategici e docente di "società, culture e conflitti dell'Afghanistan contemporaneo", è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. Opinionista, autore di saggi, analisi e articoli di approfondimento sul conflitto afghano
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martedì 3 dicembre 2013

Kasakistan: Religioni, etnie e civiltà. Conferenza IsAG 10 dicembre 2013


l'Istituto in Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) è lieto d'invitarvi alla conferenza Religioni, etnie e civiltà nel Kazakhstan contemporaneo, che si terrà martedì 10 dicembre 2013, alle ore 16.00, presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani del Senato della Repubblica, in Via della Dogana Vecchia 29, a Roma.

La Repubblica del Kazakhstan, che ha acquisito l’indipendenza nel 1991 in seguito alla dissoluzione dell’URSS, è uno dei Paesi più variegati del mondo sotto il profilo della composizione nazionale e religiosa: sul suo vasto territorio si contano infatti oltre 130 gruppi etnici e 40 confessioni all’interno di una popolazione di circa 16 milioni di abitanti. La strategia perseguita per governare su una realtà così eterogenea si è concretizzata nell’adozione di una serie complessa di principi generali e di provvedimenti legislativi che sono stati riconosciuti tra i più riusciti al mondo riguardo alla convivenzainterculturale.

L’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausialiarie (IsAG) organizza una tavola rotonda per discutere approfonditamente di questa tematica. Nel corso dei lavori sarà presentato il volume L’unità nella diversità. Religioni, etnie e civiltà del Kazakhstan contemporaneo, a cura di Dario Citati e Alessandro Lundini, frutto di un lavoro collettaneo dei ricercatori IsAG, corredato di documenti originali kazaki tradotti in lingua italiana e di un’intervista inedita.

Il programma completo in formato PDF può essere consultato cliccando qui.

Interverranno alla conferenza, tra gli altri, S.E. Andrian Yelemessov, Ambasciatore del Kazakhstan in Italia, e la Sen. Stefania Giannini.

Per partecipare all’evento è necessario registrarsi scrivendo all'indirizzo eventi@istituto-geopolitica.eu., indicando nome, cognome, indirizzo e-mail di ciascun partecipante. Gli operatori dell’informazione (giornalisti e fotografi), in aggiunta all’iscrizione, sono tenuti a comunicare la propria presenza all’indirizzo accrediti.stampa@senato.it. L’accesso alla sala è consentito fino al raggiungimento della capienza massima. Per gli uomini è d’obbligo l’abbigliamento in giacca e cravatta. Non saranno accettate iscrizioni dopo le ore 12 del giorno 9 dicembre.


Daniele Scalea
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L'accesso alla Eventi – IsAG è gratuito. Si prega di farla circolare e diffondere ampiamente. Lei ne ben

domenica 1 dicembre 2013

India: lotte Spectrum


India | Cellulari | Le aziende di più


La decisione del governo indiano di abbassare i prezzi di base per un cruciale asta di spettro cellulare, prevista per gennaio 2014, si conclude mesi di incertezza per le società di telecomunicazioni in India, ma diverse decisioni cruciali sono stato rinviato.
Il 22 novembre, il gruppo di potere del governo di ministri (EGoM) ha preso una decisione definitiva ad abbassare i prezzi di riserva per la prossima asta sostanzialmente, rispetto a quelli in due turni d'aste precedenti. Dopo le rivelazioni nel novembre 2010, che un'asta 2008, che ha assegnato le licenze di telecomunicazioni e legato spettro 2G è stato afflitto da una truffa con sospetto di corruzione, volutamente prezzi bassi e numerose irregolarità procedurali, nel febbraio 2012, la più alta corte indiana, la Corte Suprema, ha cancellato 122 del originali licenze 2008. Come risultato, molte aziende chiuse in tutto o uscivano alcune delle 22 aree di servizio di telecomunicazioni in India (chiamato cerchi). La Suprema Corte ha anche ordinato al governo di mettere all'asta l'intero spettro liberato dalla cancellazione di queste licenze.
Fallimenti passati
Di conseguenza, il governo ha tenuto due aste, a novembre 2012 e marzo 2013; punto da accuse che aveva perso ricavi preziosi attraverso la truffa, ha fissato i prezzi di riserva elevati per entrambi. Tuttavia, molti operatori telefonici rifiutato di partecipare, dicendo che i prezzi non giustificano un business case per l'offerta, soprattutto perché erano già affrontando una forte competizione, indebitamento crescente, i margini di scorrimento e il calo dei ricavi medi per cliente. Nel primo novembre 2012 asta, dunque, il governo ha ricevuto offerte per solo 101 dei 176 blocchi che all'asta e meno di un quarto dei ricavi attesi. L'asta marzo 2013 era peggio: nonostante l'abbassamento del prezzo di base per i blocchi rimanenti del 30%, ha ricevuto nessuna offerta a tutti per lo spettro GSM, anche se una società, Sistema Shyam Teleservices, ha acquistato frequenze nella banda 800 MHz separato utilizzato da CDMA operatori.
Sono prezzi abbastanza basso?
Il governo è ancora legato per ordine del giudice per completare il processo d'asta, ed è anche desideroso di puntellare le finanze pubbliche vacillanti con nuove entrate. Se le aziende si rifiutano di partecipare, il governo rinuncia a entrate di grandi dimensioni, qualcosa che non può permettersi di fare ciò che si destreggia rallentamento della crescita del PIL e un alto deficit fiscale. Dal mese di marzo, quindi, quattro diversi organismi, tra cui il EGOM hanno esaminato la questione chiave dei prezzi per la prossima asta.
Nel settembre 2013, regolamentazione delle telecomunicazioni in India, l'Autorità per le telecomunicazioni of India (TRAI) ha raccomandato una serie di prezzi inferiori fino al 60% rispetto a quelli in aste precedenti. All'inizio del mese scorso, Telecom Commissione del governo in disaccordo con la TRAI, proponendo i propri prezzi. Il EGOM ha concordato con la Commissione Telecom, raccomandando un prezzo tutto l'India riserva Rs17.65bn (US $ 283m) per MHz dello spettro per la banda di frequenza di 1.800 MHz utilizzata per i servizi di telefonia mobile di base, il 15% in più rispetto raccomandazione di TRAI. Per i più efficienti e ambita fascia 900MHz, che sarà venduto solo in tre zone principali di Delhi, Mumbai e Kolkata, la EGOM consigliato un prezzo di riserva di Rs8.13bn. Che è del 25% superiore al prezzo suggerito al TRAI, ma ancora il 53% inferiore a quello dell'ultima asta.
Industria piange fallo
Anche se questo offre qualche sollievo al settore, una grande denuncia arriva da aziende che hanno acquistato spettro a tassi elevati nelle aste precedenti, tra cui Videocon Telecommunications, Telenor in Norvegia, Idea Cellular, e Sistema Shyam, la cui scelta è stato quello di partecipare o chiudere le operazioni, poiché i loro titoli sono stati tra quelli annullati dalla Corte Suprema. Videocon, per esempio, ha detto che ha pagato un Rs22.22bn esorbitante per lo spettro in sei cerchi in quanto aveva già investito oltre US $ 2 miliardi nella sua attività e sarebbe stato costretto a chiudere, senza spettro. Allo stesso modo, Idea Cellular ha acquistato spettro in sette cerchi in quanto aveva già investito Rs51bn nella sua attività. Queste aziende sottolineano che i nuovi prezzi confermano solo che i prezzi precedenti erano troppo elevato e che ora fatica a sopportare tali costi, mentre in competizione con coloro che pagheranno molto meno. Per livellare il campo, vogliono il governo a rimborsare loro la differenza tra quello che hanno pagato nel mese di novembre e gli eventuali prezzi pagati nel mese di gennaio 2014 un'asta di.
Nonostante queste lamentele, l'asta è improbabile che fallire, dal momento che tutte le aziende hanno fame di spettro per sostenere la crescita. Gli analisti dicono che la forte concorrenza per lo spettro, almeno in ambito banda 900 MHz nei mercati in crescita di Delhi e Mumbai, potrebbe guidare i prezzi finali non del 30-40% superiori ai prezzi di riserva. Controllo scarso spettro in questi due mercati è fondamentale, dal momento che rappresentano il 11% dei ricavi totali di telecomunicazioni in India e il 14% e il 20% dei ricavi rispettivamente di India due più grandi società di telecomunicazioni Bharti Airtel e Vodafone.
Alcune aziende hanno un altro motivo per fare offerte in modo aggressivo. Licenze originali di Vodafone a Delhi, Mumbai e Kolkata e Airtel di a Delhi e Kolkata e Loop Telecom a Mumbai, tutte scadono nel mese di novembre 2014. A quel tempo, devono tornare al governo lo spettro di accompagnamento fino a 8 MHz che siano in possesso entro la banda 900 MHz in queste tre città. Poiché la EGOM ha respinto la loro richiesta di riservare spettro per loro, devono fare offerte in asta prossimo per mantenere spettro anticipo rispetto alla scadenza della licenza. Rischiano di perdere il loro spettro del tutto se sono superata da altri, un incentivo per fare offerte in modo aggressivo.
Le decisioni importanti rinviate
Il EGOM anche deciso di consentire alle imprese di commercio spettro tra di loro per la prima volta, e non solo l'acquisto di spettro in aste governo, una mossa di benvenuto.Tuttavia, il EGOM rinviato decisioni su diverse importanti questioni in sospeso. In primo luogo, nel mese di settembre 2013, la TRAI aveva raccomandato che lo spettro 800 MHz utilizzata dai giocatori CDMA non mettere all'asta affatto dato il basso interesse per la tecnologia CDMA, e ha chiesto al governo di prendere in considerazione destinando parte di quella banda per i servizi GSM. Questo è stato un duro colpo per CDMA e doppia tecnologia operatori come Sistema Shyam, Reliance Communications e Tata Teleservices perché sarebbe tagliare la disponibilità del nuovo spettro per la crescita. In un raggio di speranza, il EGOM ha chiesto al TRAI di raccomandare i prezzi di vendita all'asta dello spettro a 800 MHz. In secondo luogo, il governo attualmente riscuote una tassa uso dello spettro (SUC) tra 3-8% del reddito lordo rettificato, a seconda di quanto lo spettro di una società detiene. Il TRAI ha proposto di sostituire questo con una tassa del 3% pianeggiante, beneficiando società di telecomunicazioni più anziani che detengono più lo spettro, ma la EGOM rinviato una decisione su questo. Infine, ha preso alcuna decisione sulla questione cruciale delle linee guida definitive per le fusioni e acquisizioni telecomunicazioni, urgentemente necessaria per consentire all'industria di consolidare.
27 novembre 2013
Fonte: The Economist Intelligence Unit
(chi non desidera ricevere questo post lo comunichi a geografia2013@libero.it

sabato 23 novembre 2013

Iran: approccio francese al problema nucleare scita

Negoziato sul nucleare
Virata della Francia sull’Iran
Jean-Pierre Darnis
15/11/2013
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L’intervento a gamba tesa con cui il ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, è entrato nelle trattative sul nucleare iraniano ha creato scompiglio in un negoziato dominato fino allora dagli americani.

Rendendo esplicite alcune riserve occidentali sul reattore ad acqua pesante di Arak, Fabius ha di fatto vanificato il clima di compromesso delle ultime settimane. I sostenitori della linea dura, Israele o falchi americani in testa, si sono congratulati con Parigi, apparsa come baluardo dell’intransigenza occidentale e molti commentatori non hanno esitato a parlare di una virata neo-con dei socialisti francesi.

Alleato riluttante
Fa sorridere pensare che nel 2003 la stessa Francia era la bestia nera degli Stati Uniti per la sua opposizione all’intervento in Iraq. Certo, all’epoca alla guida della diplomazia transalpina c’era Dominique de Villepin, oggi c’è Laurent Fabius.

Lo stile si sarà evoluto, non abbiamo più il lirismo del ministro-scrittore, ma la visione è rimasta la stessa. La Francia rivendica la sua autonomia di giudizio, confermandosi un “alleato riluttante” (reluctant ally), come la definiscono gli analisti statunitensi. A muoverla è, in realtà, un calcolo razionale.

È da mesi che Parigi difende il campo sunnita nell’ambito del conflitto siriano. La Francia aveva maturato la determinazione ad intervenire in Siria sia per motivi interni - la volontà di aiutare i siriani ad autodeterminarsi - che per motivi esterni - la volontà di apparire come un “security provider” affidabile per le petro-monarchie del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa.

Lezione
La Francia ha vissuto come un tradimento lo stop statunitense all’intervento nel conflitto siriano, ma, incapace di agire da sola, ha dovuto ingoiare il rospo e oggi non è disposta a fare sconti alla diplomazia statunitense. Sentendosi esclusa dalle trattative in corso, ha scelto di smuovere le acque anche per far sentire la propria voce.

È anche un’ottima occasione per mostrare agli amici del Golfo, economicamente strategici, che Parigi rimane il loro campione nella zona, Fra gli effetti collaterali, questo stop è gradito anche a Israele. Non che questo sia un obiettivo centrale della politica estera francese, ma può tornare sempre utile.

Fornitrice di tecnologia ai tempi dello Shah, la Francia vanta una buona conoscenza tecnica del dossier nucleare iraniano. Il suo parere in materia è certamente fondato. Ma, al di là dell’expertise, c’è un problema di posizionamento a medio e lungo termine. Nel corso della storia, la Francia è stata spesso vicina all’Iran, come dimostra l’alleanza franco-persiana del 1807.

Certamente il rapporto con l’Iran risponde a una dinamica culturale e politica più complessa rispetto a quella con i regimi arabi sunniti della regione. Oggi, la Francia sceglie di puntare tutto sul Golfo ma, mettendo a repentaglio il negoziato con l’Iran, rischia di ripetere l’errore commesso recentemente quando ha chiuso la porta dell’Unione Europea alla Turchia.

Limiti
Ci si potrebbe chiedere se la politica estera francese non stia raggiungendo un pericoloso limite. Certamente la missione Serval in Mali è stata un successo militare: concludendo il ciclo interventista Sarkozy-Hollande, ha illustrato le capacità del paese di svolgere in modo quasi autonomo un’operazione limitata, ma anche ad alta intensità di combattimenti in Africa.

La credibilità militare francese si è molto rafforzata: in assenza del Regno Unito, Parigi sembra l’unica capitale occidentale, dopo gli Stati Uniti, capace di proiettare forze. Se ne giovano sia la sua posizione in Africa sia il suo rapporto con Washington. La normalizzazione della politica africana francese attuata da Hollande sta avendo tra l’altro effetti positivi, facendo uscire Parigi dal cono d’ombra di una politica neo-coloniale di lunga data.

Pericolosi segnali vengono però dal fronte interno. Il bilancio della difesa è sotto tiro e il ministero del Tesoro si oppone a fare nuovi debiti per finanziare le missioni estere. La Francia potrebbe quindi essere costretta a ripiegare le ali a causa delle ristrettezze finanziare. Il generale De Gaulle, amava dire “l’intendance suivra!”, ovvero la politica andrà avanti senza preoccuparsi delle risorse, ma ciò è oggi difficilmente concepibile.

Hollande in crisi 
Siamo davanti a una grave crisi economica e politica e la presidenza Hollande sta annegando in un profondo marasma. Il presidente della Repubblica non riesce, o non vuole, imporre un riformismo interno che possa far recuperare alla Francia margini economici in Europa, mettendola in condizione di esercitare nuovamente un ruolo propositivo con la Germania.

Parigi oggi è tenuta sotto schiaffo da Berlino. Anzi, Berlino sta trattenendo gli schiaffi per non indebolire la zona euro, il che è quasi peggio. Il modello presidenziale francese ha raggiunto limiti fisiologici. L’idea gollista che un uomo solo possa reggere le sorti della nazione, è oggi largamente superata dalle nuove forme di governance europea e mondiale.

È in questo contesto che il qualunquismo dell’estrema destra sta guadagnando terreno. Uno spauracchio per le prossime elezioni al parlamento europeo. La Francia rischia l‘involuzione.

L’attivismo internazionale francese non deve pertanto trarre in inganno. Non siamo davanti a un’affermazione di rinnovata potenza, ma a una partita a scacchi nella quale si possono muovere ancora pedine, almeno fino a quando potranno sostenersi i costi di queste mosse.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e responsabile di ricerca dell’Area sicurezza e difesa dello IAI (@jpdarnis).
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venerdì 22 novembre 2013

Диана Къдринова

Голямата игра и сложните равновесия на Кавказкия регион. Трудните взаймотношения между Армениа и Азербайджан. ”Замразеният” конфликт за контрола над Нагорни-Карабах


Голямата игра и сложните равновесия на Кавказкия регион.
Кавказкия регион и региона на Каспийско море са характеризарини от политическа нестабилност и от край време са център на териториални спорове под натиска и прицела на разпростиращи се власти. В резултат и на връждебно обкръжение, което традиционно по слабите актиори, обкръжени от по-силни и амбициозни образувания, не могат да контролират. Всъщност държавите от региона, поради географското им положение, стратегическата им позиция и ресурсите, с които разполагат се явяват, като жертвени елементи в едно по-голямо противоборство. Те са част от системата на баланса на силите. Регион на тъй наречените Буферни държави. Всички тези елементи превращат тази област в театър на една „голяма игра” на противоположни интереси на отделните сили: Русия, Турция, Иран, Съединените щати, ЕС.
С разпадането в края на ХХ век на социалистическата система, а след това и на Съветския съюз, основаването на новите държави позволява едно по-голямо етническо единство, но и създва предпоставките за напрегнатото положение с мълцинствата. Конфликтите между отделните етнически групи от СССР, който датират от ХIХ век, са подпалени отново след разпадането му.
Разпадането на СССР разрушава изградената през вековете огромна буферна зона, обхващаща почти половин Европа и част от Азия, която защитава Руската (Съветската) империя. Русия е лишена от буферния щит и това открива и прави уязвими новите й граници. Буферните зони, които Москва губи в Източна Европа и дори някои страни от ОНД, постепенно преминават под контрола на НАТО и европейските интеграционни структури. Бившите съветски републики по границата с Руската федерация запазват ролята си на буферни държави, но вече с други военнополитически приоритети. Геополитическите субекти, които не притежават необходимите ефикасни възможности за завоюване и за задържане на територии, губят контрол над геополитическото пространство.
Тези държави се отличават с иманентна нестабилност, корумпираност на държавния апарат, ниско жизнано равнище на основната част от населението и отсъствие на позитивни жизнени перспективи. Подобни държави често са жертва на жестоки диктатури или се превращат в база на различни полулегални, нелегални и криминални организации с разнороден характер. В условията на глобализация обаче те са опасност за международната сигурност, с оглед лекотата, с която стават източник и арена на конфликти, или обект на манипулация и/или удобна база за мездународен тероризъм и престъпност.
Ситуацията е усложнена от политическите и икономическите интереси на редица други държави и международни участници, които придобиват голямо значение за определянето на геополитическия и геоекономическия баланс в региона. Старите и новите Сили са в търсене на нов баланс, труден в свойто определение и постигане. От една страна, Армения, Азербайджан, Грузия, не могат да бъдат напално независими от Русия; тя е от съществено значение и продължава да влияе върху политиката и икономиката им. От друга страна те търсят нови съюзници. След разпадането на Съветския съюз се създава празнота във властта  в целия регион, поне до 1993 г. Това се дължи и на трудния преход от съветската към руската държавност, на контрастиращите  насоки на външната й политика, неспособна да поддържа свойте интереси (през целия период на управление на Елцин). Така поредица от противоречиви сили и напрежения  довеждат до дестабилизацията на целия регион на Кавказ. Центробежни сили, които създават трудности и не позволяват да се разрешат проблемите, водят до нестабилност и несигурност в цялата област.
Русия, почувствала се маргинализирана в последните години, е нетърпелива в желанието си за контрол на деликатната ситуация в региона на Кавказ, и има за задача: да предотврати създаването на празноти, който могат да бъдът запълнени от нейните съперници; да поддържа своята териториална цялост, удържайки желанията и борбите за независимост в Кавказ, които ако не се контролират, биха предизвикали ефекта на доминото; да поддържа и да възвърне частично загубената сфера на влияние, поддържайки цялостни интересите си върху ресурсите и транспорта на газ и нефт; да контролира ислямския фундаментализъм  в близост до нейните граници. Русия би могла да използва нерешения спор за Нагорни-Карабах като дестабилизиращ фактор срещу анти-руската политика на Азербайджан и Грузия ( и двете под крилото на американците и турците). Но трябва да се добави, че възобновяването на военните действия в Нагорни-Карабах не е необходимо на Русия към момента, тъй като вече е загубила част от доверието си във войната срещу Грузия, и тъй като вече се радва на силно влияние в региона. Може би запазването на статуквото изглежда най-удобно за момента. Русия подкрепя арменската позиция, но  знае, че тази позиция не може да бъде постигната без още един въоръжен конфликт, който вероятно не би довел до мирно разрешаване на спорове. Освен това Москва е притеснена от възможния ефект на доминото, които би могъл да последва след признаването на Нагорни-Карабах за независима държава. Ефект, от които се страхуват и Турция и Иран.
Турция (сунити) и Иран (шиити) може да се считат за антагонисти поради претенциите им за контрол над региона и защото представляват два напълно различни социално-културни модели. Между двете определено турският модел, светски и прозападен, е този, който страните в областта предпочитат, решени да ограничат и да "заобиколят" Русия. (Турция е основният съюзник на чеченските сепаратисти).
Нито една от тези три страни не желае укрепването на Азербайджан, основно "бойно поле" между  трите:  Русия, Турция и Иран. Иран се опасява, че създаването на стабилна и силна азербайджанска държава, ще събуди 25-те милиона иранци от азербайджански етнос, които мечтаят за "Велик Азербайджан".
Турското правителство не е взело ясни позиции по отношение на Нагорни-Карабах срещу арменците, отношение изтълкувано като предателство спрямо Азербайджан. Въпреки че между трите Турция е най-близка, политическо и военно, до Азербайджан, (заедно със САЩ).
САЩ се опитва да наложи своите интереси и тези на мултинационалните петролни компании, главно американска собственост, с цел премахване и дискредитиране на руските амбиции и същевременно да удържи геополитическото влияние на Иран в региона.
За разлика от регионалните сили, за Съединените щати, които насърчават идеята за "Велик Близък изток", промяна в статуквото в Кавказ би могло да представлява интерес за тях. Според азербайджански експерти, американците биха могли да бъдат заинтересовани от един "Blitzkrieg" в Карабах. Нещо, към което и двата пряко ангажирани играчи (Армения и Азербайджан) не се стремят, изисквайки по-решително действие от страна на „силите” за разрешаване на споровете.
Стратегическите и икономическите интереси, които Кавказ представлява за външните сили, му отдава първостепенно значение в международния геополитически контекст.
С края на Студената война и трансформирането на НАТО, се открива перспективата държавите от тази област да се свържат с Атлантическия алианс и Европа, възползвайки се от отслабената хватка на Москва. Площта е с жизненоважно значение за западните интереси, които трябва да се справят с тези на противоречивите съседни сили, които постепенно си възвръщат  влиянието: Руската федерация, Турция и Иран.
С падането на Берлинската стена, което слага край на двуполюсния свят, в Кавказ и Каспийско море се дава старт на игра, която ще влияе на международните равновесия  за дълго време. Именно наличието на големи количества енергийни ресурси и поради  стратегическата позиция на региона, особено що се отнася до енергийния транзит, са причини за прякото участие на регионалните и световни сили. Това е историческото минало и съдбата на региона домакин на "Голямата игра", който трудно ще намери своя баланс.

Трудните отношения между Армения и Азербайджан. Замразеният конфликт за контрола на Нагорни-Карабах.
Като се има в предвид сложните баланси и конфликти на интереси и борби за надмощие в региона ( обхващащи всички въпроси свързани с различните динамики в рамките на областта и техните последици, директни и не, последици, които атакуват вътрешната стабилност и нарушават вътрешния и външния баланс) ще анализираме конкретен случай на замразен конфликт в региона. Нагорни-Карабах е регион, оспорван между Армения и Азербайджан. Арменският анклав на Азербайджанска територия е класически пример, където отделните интереси и създаването на "съюзи" дестабилизират региона, без да се достигне до конкретно решение на споровете,   нерешени и до момента, между Азербайджан и Армения.
Азерите, готови да признаят независимостта на Нагорни-Карабах, претендират за правото да се върнат на земята, която те смятат за собствена, настоявайки сънародниците им, изгонени от територията на Нагорни-Карабах (около 900 000) след конфликта,  да се върнат  и арменските окупационни сили да се оттеглят. Арменците не дават признаци, че искат да стигнат до компромис, нито имат намерението да възстановят  дори малка част от  териториите на азербайджанците. Армения иска да присъедини Нагорни-Карабах, или поне тя да бъде обявена за втора арменска държава (пр. Косово). Очевидно е, че Азербайджан не би могъл да приеме тези искания. От 1994 текат преговорите за разрешаване на конфликтите и все още нищо не е постигнато (от 2009 г. – ОССЕ-е последното предложение, прието от Азербайджан, но отхвърлено от Армения ).
Двадесет години са изминали от независимостта от Майка Русия, но тези млади държави все още не съумяват да постигнат стабилност.
Историята на тези републики е белязана от сложни епизоди от голямо геополитическо значение, такива които разклащат деликатното равновесие в региона на Кавказ. Те още преди тяхната независимост, през 1991 г., се оказват център на един горчив конфликт за контрола над региона на Нагорни-Карабах. Конфликтът довежда Ереван и Баку до война от 1988 г. до 1994 г., с повече от 40000 жертви и до ситуация на застой с чести турбуленции.
74% от жителите на самопровъзгласилата се република на Нагорни-Карабах, призната единствено от Армения, са от арменски етнос и християнска вяра, и виждат натиска на правителството на Баку като една постоянна заплаха (Азербайджан не е признал независимостта на тази малка площ, и я счита за неразделна част от страната). Присъстващото азербайджанско малцинство, от мюсюлмани и про-турци, гледа на Азербайджан като на единствена надежда да не бъде окончателно хвърлено в обятията на Армения. В действителност, Нагорни-Карабах е независим и самостоятелен, но погледът му е насочен към Армения, от която той получава помощ и подкрепа.
Населениета и на двете територии са привързани към техния произход и към собствените си земи, но заявяват различия спрямо взаимоотношенията Aрмения - Kарабах. Арменците считат Карабах за тяхна провинция, смятайки я за тяхна свещена земя. Населението на Карабах се чувства автономен субект, приятел и близък на Армения, но не и арменски а още по-малко азербайджански.
Както азербайджанците, така и арменците твърдят, че произхождат от този район: азербайджанците твърдят, че първите църкви са били построени от кавказки народ с албански произход, от който произхожда азербайджанската народност; арменците, оспорвайки този аргумент, доказват съществуването на древно арменско християнско царство по тези земи.
С ислямизацията на част от региона,  религиозният контраст  влошава вече етнически сложната и враждебна реалност.
Населен с турци и арменци, още от древни времена, Нагорни-Карабах след война за завладяване от руския Цар, става част от Руската империя. Христянските арменци и „потурчените” азербайджанци живеят заедно редувайки периоди на мир и насилие.
През 1920 г. Октомврийската революция води до преобразяването на границите, обявябайки, региона на Нагорни-Карабах, въпреки арменското мнозинство, за автономен в рамките на Народната Република на Азербайджан.
През 80-те години отношенията между арменци и азербайджанци се влошават,  довеждайки до тежки сблъсъци, които довеждат до бягството на азербайджанците от Карабах и на арменците от Азербайджан. С разпадането на СССР през 1991 г., Нагорни-Карабах се обявява за независима република, но без да получи никакво международно признание. Избухва война, населението на Карабах, подпомагано от арменците, побеждава своите съперници, изгонва азербайджанците и създава свързваща зона между Армения и Нагорни-Карабах. През 1994 г. се прекратява огъня, и благодарение на руснаците, този регион преминава в ръцете на населението на Карабах от арменски пройзход.
До ден днешен никакво споразумение не е постигнато. В момента Армения е окупирала военно около 18% от азербайджанската територията и няколко гранични инциденти са причина за затварянето на арменските граници с Азербайджан и Турция (със сериозни икономически последствия).
Появят се надежди за мир през 2001 г., когато изглежда, че има сближаване на отношенията между двете страни при двустранните срещи между двамата президенти (Kочарян и Алиев). Преговорите, обаче не довеждат до никакви резултати. През 2006 г. референдумът, който провъзгласява Нагорни-Карабах за суверенна държава, е обявен за невалиден от Азербайджан. Очевидно е, че в момента трудно би се стигнало до подобрение в положението чрез признаването на границите и на правата в тази област. Всъщност, запазването на статуквото е желателно поради страха на международната общност, че признавайки официално Нагорни-Карабах, биха могли да се натъкнат на чувствителни въпроси за международното право. Признание, което би могло да предизвика верижен ефект, водещ до искания за независимост от други анклави в областта. Една война вероятно би довела до ефекта на доминото в крехкия и деликатен Кавказ, обект на големи стратегически и енергийни интереси.
Интересите в този бурен участък са многобройни и сложни. Регионът на Кавказ винаги е бил кръстопът на международни геополитически съдби. По време на арменско-азербайджанския конфликт, турците, иранците, афганистанските муджахидини и чеченските мюсюлмани помагат на азербайджанците, които обаче не успяват да победят арменските войски, които от региона на Нагорни-Карабах, подкрепени и въоръжени от Москва, успяват да запазят контрола над територията. САЩ и ЕС остават сравнително мълчаливи. Вашингтон търси силен съюзник в региона, с цел анти-Иран и противопоставяне на експансионизма на Русия. Азербайджан, и чрез военните си бази, може да се използва като мост към Техеран и като „спирачка” на  Москва. Петролопровода Баку-Тбилиси-Джейхан, подкрепен главно от САЩ, показва ясното влияние с инвазивен характер върху азербайджанската външна политика, също както и проектът "Набуко". От своя страна Армения, на фона на противоречия и неясноти, гледа отново към Кремъл. Армения и Русия от години провеждат съвместни военни учения.
Настоящата политическа ситуация в света е характеризирана от напрежение и от все по-силни политически и икономически съперничества между Иран, Турция, Русия и Съединените щати.
Армения има тесни политически и икономически връзки с Иран и с Русия. Азербайджан - с Турция, Грузия и САЩ, които играят ключова роля за реализирането на петролопровода БТД, който минава през Азербайджан, заобикаляйки Армения, обогатявайки го и позволявайки му да реинвестира по-голямата част от приходите в оръжия. Затворени граници, социални напрежения и прекомерни военни правомощия, въздействат негативно върху развитието на региона, принуждавайки и двете правителства да използват част от техния БВП за военни разходи, а не за инфраструктура.
Сложна ситуация, която прави сложно икономическото и социално развитие на страните от региона, накарнявайки тяхната стабилност и образ, в една „мешавица” от сепаратизми и разпространябаща се незаконност, които се подхранват един друг и които включват многообразие от участници, интереси и претенции. Ситуация на конфликти и напрежение, която трудно ще отстъпи място за трайно решение на проблема, докато въпросните участници определят динамиките и действат като посредници.


mercoledì 13 novembre 2013

Arabia Saudita
Arabia Saudita 126
La settimana scorsa l’Arabia Saudita ha rifiutato il proprio seggio tra i membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, decisione inedita nella storia dell’organizzazione. A spiegare la presa di posizione di Riyadh è stato, alcuni giorni dopo, l’influente principe Bandar bin Sultan al-Saud, per parecchi anni Ambasciatore a Washington, che nel luglio del 2012 ha assunto l’incarico di direttore dell’intelligence saudita. Parlando con alcuni funzionari europei a margine di una riunione sulla crisi siriana, Bandar ha sottolineato l’inefficienza del Consiglio di Sicurezza nella gestione del conflitto in Siria e del riavvio del processo di pace israelo-palestinese, ma ha anche messo in rilievo le divergenze venutesi a creare tra Riyadh e gli Stati Uniti dopo la decisione americana di abbandonare i piani per un’operazione militare contro il regime di Bashar al-Assad. In effetti, il capo dell’intelligence saudita! sembra essersi impegnato in prima linea nel sostegno all’opposizione siriana a partire dalla scorsa estate, pressando il governo di Riyadh, per un incremento degli aiuti militari nei confronti dei ribelli, e Washington, per l’organizzazione di un’azione militare in grado di ribaltare gli equilibri di forza nell’ambito del conflitto siriano. Dopo l’accordo sull’asse Washington-Mosca-Damasco per la dismissione dell’arsenale chimico siriano, l’Arabia Saudita è oggi portatrice della linea più intransigente tra i Paesi che appoggiano le forze anti-Assad. Una linea sposata anche, di recente, da una parte della Coalizione Nazionale Siriana – organismo nato a Doha nel novembre scorso come ombrello per le forze dell’opposizione, su cui i sauditi esercitano un innegabile influenza – che ha annunciato di voler boicottare la conferenza di Ginevra II per la ricerca di una soluzione diplomatica al conflitto.

Libano Hezbollah e Siria: tre volumi per approfondire

 Lebanon, Dual Legitimacy, and the Syrian Crisisby P.Seeberg

As the political crisis in Lebanon continues, the level of consensus among the rival politicians in Lebanon concerning the upcoming election is at a very low point. At the same time, the political unrest resulting from deep national divisions over the ongoing war in neighboring Syria have became more tense. There is hardly any doubt that both sides in Lebanon - Hezbollah as well as the Future Movement alliance - are sending fighte rs and weapons into Syria, raising fears in Lebanon that the conflicts will produce a spillover.


• Hezbollah's New and Old Wars: From Ideological Struggle to Fight for Survival?,
by F.Dionigi

Hezbollah has seen the fronts of its struggle multiply over the last two years. It is both engaged militarily on the Syrian front and is dealing with a domestic situation in which it faces unprecedented attacks. Furthermore, its international reputation is increasingly challenged. The EU has recently added the military wing of Hezbollah to its terrorist blacklist, and the Special Tribunal for Leba non has added a fifth Hezbollah member to its list of indicted persons. Whatever its outcome, the Syrian crisis will not leave Hezbollah unchanged.


• How the West should Stop Crippling the Syrian Oppositionby J-P.Filiu

Since its start in March 2011, the Syrian revolution has presented a challenge to classical interpretations of political protest and conventional attitudes toward armed insurgencies. The markedly grassroots nature of this popular uprising has made the quest for a monolithic leadership elusive. In addition, the various underground groups that make up the opposition have nurtured complex dialectics with exiled militants. This difficulty has translated into an inability by the West to gi ve the rebellion any significant help. In fact, the West ahs done it more harm than good.


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sabato 2 novembre 2013

Arabia Saudita. 80 anni di rapporti con l'Italia

Italy and Saudi Arabia Confronting the Challenges of the XXI Century


a cura di Silvia Colombo


Nuova Cultura Nuova Cultura

IAI Research Papers n. 10

settembre 2013
Pagine 135, Euro 12,00
ISBN 978-88-6812-151-8


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Volume presentato al convegno "Italia-Arabia Saudita: guardando al futuro", Roma, 3 ottobre 2013, organizzato da Ambasciata dell'Arabia Saudita, Ministero degli Affari esteri e Istituto Affari Internazionali (IAI), in occasione dell'80° anniversario dallo stabilimento delle relazioni diplomatiche fra Italia e Arabia Saudita.

 Abstract

Italia e Arabia Saudita sono unite da numerosi e forti legami sviluppatisi nel corso di decenni: risale al 1932 la firma di un trattato di amicizia tra i due paesi che sancisce l'inizio delle loro relazioni bilaterali. Le celebrazioni dell'80° anniversario dell'istituzione delle relazioni diplomatiche italo-saudite offrono l'opportunità di valutare lo stato di tali relazioni e di avanzare proposte su come i due paesi possano rafforzare la loro cooperazione e il loro impegno a livello regionale e internazionale. Lo sviluppo costante delle relazioni italo-saudite negli ultimi 80 anni è stato di recente influenzato dai rapidi cambiamenti che - nel quadro della cosiddetta "primavera araba" - hanno avuto luogo nel Mediterraneo, regione che rappresenta per entrambi i paesi una priorità nonché un significativo legame. Imperativi economici ed una logica geostrategica sono alla base dei sempre più frequenti richiami per un consolidamento delle relazioni bilaterali dell'Italia con i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo e, in particolare, con l'Arabia Saudita.
In questo volume gli autori sottolineano l'eccezionale livello dell'impegno comune di Italia e Arabia Saudita in numerosi settori. Intendono inoltre promuovere la conoscenza delle aree più promettenti in cui si esplica la cooperazione tra i due paesi, delle sfide che tale cooperazione deve affrontare e delle prospettive per il futuro.

 Parole chiave

Arabia Saudita / Relazioni bilaterali / Italia / Unione europea / Economia / Energia / Mediterraneo / Primavera araba


 Il curatore

Silvia Colombo è ricercatrice del programma Mediterraneo e Medio Oriente dell'Istituto Affari Internazionali (IAI).

 Gli autori

Roberto Aliboni, Silvia Colombo, Eashed Al-Kathiri, Giacomo Luciani, ElenaMaestri, Abdullah Al-Mobty, Faysal Bin Abdul Rahman Bin Muammar, MatteoPizzigallo, Mai Al-Torki.


 L'indice

List of Contributors, p. 7-8
List of Abbreviations, p. 9-10
Preface, Silvia Colombo, p. 11-12
Opening Remark by Prince Saud Al Faisal, Minister of Foreign Affairs, Saudi Arabia, p. 13-14
Opening Remark by Emma Bonino, Minister of Foreign Affairs, Italy, p. 15-16
1. History of an 80-Year-Long Friendship: Italy-Saudi Arabia 1932-2012, Matteo Pizzigallo, p. 17-35
2. Saudi Arabia and Italy in the Mediterranean: An Emerging Dimension in Bilateral Relations, Roberto Aliboni, p. 37-50
3. Opportunities for Italian-Saudi Relations in the Post-Arab Spring Environment,Elena Maestri, p. 51-68
4. Saudi Arabia-Europe Economic Cooperation: Prospects and Potentialities, Mai Al-Torki, p. 69-78
5. Towards Strengthening Saudi-Italian Economic Cooperation, Abdullah Al-Mobty, p. 79-90
6. The Energy Security Challenge in EU-GCC Relations, Giacomo Luciani, p. 91-105
7. Parliamentary Relations between the Kingdom of Saudi Arabia and the Republic of Italy, Rashed Al-Kathiri, p. 107-117
8. Saudi-Italian Relations. A History of Political and Cultural Cooperation, Faysal Bin Abdul Rahman Bin Muammar, p. 119-126
9. Conclusion, Silvia Colombo, p. 127-131
Annex: The Friendship Treaty Between the Kingdom of Hejaz, Najd and Annexes and the Italian Republic, p. 133-136

lunedì 28 ottobre 2013

Afganistan: elezioni del 2014

Afghanistan
afghanistan 124
Domenica 6 ottobre, in Afghanistan, si è conclusa la registrazione dei candidati alle prossime elezioni del 5 aprile. L’elenco definitivo, che raccoglie 27 candidati in lizza per le presidenziali, esclude la partecipazione dell’attuale presidente Hamid Karzai, per raggiungimento dei limiti costituzionali. Di fronte a questa moltitudine di candidature però, il cerchio sul possibile designato si stringe intorno a un numero più limitato di personalità, fra cui Abdul Rahim Wardak (pashtun) ex Ministro della Difesa sino al 2012, Zalmay Rassoul (pashtun) attuale Ministro degli Esteri, Abdul Rasul Sayyaf (pashtun) controverso signore della guerra dell’Alleanza del Nord, Abdullah Abdullah (tagiko) ex Ministro degli Esteri nel primo governo ad interim di Karzai, Ashraf Ghani (pashtun) già Ministro delle Finanze e direttore della commissione sulla transizione e infine il fratello del presidente, Qayum Karzai (pashtun). A prescindere dal diffici! le contesto di sicurezza in cui le elezioni avranno luogo e che certamente avrà un impatto sul processo elettorale, una prima considerazione positiva è il fatto che ciascun candidato si sia presentato con due vice-presidenti scelti fra esponenti degli altri gruppi etnici principali, un raro segno di distensione in un Paese dove i rapporti fra i vari gruppi sono tradizionalmente tesi. La tenuta di elezioni ragionevolmente libere e prive di irregolarità è un’importante tappa non solo per l’Afghanistan, ma anche per la Comunità Internazionale, che, proprio nel 2014, si appresta a ultimare il ritiro dei contingenti ISAF, dopo 13 anni di operazioni nel Paese.

venerdì 25 ottobre 2013

Cina: verso un ordine mondiale nuovo

La Cina è la seconda economia più grande del mondo ed è ipotizzato che entro il 2016 superi quella degli Stati Uniti nella classifica della ricchezza del pianeta. È ormai la locomotiva del mondo e ciò è testimoniato dall’attenzione che il mondo dell’economia e della finanza presta all’indice della fiducia dei consumatori e del Pmi1 della Cina. Tuttavia, alla crescita esponenziale dell’economia reale cinese non è corrisposta una stessa crescita dell’importanza della sua moneta. Almeno finora.
La crescita cinese iniziata tra fine anni Ottanta e inizi anni Novanta si basava su fattori che la rendevano estremamente competitiva al mondo che si cominciava ad aprire alla globalizzazione, tra cui il costo del lavoro, la grandezza potenziale del mercato interno, politiche preferenziali, l’apertura e le riforme del governo cinese. Tutti questi elementi hanno favorito la delocalizzazione in Cina, contribuendo a trasformarla nella “fabbrica del mondo”. La Cina si inseriva così nella fitta rete del commercio internazionale con i suoi beni a basso costo che penetravano i mercati dei paesi industrializzati e soprattutto di quelli più consumistici e quindi in primo luogo quello statunitense.
I consumatori statunitensi erano ben disposti a pagare “un pugno di dollari” per i prodotti cinesi che altrimenti si sarebbero potuti permettere con più difficoltà. Parallelamente, il consistente afflusso di dollari in Cina chiedeva impieghi che andavano oltre le possibilità di un sistema bancario e finanziario del tutto inefficiente. Prendeva forma così quel legame che ancora oggi lega a doppio filo Cina e Stati Uniti: l’acquisto di merci cinesi da parte degli Stati Uniti in cambio dell’acquisto da parte cinese del debito pubblico americano, sintetizzabile con l’espressione I buy your goods, you buy my bonds.
Inizialmente questo sistema sembrava reciprocamente vantaggioso poiché gli Stati Uniti compravano merci a basso costo e la Cina aveva un impiego redditizio per i “suoi dollari”. Tuttavia, si erano poste le basi per uno squilibrio macroeconomico che, fondandosi su una carenza strutturale di risparmio negli Stati Uniti e su un modello di crescita cinese export-oriented, avrebbe portato l’economia mondiale verso la più grande crisi economica dalla Grande Depressione del 1929. Intanto, la Cina faceva segnare record su record e nel 2009, anno di piena crisi economica mondiale, diveniva ufficialmente la prima esportatrice mondiale davanti alla Germania, con un gigantesco avanzo commerciale di 198 miliardi di dollari ed un portafoglio di titoli americani di 755 miliardi di dollari, pari al 21% del totale del debito pubblico americano.
Di contro, nello stesso anno gli Stati Uniti facevano registrare un deficit commerciale di 536 miliardi di dollari, rendendo evidente che il loro modello di crescita non era più sostenibile. Il sistema messo in piedi dagli Stati Uniti si è infine rivelato soprattutto vantaggioso per la Cina. Visti i risultati raggiunti e le prospettive di crescita dell’economia cinese, in controtendenza rispetto a quelle del resto del mondo sviluppato, le autorità americane hanno iniziato a chiedere insistentemente alla Cina di svolgere la propria parte per supportare l’economia e il commercio internazionale, ovvero, in parole povere, di rivalutare lo yuan.
Gli Stati Uniti, infatti, imputano alla Cina di aumentare artificialmente la propria competitività mantenendo volutamente basso il tasso di cambio per favorire le proprie esportazioni e rendere i beni stranieri costosi per i cittadini cinesi. Parte dell’ambiente politico-economico statunitense ha invocato, e tuttora invoca, delle misure protezionistiche contro i prodotti cinesi. In effetti, l’Omnibus Trade & Competitiviness Act del 1988 conferisce al Tesoro americano l’autorità di relazionare ogni due anni al Congresso su se i partner commerciali manipolano le loro valute. Nel 2005, l’atto è stato modificato su proposta dei senatori Baucus e Grassley con la sostituzione della frase “unfair manipulation” con “currency misalignment” al fine di alleggerire l’onere della prova per le autorità del Tesoro.
In caso di scoperta della violazione, si avvierebbero delle negoziazioni con le autorità del Tesoro per correggere lo squilibrio del tasso di cambio; se il Paese in questione non accettasse le modifiche, gli Stati Uniti prenderebbero delle misure, tra cui l’opposizione a nuovi prestiti da parte di istituzioni internazionali come il FMI, l’ineleggibilità per l’assicurazione dell’Overseas Provate Investment Corporation e la revoca dello status di economia di mercato. I due senatori affermano che l’atto non è rivolto contro la Cina, sebbene esso sia stato adottato anche per placare quell’opposizione dura che era arrivata a proporre, con i senatori Schumer e Graham, l’imposizione di dazi del 27,5%, in manifesta violazione delle regole del WTO, sui beni cinesi se la Cina non avesse sostanzialmente rivalutato la propria valuta.
Fortunatamente, tali misure sono state evitate per non causare ulteriori ripercussioni negative sulle economie in piena crisi economica, anche se gli Stati Uniti hanno preso unilateralmente decisioni per diminuire il valore della propria moneta ricorrendo a una politica monetaria espansiva attraverso ilquantitative easing. Le operazioni di quantitative easing comportano l’immissione di liquidità da parte delle Federal Reserve per il riacquisto di titoli di Stato che, sebbene gli Stati Uniti giustificano per incoraggiare gli investimenti produttivi e l’occupazione, hanno l’effetto di deprezzare il valore del dollaro e quindi di aumentare la competitività delle merci americane e di ridurre il valore reale del debito americano detenuto all’estero e in primo luogo in Cina.
Per dieci anni, dal 1995 al 2005, la Cina ha mantenuto un tasso di cambio fisso con il dollaro a 8.28 RMB/$. Nel luglio 2005, la Cina annunciava una nuova politica, consistente in una immediata rivalutazione del 2,1% seguita da un regime di fluttuazione manovrata ancorata a un paniere di monete non specificato, nel quale tuttavia il dollaro statunitense continuava ad essere il punto di riferimento principale. Da metà 2008 ad aprile 2010 la quotazione dello yuan è stata di 6.84 RMB/$, rivalutata del 20% rispetto al dollaro nel 2005. Gli sforzi cinesi non sono stati però apprezzati dagli Americani perché ritenuti ancora troppo limitati.
Nell’inverno 2010, la Cina è stata sottoposta a forti pressioni internazionali per far rivalutare la propria moneta, con in aggiunta le richieste del Congresso americano al Tesoro di sanzionare nel suo rapporto biennale l’avvenuta manipolazione della valuta cinese. La Cina ha dato però sempre prova di saper resistere alle pressioni internazionali ribadendo che qualsiasi Paese è libero di scegliere il regime di cambio che preferisce e che ogni variazione del suo tasso di cambio sarà coerente con gli obiettivi di politica economica nazionale. Infatti, la prima leggera rivalutazione dello yuan era dovuta anche alle difficoltà di sterilizzare l’afflusso eccessivo di dollari che cominciavano ad alimentare una sostenuta inflazione e bolle economiche.
I Cinesi non apprezzano le critiche e le pressioni americane e hanno, per contro, criticato a loro volta le azioni del governo statunitense ritenute incoerenti con il ruolo che il dollaro svolge come moneta internazionale e principale moneta di riserva. Il premier Wen nel 2099 ha manifestato le sue preoccupazioni per i timori di una perdita di valore dei titoli di Stato americano e perciò ha invitato Washington a perseguire politiche per riportate a un “appropriate size” il suo deficit per garantire la “basic stability” del dollaro. Sempre nel 2009, il governatore della banca centrale cinese Zhou Xiaochuan, aveva proposto la creazione di una nuova moneta composta da un paniere di monete più ampio – con l’inclusione anche dello yuan – di quello dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP) e gestita dal Fondo Monetario Internazionale.
Il governatore sostiene che la riforma del sistema monetario internazionale esistente verso una moneta di riserva internazionale “with a stable value, rule-based issuance and manageable supply” sia necessaria per salvaguardare la stabilità finanziaria ed economica globale. Sebbene nel suo discorso non faccia mai rifermento al dollaro, la sfiducia cinese nella possibilità che il dollaro continui a conservare intatto il suo ruolo di moneta di riserva internazionale è alquanto esplicita. Il discorso è stato accolto con diffidenza da Stati Uniti ed Europa, ed è stato messo rapidamente e superficialmente da parte. Nel novembre 2010, durante il summit del G20 a Seoul, la Cina ha apertamente criticato la politica monetaria della Federal Reserve (quantitative easing 2) come un esempio di guerra valutaria. Negli ultimi due anni, l’attenzione degli USA si è spostata verso crisi internazionali, come quella nordcoreana e siriana, e interne, come le difficoltà di raggiungere un accordo in seno al Congresso per aumentare il budget federale ed evitare il cosiddetto shutdown.
Nello stesso periodo Pechino sta ponendo le basi per un cambiamento che potrebbe essere epocale. La Cina sembra avere una visione più globale ed essere più consapevole delle potenze occidentali dei cambiamenti che stanno intercorrendo a livello mondiale e del nuovo peso che stanno assumendo le nuove economie emergenti. Infatti, nella strategia cinese di internazionalizzazione dello yuan, la Cina cerca di coinvolgere le altre economie “non Occidentali” imbastendo una serie di accordi per utilizzare le proprie monete, e quindi lo yuan, negli scambi commerciali reciproci e di conseguenza escludere il dollaro come moneta di intermediazione. Tra quelli che avranno un impatto più immediato, ricordiamo:
  1. L’accordo tra Cina e Giappone, la seconda e la terza economia più grande del mondo, per condurre il loro interscambio commerciale nelle loro rispettive valute. Questo accordo, a cui la stampa ha prestato poca attenzione, contribuirà a scardinare l’influenza del dollaro nella regione dell’Asia Orientale. È il primo accordo di questo tipo che la Cina conclude con un’altra maggiore moneta per commerciare direttamente in yuan. Per Pechino questo accordo costituisce un ulteriore tassello verso l’internazionalizzazione dello yuan mentre Tokyo potrebbe guadagnare da una possibile correzione del valore dello yuan dato che i futuri tassi di cambio verranno determinati direttamente tra le rispettive valute senza l’intermediazione del dollaro nel cross-rate system;
  2. L’accordo tra la Cina e l’ASEAN (Association of South East Asian Nations), che come blocco è il terzo partner commerciale cinese, mirerebbe a porre le fondamenta per rendere lo yuan una moneta regionale. Questo accordo ha anche favorito la presenza di istituzioni finanziarie cinesi nei Paesi ASEAN che non solo supportano le imprese cinesi, ancora poco note alle istituzioni locali, ma contribuiscono anche a sviluppare il mercato finanziario locale, come nel caso della Cambogia, dove le attività di Bank of China e di Industrial and Commercial Bank of China Ltd. hanno attirato investimenti cinesi nel Paese e rafforzato i legami tra le banche centrali dei due Paesi;
  3. L’accordo tra Cina e Russia per usare le loro valute nel loro interscambio commerciale che si inquadra nelle reiterate dichiarazioni a sostegno di una nuova valuta internazionale;
  4. L’accordo tra la Cina e i Paesi produttori di petrolio, Emirati Arabi Uniti e molto probabilmente anche con l’Arabia Saudita, per abbandonare il dollaro nel loro interscambio commerciale. Se, come probabile, anche l’Arabia Saudita dovesse acconsentire ciò aprirebbe nuovi scenari sul ruolo dei cosiddetti petrodollari.

Per aver un quadro completo degli sforzi cinesi per rafforzare lo yuan sulla scena internazionale, si deve anche prendere in considerazione il progetto dei BRIC – Brasile, Russia, India e Cina – di utilizzare le proprie valute nel loro commercio internazionale, i recenti accordi con Nuova Zelanda e Australia e il ruolo crescente della moneta cinese in Africa. Secondo Xinhuanet, nel 2011 più del 9% del commercio cinese è stato regolato direttamente in yuan contro il solo 0,7% del 2010. Questi nuovi accordi spingono dunque verso l’internazionalizzazione dello yuan, accelerando un uso maggiore di questa moneta.
Nonostante l’intenzione di rafforzare l’uso dello yuan e diminuire il ruolo del dollaro, la moneta cinese è tuttora ancorata alla valuta americana. Infatti, sebbene lo yuan non sia più ancorata esclusivamente al dollaro ma ad un paniere di valute internazionali, il biglietto verde ricopre un ruolo preponderante. Proprio per completare la propria strategia di affrancamento dal dollaro, la Cina sembra decisa ad agganciarsi a quel “barbaro relitto” tanto osteggiato da Keynes.
Pechino si è posto ormai l’obiettivo di trasformare lo yuan in una moneta internazionale e sebbene attualmente la sua moneta non possa competere né con il franco svizzero né con la sterlina inglese come presenza internazionale, la Cina sembra essere l’unico Paese ad avere un progetto sul lungo termine per stravolgere il sistema monetario internazionale. Oltre ai già citati accordi internazionali per la diffusione dello yuan, la Cina sta incrementando l’acquisto di oro a sostegno della sua moneta. Molti analisti, basandosi sull’assunto che le economie cinese e statunitense sono legate indissolubilmente, sostengono che alla Cina non convenga causare un indebolimento del dollaro perché diminuirebbe il valore delle sue riserve internazionali, che sono per la stragrande maggioranza costituite da dollari. In effetti, ciò ha un senso anche se si deve aggiungere che la Cina, più di ogni altro Paese, si è resa conto che sta già perdendo valore perché il dollaro sta perdendo potere di acquisto visto che dal 1980 al 2008 è diminuito del 62%.
L’assunto di base che sta spingendo i Cinesi verso l’acquisto di oro è che, in questo contesto economico che non si è ancora ripreso del tutto dall’ultima grande crisi finanziaria, dove le politiche economiche americane non garantiscono la stabilità del valore del dollaro, l’oro costituisce l’unica “moneta” che ha un valore reale, che non può essere stampata per volontà politiche nazionali.
Si deve considerare che la Cina è il più grande produttore mondiale di oro, il cui 60% proviene da sole cinque province: Shandong, Henan, Jiangxi, Yunnan and Fujian. Possiede anche notevoli riserve di oro, attualmente inferiori solo a quelle di Stati Uniti, Germania, Italia e Francia, sebbene pesino solamente per l’1,3% sulle sue riserve totali. Osservando i dati del World Gold Council, risulta che, dal 2000, tra i primi cinque Paesi detentori di oro, la Cina è stata l’unica ad incrementare le sue riserve di oro (+167%) mentre la Francia e la Germania le hanno ridotte (rispettivamente -19% e -2%) e gli Stati Uniti e l’Italia le hanno lasciate invariate. Tuttavia, queste stime cinesi devono essere prese con cautela perché dal 2009 i Cinesi hanno iniziato ad essere poco trasparenti sui dati. Le maggiori importazioni di oro cinese avvengono attraverso Hong Kong ed è stimato che nel marzo 2013 abbiano importato 223 tonnellate di oro, battendo il precedente record del dicembre 2012 di 114 tonnellate, facendo pensare che le riserve di oro cinesi siano molto maggiori di quanto comunicato. Queste considerazioni portano a ritenere che Pechino stia accumulando riserve in oro perché progetta di sganciare il tasso di cambio dello yuan dal dollaro per agganciarlo all’oro.
Se la Cina dovesse davvero agganciare lo yuan all’oro, ci sarebbero gravi conseguenze per l’ordine economico mondiale e soprattutto per l’economia statunitense. Innanzitutto, comparirebbe prepotentemente sulla scena internazionale una nuova moneta internazionale, lo yuan, che spiazzerebbe le altre, e in particolare il dollaro il cui valore calerebbe in picchiata. Per di più, visto che gli investitori ridurrebbero la domanda di titoli di Stato americani in dollari, gli interessi sui titoli andrebbero alle stelle, e con un debito già elevato, comporterebbe seri cambiamenti nello stile di vita americano. Di conseguenza, il mondo finanziario, che è basato sul sistema finanziario americano, verrebbe proiettato sull’orlo del baratro, o forse già al di là.
Anche Paesi come il Regno Unito e il Giappone si troverebbero dinnanzi a serie difficoltà. Il primo, che è stato uno dei venditori maggiori di riserve di oro nell’ultimo decennio, si troverebbe con una moneta priva di valore internazionale mentre il secondo, si troverebbe con il valore delle sue riserve internazionali drasticamente ridotto che non farebbe più da argine al suo forte debito. Anche la Cina vedrebbe ridurre il valore delle sue riserve internazionali, compensato però dal conseguente aumento del prezzo dell’oro, di cui, come detto è il maggior produttore e uno dei primi detentori a livello mondiale. Conseguenze rilevanti si avrebbero anche per il commercio internazionale. Il dollaro vedrebbe ridurre drasticamente il suo ruolo di intermediazione originando un’abbondanza di dollari che contribuirebbe a diminuirne il valore, rendendo impossibile agli Stati Uniti di continuare a svolgere il ruolo di mercato di assorbimento dei prodotti mondiali. L
a Cina si troverebbe perciò senza il suo principale mercato di sbocco che potrebbe comportare dei danni alla sua economia se non riuscisse a trovare mercati alternativi o a utilizzare il proprio mercato interno che però è ancora potenziale visto che numerose regioni della Cina hanno ancora un reddito medio troppo basso. Perciò l’affrettata conquista del ruolo di moneta principale a livello mondiale potrebbe causare danni al proprio motore produttivo. La sola presenza di una moneta legata all’oro renderebbe deboli o prive di valore le altre e quindi altri Paesi potrebbero seguire l’esempio cinese. Ricordiamo che gli Stati Uniti sono ancora il più grande Paese detentore di riserve aurifere (8.133,5 tonnellate), mentre l’UE nel suo insieme dispone di riserve superiori visto che solo quelle combinate delle prime tre economie dell’Eurozona, Germania (3.390,5 t), Francia (2.435,4 t) e Italia (2.451,8 t) sono superiori a quelle statunitensi. Si verrebbe a creare un nuovo ordine economico mondiale con tre valute principali, il dollaro, l’euro e lo yuan con tre regioni di riferimento, rispettivamente, l’America, l’Europa e l’Asia Orientale e Sudorientale.
I costi economico-sociali per assestare il mondo a questo nuovo ordine economico potrebbero essere eccessivi. La crescita cinese e la sua strategia di internazionalizzazione dello yuan attraverso accordi internazionali faranno normalmente il proprio corso facendo affermare inevitabilmente lo yuan come una delle principali monete di riserva. Una decisione “shock” cinese potrebbe causare più danni che vantaggi alla stessa economia cinese. Un proverbio cinese recita: “siediti sulla riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”. Esso può ben simboleggiare la pazienza dei Cinesi facendo ben pensare che prima di qualsiasi scelta avventata la Cina ci rifletta bene. Tuttavia, la pazienza cinese in questi ultimi anni è stata fiaccata dai continui attacchi statunitensi che considerano la sottovalutazione dello yuan uno dei mali che affligge la propria economia.
Guardando troppo al giardino del vicino, gli Stati Uniti non vedono che anche l’eccessiva deregolamentazione e finanziarizzazione dell’economia, il basso tasso di risparmio dei privati e un eccessivo ricorso al debito, politiche economiche di breve periodo e senza visione di insieme sono mali alla base dei loro problemi attuali. In fin dei conti, i comportamenti delle due parti possono essere inquadrate nella classica competizione tra potenza egemone e in declino e potenza in ascesa, tra cui i passaggi di consegna vengono sempre accelerati da contesti di rottura, come dimostra il ruolo svolto dalla II guerra mondiale di acceleratore del passaggio dal dominio della sterlina a quello del dollaro, che in ogni caso si sarebbe verificato lo stesso. Senza dimenticare il fondamentale ruolo del dollaro nell’immediato dopoguerra e nei decenni seguenti, esso finirà inevitabilmente col ridurre il proprio peso sulla scena internazionale, adattandosi naturalmente al nuovo contesto geopolitico che sta nascendo, conservando comunque un ruolo di prima piano. Prove di forza da parti di Stati Uniti o Cina, per, rispettivamente, conservare lo status quo o accelerare il cambiamento porterebbero solo caos in un sistema economico che richiede stabilità.

Massimiliano Porto è Direttore del programma "Estremo Oriente" dell'IsAG

1 Il Purchasing Managers Index (PMI), più noto come PMI, è l'indice composito dell'attività manifatturiera che si basa su un punteggio che risulta da una media ponderata calcolata su domande qualitative sullo stato di una economia poste ad alcune figure chiave all'interno delle aziende: i manager che si occupano degli acquisti per le società. Tiene conto di nuovi ordini, produzione, occupazione, consegne e scorte nel settore manifatturiero.

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