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Forse per riguardo alla storia passata, a Marco Polo e a Matteo Ricci, tutte le mappe che descrivono le nuove Vie della seta (o, per dirla alla cinese, la Belt & Road Initiative, Bri) prevedono un terminale a Venezia. Ma quale potrà essere l’impatto economico sul nostro Paese delle migliaia di miliardi di dollari previsti in investimenti infrastrutturali?
È difficile dare una risposta precisa, mentre il presidente cinese Xi Jinping, incontrando a Pechino il Capo dello Stato Sergio Mattarella, invita l’Italia a essere un partner chiave della Bri. Da un lato, molti degli investimenti in infrastrutture devono essere ancora effettuati, se non addirittura progettati. Dall’altro, gli investimenti infrastrutturali sono solo una delle componenti della Bri. Va tuttavia notato che gli investimenti previsti dalla Bri si concentrano prevalentemente in Asia. In primo luogo, quindi, la Bri renderà più forti le connessioni tra i Paesi asiatici: il Vecchio Continente potrebbe, almeno in termini relativi, perdere parte della sua centralità economica. Due sono gli aspetti che possono avere maggiore impatto sulle imprese e sull’economia dell’Italia: le nuove reti ferroviarie che connettono la Cina all’Europa e il rafforzamento dei porti, in particolare nel sud del continente. Ferrovie: Roma vs Berlino La Bri prevede tre corridoi principali. Il primo è quello che dalla Cina attraversa Kazakhstan, Russia e Polonia e termina in Germania. Il secondo connette la Cina alla Transiberiana e quindi all’Europa. Il terzo è invece un passaggio più a sud. Il primo servizio di trasporto ferroviario commerciale che unisce Pechino all’Europa è del 2011 ed è quindi antecedente all’annuncio della Bri. Più recentemente, altri ne sono stati attivati, portando treni dalla Cina a Madrid e in altre città europee (ma pure a Teheran), anche se, bisogna dire, si tratta di treni con pochissimi container. L’aumento delle connessioni ferroviarie con l’Asia (non solo con la Cina) crea sicuramente nuove opportunità per le nostre imprese. Tuttavia l’impatto, almeno nel medio periodo, non sarà particolarmente rilevante. Le stime più accreditate prevedono che le nuove ferrovie saranno in grado di movimentare dai 300mila ai 500mila container l’anno. Numeri interessanti ma che rappresentano una piccola percentuale dei circa 20 milioni di container trasportati via mare ogni anno tra Europa e Asia. Vi sono però filiere produttive che potrebbero veder cambiare la propria posizione competitiva. Chi esporta prodotti che hanno un rapporto valore/peso elevato può guardare con interesse a un’opportunità che permette di tagliare i tempi di trasporto tra Europa e Asia da 35/40 giorni a 15/18 giorni, a fronte però di costi di trasporto che possono essere dalle tre alle quattro volte superiori a quelli via nave. Il settore automobilistico è uno di questi. Oggi, i produttori italiani hanno un limitato vantaggio competitivo rispetto ai competitor tedeschi: poiché quasi tutto viene trasportato via mare, ciò che è imbarcato nei porti italiani ha cinque giorni nave di vantaggio rispetto a quanto è imbarcato in Germania. L’utilizzo del trasporto su ferro azzererebbe il vantaggio tricolore e anzi lo ribalterebbe in parte, perché i tedeschi risulterebbero più vicini alla Cina rispetto ai concorrenti italiani. Diventerebbe però più facile per i cinesi esportare sui mercati europei e, quindi, anche in Italia. Ad oggi, l’Europa importa oltre 12 miliardi di dollari in beni relativi al settore automobilistico dalla Cina: è una percentuale minima rispetto al totale delle importazioni (350 miliardi di euro nel 2015), ma si tratta di volumi che potrebbero aumentare considerevolmente. Porti: il Pireo cannibalizza l’Adriatico? La sfida più importante che l’Italia deve affrontare riguarda però gli investimenti che la Cina sta facendo in diversi porti del Mediterraneo. Il più importante è sicuramente l’acquisizione del porto del Pireo da parte di Cosco, ma altri corposi investimenti sono in programma, ad esempio nel porto di Cherchell, in Algeria, che potrebbe competere con Gioia Tauro per le attività di trasbordo. È tuttavia il porto greco che può cambiare gli equilibri competitivi dell’Europa meridionale. Da un lato, il rafforzamento del Pireo è un fattore positivo perché aumenta l’attrattività del Mediterraneo, ma, dall’altro, può togliere traffico ai nostri porti, in particolare a quelli adriatici. Prima dell’investimento cinese, il porto ateniese movimentava circa 500mila container l’anno, oggi divenuti 3,1 milioni e con prospettive di raddoppiamento in pochi anni. Se a questo si aggiunge che, con fondi cinesi, si sta progettando una ferrovia per collegare il Pireo al centro Europa passando per i Balcani, appare chiaro come i porti italiani siano in una posizione di potenziale debolezza. Una condizione che non si ferma solo ai porti, ma colpisce anche le imprese che utilizzano queste infrastrutture e i relativi territori, che si trovano ad essere meno competitivi. Necessaria una strategia nazionale La dimensione degli investimenti previsti e il numero dei Paesi coinvolti obbliga questi ultimi a sviluppare una strategia nazionale. Il localismo, in questo caso, non paga. Entrando nel capitale della Banca per gli investimenti cinesi, l’Italia si è assicurata di poter almeno sedere a uno dei tavoli strategici più importanti. Questo però non basta. I porti di Ravenna, Venezia e Trieste movimentano oggi meno della metà dei container del solo Pireo. Per rispondere a una crescita di questo tipo è necessario che i porti del nord Adriatico attuino una strategia comune. Nessuno di essi, da solo, è in grado di attrarre sufficienti volumi di traffico e gli investimenti necessari per diventare una scelta alternativa al Pireo. Gli stessi cinesi potrebbero essere interessati ad avere una sorta di seconda opzione al Pireo. Ad esempio, se la costruzione della ferrovia che deve attraversare i Balcani incontrasse degli ostacoli - con i rapporti tra i paesi dell’area non esattamente pacificati -, la rotta adriatica potrebbe acquisire nuova centralità. Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali. Giorgio Prodi, Università di Ferrara e T.wai. |
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