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Ci sono conferenze che fanno la storia. È sufficiente evocare, per esempio, nomi quali Bretton Woods, oppure i Trattati di Roma, e immediatamente il pensiero corre a quei consessi che hanno fondato l’ordine monetario internazionale nel primo caso, oppure gettato le basi della costruzione europea nel secondo.
Anche il Belt and Road Forum for International Cooperation che si è tenuto a Pechino il 14 e 15 maggio resterà negli annali. La Cina è stata capace di far convergere nella capitale 29 capi di Stato e di governo - tra cui il premier italiano Paolo Gentiloni - e i capi delle più importanti organizzazioni internazionali (inclusi il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, il managing director del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, e il direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio, Roberto Azevêdo) per quello che è probabilmente il più importante evento diplomatico dell’anno, organizzato a poca distanza dal G7 di Taormina e dal G20 di Amburgo. Il piano Marshall di Pechino L’obiettivo dell’incontro è stata la promozione della Belt and Road Initiative (Bri) ideata dal Presidente cinese Xi Jinping per stimolare la connettività tra la Cina e (per ora) 65 Paesi del territorio euroasiatico e africano - ma anche oltre, visto che alcuni Stati sudamericani ne vogliono far parte - attraverso la promozione degli scambi commerciali e culturali, gli investimenti in vari settori, la costruzione di reti infrastrutturali e piattaforme di cooperazione. Il tutto inquadrato nella componente terrestre attraverso la Silk Road Economic Belt e marittima con la Maritime Silk Road. La rilevanza del Forum sta nel fatto che attraverso di esso la Cina si propone di costruire un’alternativa multilaterale agli attuali consessi internazionali creati all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale e tradizionalmente dominati dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Non per niente John L. Thornton, co-chairman della Brookings Institution, durante il suo intervento al Belt and Road Forum ha associato l’iniziativa del presidente cinese Xi Jinping al Piano Marshall che ha ricostruito l’Europa, con la differenza, però, che - calcolato ai dollari attuali - l’impegno finanziario di Pechino è 12 volte superiore alle somme stanziate dagli americani all’indomani della seconda Guerra mondiale. L’importanza del Forum Non è un caso che proprio sabato 13 maggio, il giorno prima che si aprisse il Forum, la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib, la banca infrastrutturale per gli investimenti asiatici con sede a Pechino è stata creata appositamente per promuovere la Bri e che è alternativa alla Banca mondiale con sede a Washington) abbia ammesso 7 nuovi Paesi, portando il totale dei suoi membri a 77. Tra questi anche l’Italia, che è uno dei paesi fondatori dal marzo 2015. Anche i tempi (alquanto lunghi) assomigliano a quelli del Piano Marshall. Il Forum della Belt and Road dovrebbe tenersi ogni due anni (il prossimo è previsto per il 2019), per fare il punto dell’avanzamento dei progetti e delle iniziative legate alla costruzione della Nuova Via della Seta, e dovrebbe durare - nelle intenzioni di Xi, ispiratore di questo progetto - almeno per i prossimi tre decenni, concludendosi nel 2049, in occasione del centenario della fondazione della Repubblica popolare cinese. Per quella data, la Cina spera di aver creato, attraverso la realizzazione della Belt and Road, un sistema di partenariati e alleanze che farebbero di Pechino quello che Washington è stato in questi ultimi 70 anni: il perno dell’ordine mondiale. Riuscirà la dirigenza cinese in questo tentativo cosi grandioso e audace al tempo stesso? Difficile dirlo ora. Molte sono le voci critiche che si sono levate negli ultimi tempi, sia fuori che dentro la Cina. È certo, però, che Pechino è intenzionata ad inondare di investimenti quanti accetteranno di far parte di questo progetto. La potenza finanziaria che si sta mettendo in moto potrebbe raggiungere i 4-6 trilioni di dollari nell’arco dei prossimi tre decenni. Una somma enorme, che nessun altro paese al mondo riuscirebbe, in questo momento, anche solo a immaginare di poter stanziare. E parte di questi fondi potrebbe essere intercettati anche dall’Italia, visto che il Mediterraneo è considerato il punto terminale della Via della Seta marittima. Ruolo (e mancanze) dell’Italia Gli investimenti cinesi sul territorio italiano sono aumentati considerevolmente negli ultimi anni, in concomitanza con il lancio della nuova Via della Seta. Basti pensare che l’acquisizione di Pirelli da parte di Chem China fu fatta, per circa il 25%, attraverso il Silk Road Fund, un fondo cinese creato per promuovere gli investimenti legati alla Belt and Road Initiative. Ed anche le acquisizioni cinesi delle squadre di calcio del Milan e dell’Inter sono considerate, a Pechino, tasselli della costruzione della connettività euro-asiatica. Il ruolo dell’Italia nella costruzione della Via della Seta è stato uno dei punti del colloquio bilaterale tra Gentiloni e Xi, il 15 maggio. Peccato, però, che il premier italiano non sia potuto essere presente alla cerimonia di apertura del Belt and Road Forum, essendo arrivato a Pechino solo nel pomeriggio di domenica. È mancata pertanto la voce dell’Italia, mentre gli altri grandi Paesi europei, tra cui Germania, Francia e Gran Bretagna, avevano mandato propri rappresentanti a parlare la mattina, consci dell’importanza di essere presenti in quel momento storico. Alcuni di loro, come il ministro tedesco degli Affari economici Brigitte Zypries, hanno sottolineato le criticità del progetto cinese, facendo capire in tal modo che Berlino è sì pronta ad approfittare delle innumerevoli opportunità della Belt and Road, senza tuttavia rinunciare ai propri valori. Sarebbe stato bello ascoltare anche la voce dell’Italia in proposito. Speriamo nel 2019. Nicola Casarini è coordinatore dell’area di ricerca Asia dello IAI e ha partecipato come delegato al Belt and Road Forum di Pechino. | ||||||||
Uniformologia, Uniformi del Patto di Varsavia
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