Giovedì 10 luglio, l’imam
australiano Musa Cerantonio è stato arrestato all’aeroporto di Lapu-Lapu,
nell’isola filippina di Cepu, unitamente a due cittadini filippini che lo
accompagnavano. Le autorità locali hanno formalmente accusato Cerantonio di
aver condotto attività di proselitismo radicalista nelle Filippine, dove,
attraverso messaggi di propaganda diffusa sui social network, avrebbe cercato
di reclutare combattenti jihadisti pronti ad unirsi alle fila dello Stato
islamico (IS) in Iraq e in Siria. Presente nel Paese dal 2013, il predicatore
australiano avrebbe stabilito un contatto con Abu Sayyaf, gruppo affiliato ad
al-Qaeda attivo nel Paese da circa venti anni, ha riportato l’attenzione sul
possibile riacutizzarsi della minaccia islamista radicale nel Paese.
Infatti, già nelle scorse settimane le autorità filippine avevano registrato
una ripresa dell’attività del gruppo e solo l’intervento delle Forze
Armate, nella provincia di Sulu e ne! ll’isola di Basilan, aveva permesso di
sgominare alcune cellule pronte a mettere a punto nuovi rapimenti nel sud
dell’arcipelago. Nonostante l’efficacia della strategia anti-terrorismo
adottata da Maila, e il conseguente indebolimento di cui è stato vittima Abu
Sayyaf in questi ultimi anni, i recenti sviluppi sembrerebbero indicare un
nuovo fermento nel panorama jihadista locale. Tuttavia, lo storico legame di
Abu Sayyaf con il network del terrorismo internazionale e, in particolare, con
altri gruppi islamisti di matrice radicale presenti nel sudest asiatico lascia
presupporre come tale rinvigorimento potrebbe avere importanti ripercussioni
non solo sulla sicurezza interna ma soprattutto sulla possibilità di una nuova
ripresa del fenomeno terroristico in tutta la regione.
Fonte CESi Newsletters 153
lunedì 29 settembre 2014
AFganista: il lungo travaglio elettorale
Mercoledì 2 luglio, la
Commissione Elettorale Indipendente (IEC) afgana, ha reso noti i risultati
preliminari del secondo turno delle elezioni presidenziali, tenutosi lo scorso
14 giugno. Dal primo conteggio, sembrerebbe che l’ex economista della Banca
Mondiale, Ashraf Ghani, abbia ottenuto il 56,4% dei voti, ribaltando, di fatto,
la netta affermazione al primo turno del suo rivale Abdullah Abdullah, che
contesta ora la veridicità delle proiezioni. Secondo le denunce di Abdullah,
infatti, gli attuali risultati sarebbero stati falsati dai pesanti brogli,
messi in atto durante l’ultima tornata, che avrebbero interessato soprattutto
alcune province orientali, bacino elettorale di Ghani. Già nelle settimane
successive alla consultazione, i sostenitori di Abdullah erano scesi in piazza
per manifestare contro tali irregolarità e contro l’apparente coinvolgimento
della stessa Commissione, tanto da indurre il Segretario della IEC, Ziaul Haq
Amarquel a rassegnare le proprie d! imissioni.
Il rifiuto di Abdullah di riconoscere i risultati e l’intenzione di formare, in caso di sconfitta, un governo parallelo all’autorità ufficiale ha suscitato la preoccupazione della Comunità Internazionale che guarda alla dilatazione dello stallo politico in atto e alla delegittimazione del processo elettorale come ad una pericolosa minaccia per la futura stabilità istituzionale del Paese. In proposito, il Segretario di Stato americano, John Kerry, è giunto a Kabul nella giornata di venerdì per cercare di trovare una soluzione condivisa tra le parti che possa, da un lato, porre termine al braccio di ferro tra i due candidati, dall’altro, assicurare la tutela e la credibilità delle istituzioni governative, messe in discussione dall’attuale impasse politico.
Fonte CESI Newsletters 152
Il rifiuto di Abdullah di riconoscere i risultati e l’intenzione di formare, in caso di sconfitta, un governo parallelo all’autorità ufficiale ha suscitato la preoccupazione della Comunità Internazionale che guarda alla dilatazione dello stallo politico in atto e alla delegittimazione del processo elettorale come ad una pericolosa minaccia per la futura stabilità istituzionale del Paese. In proposito, il Segretario di Stato americano, John Kerry, è giunto a Kabul nella giornata di venerdì per cercare di trovare una soluzione condivisa tra le parti che possa, da un lato, porre termine al braccio di ferro tra i due candidati, dall’altro, assicurare la tutela e la credibilità delle istituzioni governative, messe in discussione dall’attuale impasse politico.
Fonte CESI Newsletters 152
Cina: tensione nel Mar Cinese Meridionale
Fonte CESI News letters 152
Venerdì
4 luglio, la Marina militare cinese ha fermato un peschereccio vietnamita nei
pressi dell’isola di Hainan, Mar cinese meridionale, arrestando i sei
pescatori presenti a bordo. Le autorità di Pechino hanno denunciato la
violazione delle acque territoriali cinesi da parte dell’imbarcazione, mentre
il governo di Hanoi ha fatto sapere che la stessa stava solcando acque
appartenenti a un’area di pesca comune. Accaduto a meno di due mesi di
distanza dall’installazione da parte di Pechino dell’impianto di
trivellazione Hayang Shiyou 981 nei pressi delle isole Paracel, che aveva
generato forti violenze anti-cinese ad Hanoi, l’episodio rischia ora di
riacutizzare le tensioni tra i due Paesi.
La detenzione dei pescatori vietnamiti, tuttavia, appare solo l’ultima manifestazione dell’ assertività cinese, che rappresenta un fattore di criticità non solo per i rapporti bilaterali tra Pechino e Hanoi ma anche per la stabilità generale di un’area, quale il! Mar Cinese Meridionale, in cui si intrecciano le rivendicazioni di altri attori che si affacciano su questo tratto di mare (Taiwan, Brunei, Filippine e Malesia) e che guardano all’atteggiamento cinese come ad un pericoloso fattore di criticità per i propri interessi strategici nella regione. Improntata a una strategia del “fatto compiuto”, infatti, la politica di interdizione messa in atto dalle autorità cinesi, per impedire l’accesso alle imbarcazioni straniere nelle acque rivendicate, mira ad imporre in modo unilaterale una nuova definizione dei confini delle acque territoriali e delle Zone Economiche Esclusive, con forti ripercussioni sui diritti di sfruttamento delle risorse presenti nell’area e, conseguentemente, della sovranità territoriale degli altri Stati rivieraschi. |
Corea del Sud. la Cina è più vicina
Giovedì 3 luglio, il Presidente cinese Xi Jingping si
è recato a Seul per incontrare il Presidente sudcoreano Park Geun-hye, in una
storica visita che ha visto il leader di Pechino giungere direttamente in Corea
del Sud, senza alcuna tappa preventiva a Pyongyang.
L’incontro è stato occasione non solo per consolidare
le relazioni economiche bilaterali, che vedono la Cina quale primo partner
commerciale sudcoreano, ma anche per portare avanti il dialogo attorno ai temi
di reciproco interesse per la stabilità regionale, con particolare attenzione
dedicata alla questione nordcoreana e alla nuova politica di sicurezza portata
avanti dal Primo Ministro giapponese, Shinzo Abe.
Da una parte, infatti, l’imprevedibilità del regime di
Pyongyang spinge Seul a cercare l’appoggio di Pechino per la gestione della
minaccia a nord del 38° parallelo. In questo senso, risale a mercoledì scorso
l’ultimo test di missili a corto raggio ordinato dal leader nordcoreano Kim
Yong Un, chiara provocazione diretta ai governi dell’area, che sembra
confermare le preoccupazioni riguardo all’atteggiamento della Corea del Nord.
D’altra parte, il governo di Pechino si mostra
interessato a rafforzare l’intesa con Seul per cercare di arginare il rinnovato
protagonismo politico di Tokyo. Nonostante la recente apertura di un dialogo
tra Corea del Sud e Giappone, inaugurato dall’incontro Park-Abe dello scorso
marzo a L’Aia, il governo di Seul sembra guardare con cautela alla
reinterpretazione del ruolo delle Forze di Autodifesa giapponesi promosso
dall’esecutivo. In questo senso, il governo di Pechino potrebbe sfruttare le
divergenze tra Seul e Tokyo per rendere più difficile la formazione di un’alleanza
anti-cinese nel Mar Cinese Orientale.Fonte CESI. Newsletters 151
Taiwan: ravvicinamento tra le due Cine
Giovedì 26 giugno, il
responsabile dell’ufficio per gli affari taiwanesi del governo cinese, Zhang
Zhijun, è sbarcato a Taipei e, nell’ambito di una visita ufficiale di quattro
giorni, ha incontrato il suo equivalente a Taiwan, Wang Yu-chi. L’incontro fa
seguito al primo round di colloqui tenutosi lo scorso febbraio a Nanjing,
quando il rappresentante taiwanese aveva accolto l’invito del governo cinese,
ponendo fine a 65 anni di rapporti tesi tra la Repubblica Popolare Cinese (PRC)
e la Repubblica di Cina (RoC).
Il percorso di riavvicinamento tra Cina e Taiwan, lentamente avviato sin dal 2008 sotto la presidenza taiwanese di Ma Ying Jeou, potrebbe essere approdato ad una fase decisiva, a cominciare dalla definizione di stabili relazioni commerciali. Nel corso degli ultimi anni, infatti, lo scopo principale dei rappresentanti dei rispettivi Paesi è stato orientato verso una progressiva intensificazione dei commerci che, nel 2014, ! hanno raggiunto un valore pari a 197 miliardi di dollari.
Il secondo meeting ufficiale tra Cina e Taiwan deve misurarsi, tuttavia, anche con l’ostilità di buona parte dell’opinione pubblica taiwanese, da sempre molto sensibile al tema dei rapporti con Pechino. Le manifestazioni di protesta popolare verificatesi lunedì scorso dinanzi alla sede del Ministero per gli affari cinesi di Taipei denotano come l’evoluzione dei rapporti sino-taiwanesi, anche se sostenuta dagli ambienti imprenditoriali, deve confrontarsi con l'opposizione della maggioranza della popolazione locale.
Fonte CESI Newsletters 151
Il percorso di riavvicinamento tra Cina e Taiwan, lentamente avviato sin dal 2008 sotto la presidenza taiwanese di Ma Ying Jeou, potrebbe essere approdato ad una fase decisiva, a cominciare dalla definizione di stabili relazioni commerciali. Nel corso degli ultimi anni, infatti, lo scopo principale dei rappresentanti dei rispettivi Paesi è stato orientato verso una progressiva intensificazione dei commerci che, nel 2014, ! hanno raggiunto un valore pari a 197 miliardi di dollari.
Il secondo meeting ufficiale tra Cina e Taiwan deve misurarsi, tuttavia, anche con l’ostilità di buona parte dell’opinione pubblica taiwanese, da sempre molto sensibile al tema dei rapporti con Pechino. Le manifestazioni di protesta popolare verificatesi lunedì scorso dinanzi alla sede del Ministero per gli affari cinesi di Taipei denotano come l’evoluzione dei rapporti sino-taiwanesi, anche se sostenuta dagli ambienti imprenditoriali, deve confrontarsi con l'opposizione della maggioranza della popolazione locale.
Fonte CESI Newsletters 151
Filippine. Lotta contro il movimento islamista
Fonte CESI.
Lunedì 23 giugno, a
seguito di due blitz effettuati dalle forze governative nei pressi di
Zamboanga, a sud dell’isola di Mindanao, sono stati arrestati 4 sospetti
membri di Abu Sayyaf, movimento islamista che opera nelle regioni meridionali
del Paese e che qui intende costituire uno Stato islamico indipendente.
L’operazione congiunta da parte di polizia ed Esercito ha sventato un
tentativo di sequestro di un gruppo di turisti da parte della cellula
jihadista. Il business dei rapimenti è ormai divenuto il principale strumento
di finanziamento e pressione politica nei confronti del governo centrale per
i miliziani salafiti. Benché la strategia anti-terrorismo filippina sia
riuscita, col tempo, a indebolire la struttura dell’organizzazione e a
ridurne il numero dei comba! ttenti, il gruppo risulta ancora presente nelle
regioni meridionali dell’arcipelago. A riprova di ciò, lo scorso 19 giugno
nuovi scontri nei pressi di Patikul, a sud dell’isola di Basilan, hanno
causato la morte di 10 miliziani e di 7 soldati dell’Esercito. A questo
proposito, desta particolare preoccupazione un’eventuale ripresa delle
attività insurrezionali da parte di Abu Sayyaf, soprattutto alla luce del
recente rifiuto del gruppo a partecipare alle trattative di pace avviate tra
Manila e il Fronte islamico di Liberazione Moro (MILF), altra formazione
anti-governativa islamista attiva nella regione. Una riacutizzazione delle
violenze, infatti, rappresenterebbe un serio rischio per la fragile sicurezza
interna e potrebbe compromettere il delicato processo di pacificazione del
Paese, lacerato dalle violente guerriglie separatiste da oltre trent’anni.
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martedì 16 settembre 2014
Giappone: il nodo della difesa
sia Giappone, nuova interpretazione costituzionale sulla rinuncia alla guerra Natalino Ronzitti 18/08/2014 |
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La volontà di reinterpretare la Costituzione e la possibilità di introdurre nuove opzioni per l’uso della forza armata è stata oggetto di numerose manifestazioni contrarie, che hanno raggiunto l’apice con un suicidio: o tempora, (anzi o loca), o mores, verrebbe da esclamare pensando ai tentativi di riforma domestici!
La Costituzione giapponese, entrata in vigore nel 1947, è figlia dei suoi tempi e dello stato di occupazione in cui si trovava lo stato asiatico alla fine della II Guerra Mondiale. La Carta fu sostanzialmente imposta, essendo stata scritta dai collaboratori del Generale Mac Arthur, Capo delle Forze di occupazione, e tradotta in giapponese.
Non vi fu quindi un dibattito, quale quello che si ebbe in Italia in seno all’Assemblea Costituente, in occasione della scrittura dell’art. 11, altra disposizione “pacifista” di uno stato sconfitto. Pur imposta, la Costituzione giapponese si è insinuata profondamente nello spirito e nelle coscienze della società.
L’art. 9 della costituzione giapponese
Ma che cosa dice l’art. 9? La disposizione consta di due commi: nel primo sono consacrati due obblighi:
a) la rinuncia alla guerra;
b) la rinuncia alla minaccia e all’uso della forza per risolvere le controversie internazionali.
Nel secondo vengono stabiliti due obblighi strumentali rispetto ai doveri enunciati nel primo, cioè:
a) l’obbligo di non mantenere forze di mare, terra ed aria, nonché altro potenziale di guerra;
b) l’obbligo di non riconoscere il diritto di belligeranza dello Stato.
La disposizione va letta congiuntamente al Preambolo, secondo cui tutti i popoli del mondo hanno diritto a vivere in pace, e all’art. 13, secondo cui essi hanno diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità.
Prima reinterpretazione
La guerra di Corea, iniziata nel 1950, fece da propulsore per una reinterpretazione dell’art. 9. L’obbligo di cui al par. 2 dell’art. 9 è stato inteso nel senso di consentire la legittima difesa individuale, strettamente intesa, ovvero solo in caso di attacco al territorio giapponese.
Una forza di legittima difesa è stata istituita nel 1954, composta di forze di terra, mare e aria (Sfd: Self-Defence Forces). Più volte oggetto di contestazione, la legittimità delle forze di autodifesa (il cui bilancio occupa ormai il quarto posto della scala mondiale, ma ha un tetto non potendo superare 1% del prodotto nazionale lordo) non è mai stata messa in discussione dalla Corte suprema giapponese, che funziona anche come corte costituzionale.
Un ulteriore passo è stata la stipulazione del Trattato di sicurezza con gli Stati Uniti del 19 gennaio 1960, che sostituisce quello concluso nel 1951 e contiene obblighi di carattere reciproco, peraltro limitati, da parte giapponese, agli attacchi delle forze armate statunitensi stanziate in territorio giapponese.
Anche la partecipazione alle operazioni delle Nazioni Unite è avvenuta tardivamente e in modo attenuato, sebbene il Giappone ne fosse divenuto membro fin dal 1956. Una prima legge, varata nel 1992, aveva autorizzato il Giappone a partecipare solo a operazioni non militari, come il soccorso alla popolazione civile, ma la legge è stata emendata nel 2001, per consentire operazioni di supporto logistico, che non comportassero però l’uso della forza.
È stato inviato anche un contingente in Iraq, dopo l’occupazione anglo-americana, e in effetti il Giappone ha fatto parte della Coalition provisional authority (Cpa), l’autorità investita dell’amministrazione dell’Iraq occupato.
Le contingenze politiche recenti hanno fatto il resto: l’aspirazione del Giappone a diventare membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, che mal si concilia con una politica di quasi neutralità; le mire della Cina sul Mar cinese meridionale, rivendicato come acque storiche, che impedirebbero una effettiva libertà di navigazione per uno stato, la cui sopravvivenza dipende dal mare; la controversia sulle Isole Senkaku, di cui Cina e Giappone reclamano la sovranità; la crescente minaccia missilistica (e atomica) della Corea del Nord. Per non parlare delle Kurili sotto amministrazione russa, ma rivendicate dal Giappone.
Legittima difesa collettiva
La Decisione ministeriale del 1° luglio non è una rivoluzione interpretativa dell’art. 9. Una delle proposte più incisive consiste nell’ammettere che l’art. 9 consente il ricorso alla legittima difesa collettiva, cioè che si possa intervenire in difesa di un terzo stato, quantunque il Giappone non sia immediatamente oggetto di un attacco armato.
La legittima difesa collettiva è accordata sia dalla Carta delle Nazioni unite, sia dal diritto internazionale consuetudinario. La proposta ministeriale confina la legittima difesa collettiva a un ambito molto ristretto, nel senso che l’intervento diverrebbe ammissibile, solo quando venga attaccato un paese legato da una stretta relazione con il Giappone e l’aggressione costituisca una minaccia anche nei confronti del Sol Levante. Il tutto sempre dietro autorizzazione della Dieta nazionale, l’organo legislativo giapponese, preventiva o ex post facto.
Per altri settori, la decisione ministeriale propone una reinterpretazione che consentirebbe una serie di azioni che comportano forme minori di uso della forza armata: ad es. azioni volte a rimediare intrusioni nelle acque territoriali giapponesi o interventi per salvare cittadini giapponesi all’estero in pericolo di vita o ancora per far fronte a contingenze che si verifichino in aree vicine a isole remote.
Per quanto riguarda le operazioni di mantenimento della pace sotto l’egida delle Nazioni Unite, il Giappone, secondo la decisione ministeriale, dovrebbe giocare un ruolo più incisivo e proattivo.
Si tratta di operazioni che non comportano l’uso della forza armata. Invece per quelle che lo comportano, intraprese o autorizzate dalle Nazioni Unite, la decisione ministeriale non preconizza una partecipazione diretta, ma solo un supporto logistico non qualificabile come uso della forza.
Scontro con l’ala pacifista
La Decisione ministeriale dovrà ora passare lo scoglio della Dieta dove lo scontro con l’ala pacifista sarà piuttosto acceso. La reinterpretazione non comporterà nessuna modifica scritta della Costituzione, ma sarà condensata in una o più leggi ordinarie che, ovviamente, restano subordinate all’art. 9 e sono soggette al vaglio della Corte suprema, qualora ricorrano i motivi per sollevare una questione di costituzionalità. La Corte potrebbe abrogare la legge ritenuta incostituzionale.
Tutto sommato la nuova interpretazione dell’art. 9, agli occhi del giurista, è ben poca cosa e appaiono infondati i timori dei pacifisti e dei vicini del Giappone, memori della tragedia della II Guerra Mondiale.
Il Giappone integrato economicamente e politicamente con l’Occidente abbisogna di un’interpretazione della Costituzione che lo metta in grado di una partecipazione attiva anche con lo strumento militare.
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
mercoledì 10 settembre 2014
Cina: Lo Xinjiang e la stabilità dell'Asia Centrale
Alessandro Di Liberto
Il recente attentato al mercato di Urumqi conferma quello che alla fine
dello scorso ottobre, dopo l’attentato a Piazza Tienanmen, sembrava essere
l’inizio di una nuova campagna terroristica in Cina. Quella messa in atto però,
appare come una nuova strategia volta alla destabilizzazione anche per un altro
aspetto. Si evince, infatti, una novità nel modus operandi dei terroristi operanti in territorio cinese, ossia
l’utilizzo per la prima volta di autobombe guidate da kamikaze. L’approccio è
quindi nuovo e potenzialmente più devastante. I timori di Pechino dopo
l’attentato del novembre 2013 sembrano dunque fondati.
La reazione all’attentato di Piazza Tienanmen è stata la creazione di un
Comitato di sicurezza nazionale, voluto dal Presidente Xi Jinping per
rispondere alla minaccia in un momento importante per la Cina e per la regione
dello Xinjiang 1.
L’attentato di Urumqi è avvenuto a margine degli incontri tra il
Presidente cinese e il Presidente russo Vladimir Putin, mentre le relazioni
russo-cinesi si stanno sempre più sviluppando, in particolare nel settore
energetico. Lo Xinjiang è strategico poiché attraverso questa regione passano
molti dei gasdotti e degli oleodotti con i quali la Cina si rifornisce in Asia
centrale, mentre la stessa Russia trasporta petrolio in Cina attraverso l’oleodotto
sino-kazako Atasu-Alashankou che termina proprio nello Xinjiang.
La Cina considera l’Asia centrale come un’area indispensabile per la
propria diversificazione nelle forniture energetiche. Pechino, infatti, ha
stipulato contratti energetici con i Paesi della regione costruendo pipelineche attraversano tutta la regione, come il gasdotto
dell’Asia centrale lungo 1.840 km 2. Va ricordata, inoltre, la
direttrice energetica che dovrebbe collegare lo Xinjiang all’Asia meridionale.
Il progetto volto alla creazione di un corridoio economico ed energetico, che
dal porto di Gwadar in Pakistan arrivi a Kashgar in Cina, è tuttavia denso di
problematiche, non solo interne alla Cina. Gwadar, secondo diversi progetti,
dovrebbe diventare anche uno snodo per il prolungamento verso la Cina del
gasdotto Iran-Pakistan.
Lo Xinjiang è dunque speculare all’intera regione dell’Asia centrale e
meridionale, e la sua stabilità è perciò una condizione essenziale per Pechino,
ma non solo in ambito energetico. La Cina sta sviluppando una serie di
politiche finalizzate alla creazione di quella che è chiamata la “Nuova via
della seta”, ossia la realizzazione di una fascia di sviluppo economico che
ricalchi quella che fu l’antica via carovaniera. Progetto idealizzato da più
parti, anche da Washington, si sta però sviluppando sempre più grazie
all’impulso cinese. La creazione dei corridoi regionali che collegherebbero la
Cina fino all’Europa è finanziata nell’ambito del progetto Central Asia Regional
Economic Cooperation (CAREC):
assistito da sei organizzazioni internazionali economiche, questo programma
prevede l’ammodernamento delle reti autostradali e ferroviarie della regione.
Altri obiettivi sono volti ad intensificare la cooperazione in materia doganale
e a favorire la realizzazione di associazioni di spedizionieri regionali.
L’obiettivo finale è dunque quello di facilitare gli scambi nella regione e
verso il resto dell’Eurasia 3. La Cina resta comunque l’attore principale, vista la
sua forza attrattiva e la celerità nell’elaborazione e messa in opera di
investimenti legati non solo alle infrastrutture. La creazione di zone
economiche speciali come quella di Korgas al confine con il Kazakhstan ne è un
esempio.
Tuttavia, Pechino cerca nella regione anche una via di contenimento
all’instabilità proprio dello Xinjiang, che potrebbe potenzialmente essere un
fattore di polarizzazione non solo di turbolenze per la Cina, ma anche per
l’intera regione. Attentati terroristici sono, infatti, avvenuti anche in
Kazakhstan, mentre la Russia ha subito attacchi di matrice islamica e
separatista nel Caucaso.
In questo contesto s’inserisce il ritiro delle truppe NATO
dall’Afghanistan, dal momento che Pechino considera questo evento foriero di
potenziale instabilità. Sembra, infatti, che i guerriglieri uiguri siano stati
addestrati in Afghanistan, base operativa di diversi gruppi che usano il Paese
come territorio d’addestramento. Inoltre, la presenza di guerriglieri uiguri
tra le fila dei combattenti in Siria alimenta ulteriormente la tensione:
l’esperienza di combattimento acquisita sul campo siriano e i contatti che i
separatisti uiguri hanno sviluppato con altre sigle terroristiche sono un dato
certo con il quale Pechino dovrà confrontarsi4. Esponenti uiguri
sono poi presenti in Turchia, con la quale condividono le origini, dal momento
che gli uiguri rappresentano, infatti, un’etnia di origine turcofona. Le
rivendicazioni indipendentiste degli uiguri nello Xinjiang mirano alla
creazione del Turkestan orientale 5. Pechino è stata poi
minacciata direttamente da Al Qaeda,
portando alla considerazione dei legami tra quest’ultima e le diverse sigle che
operano nello Xinjiang 6. La Cina ha quindi intensificato i rapporti
nell’ambito della sicurezza con i Paesi della regione, mentre nell’ambito
dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS) si è sviluppata
maggiormente la struttura regionale anti-terrorismo RATS SCO (The Regional anti Terrorism
Structure)7.
Lo Xinjiang vive attualmente una fase di sviluppo dopo decenni di
arretratezza. La regione autonoma, infatti, ha beneficiato per ultima delle
politiche di sviluppo decise da Pechino. Ciò è legato alle fasi messe in atto
dal governo centrale al momento delle riforme economiche di Deng Xiaoping.
Furono, infatti, le regioni costiere a beneficiare per prime dei finanziamenti
necessari allo sviluppo poiché aree strategicamente più vicine ai mercati
esteri verso i quali la Cina si aprì alla fine degli anni settanta. Ciò permise
sicuramente a Pechino di intraprendere quell’indiscussa ascesa economica che la
porterà presto a divenire la prima potenza economica mondiale. Le fasi di
sviluppo quindi toccarono per ultime le regioni interne relegandole in una
condizione di marginalità, legata anche a fattori quali la prevalenza di una
realtà prettamente agricola. Attualmente la fase di sviluppo regionale
intrapresa da Pechino ha portato lo Xinjiang al centro di numerosi progetti sia
infrastrutturali sia industriali8. Dalle autostrade ai treni veloci,
per questa regione passa anche il corridoio ferroviario che collega la Cina con
l’Europa. Linea ferroviaria che s’intende sviluppare nel contesto dei corridoi
euroasiatici. La stessa capitale Urumqi vive uno sviluppo economico e
commerciale che non può essere considerato fugace. La regione come già
sottolineato sta diventando snodo logistico non solo per l’Europa, ma per tutta
l’Asia centrale. Lo Xinjiang paradossalmente, pur avendo vissuto per ultima le
politiche di sviluppo ha acquisito nel tempo un ruolo strategico. Questa
regione si trova, infatti, a essere la cintura che unisce i Paesi dell’Asia
centrale con la Cina nell’ambito di una nuova area geoeconomica, quella
eurasiatica, dal potenziale sconfinato. Basti pensare che lungo il confine
sino-kazako, oggi anche tra Cina e Unione Eurasiatica, la ZES di Korgas
dovrebbe generare sviluppi commerciali di lungo termine9.
Il lavoro di riforma delle dogane intrapreso dalla Cina per armonizzare
e velocizzare le procedure con i Paesi della regione è un segnale della
tendenza in atto. L’obiettivo è quello di dinamizzare i flussi commerciali,
estendendo lo sviluppo e distribuendo la ricchezza su tutta la regione. A tal
fine altri Paesi della regione hanno intrapreso la creazione delle ZES per
l’attrazione d’investimenti esteri10. Questo è uno degli obiettivi
che Pechino intende raggiungere e che considera una condizione essenziale per
la stabilità della regione. Lo Xinjiang è dunque strategico, non solo per la
Cina, ma anche per la realizzazione di una realtà geoeconomica in Asia centrale
che possa generare una condizione di sicurezza per la regione, influenzando la
stessa stabilità di Paesi quali l’Afghanistan.
L’uso della leva economica è un fattore di stabilità nel quale Pechino
può quasi permettersi di giocare in solitaria. Nel contesto della sicurezza, vi
è invece la consapevolezza che solo la sinergia con gli altri Paesi membri
dell’OCS possa portare risultati decisivi. Nell’ambito di tale organizzazione
si è intrapresa la coordinazione delle diverse forze di polizia e un piano di
riforma giuridica che accomuni le leggi dei Paesi membri in materia di
terrorismo e sicurezza. Pechino ha poi ribadito il mutuo riconoscimento dei
confini con i Paesi della regione, sottolineando ulteriormente la lotta a
quelli che sono considerati i tre mali: fondamentalismo, separatismo e
terrorismo. Una partita quella in Asia centrale, densa e piena di risvolti che
influenzeranno il consolidamento del baricentro economico mondiale di questo
secolo. Più che lo stretto di Malacca, per Pechino il vero punto debole
sembrerebbe essere la sua regione autonoma occidentale. Tesi ancor più valida
se si considera lo Xinjiang nel contesto dell’Asia meridionale, con il porto di
Gwadar progettato proprio con la finalità di aggirare Malacca attraverso la via
terrestre. In questo modo si capisce come lo Xinjiang sia per la Cina una
cintura verso i Paesi dell’Asia centrale e meridionale. La perdita di questa
regione da parte di Pechino mutilerebbe l’intero processo che attualmente è in
fase di realizzazione. Processo in cui la Cina svolge il ruolo di traino e di
catalizzatore geoeconomico.
Fonte IASG
martedì 9 settembre 2014
Afganistan: elezioni generali Giugno 2014
Sabato 14 giugno in
Afghanistan si sono svolte le votazioni per il secondo turno delle elezioni
Presidenziali. I due contendenti, Abdullah Abdullah, ex Ministro degli esteri
e rivale diretto di Karzai nella corsa elettorale del 2009, e Ashraf Ghani,
precedente titolare del Ministero delle Finanze, si sono presentati al
ballottaggio rispettivamente con il 45% e il 31% delle preferenze ricevute al
primo turno.
Con un’affluenza stimata intorno al 60%, anche il secondo turno è sembrato confermare, almeno in un primo momento, la volontà della popolazione di portare a termine l’iter elettorale e dare così nuova legittimazione al turnover istituzionale. Tuttavia, la recente denuncia di Abdullah contro pesanti brogli in favore del suo rivale, rischiano ora di inficiare! la credibilità dei risultati. Rispetto al primo turno, tenutosi in tutto il Paese lo scorso 5 aprile, il ballottaggio ha registrato un aumento degli episodi di violenza da parte dei militanti talebani, che, complessivamente, hanno causato la morte di 39 civili, 18 membri delle Forze di sicurezza e circa 170 militanti. Benché gli attentati siano stati strettamente connessi con la consultazione elettorale, l’incremento delle incursioni si inserisce nelle attività legate offensiva di primavera, la tradizionale ripresa, dopo la stagione invernale, delle violenze da parte dei miliziani talebani, iniziata lo scorso 12 maggio. L’incognita legata alla sicurezza, dunque, continua a rappresentare una delle maggiori sfide per l’autorità afghane. In questo senso, la nomina del nuovo Presidente, che dovrebbe essere ufficializzata il prossimo 22 luglio, rappresenterà uno snodo fondamentale per le sfida di sicurezza del Paese. Spetterà al nuovo Presidente,! infatti, la definizione del Bilateral Security Agreement (BSA), l’accordo bilaterale Kabul-Washington che dovrebbe disciplinare la presenza delle Forze statunitensi in Afghanistan dal prossimo gennaio.
Fonte CESI. Newletter 149.
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lunedì 8 settembre 2014
MAynmar: Tentatici di apertura del Maynmar: opportunità per le imeprese italiane
Massimiliano Porto Estremo Oriente 0 commentI
Myanmar, ex Birmania, sottoposto dal 1962 a una dittatura militare, è
stato a lungo considerato uno dei Paesi più chiusi e isolati del mondo. Il
governo, accusato di diversi crimini, tra cui la violazioni dei diritti umani,
è stato oggetto di sanzioni da parte di Stati Uniti e Unione Europea fin dalla
metà degli anni Novanta.
Negli ultimi anni tuttavia sembra che il governo militare abbia deciso
di aprirsi maggiormente alla Comunità internazionale attraverso una transizione
verso un governo “civile” con le elezioni del 2010, che però non ha ridotto la
morsa dei militari sul Paese in quanto il Parlamento, dominato dal partito
sostenuto dai militari, l’Union Solidarity and Development Party, ha designato presidente Thein Sein, ex generale che ha svolto
l’incarico di primo ministro durante il governo militare. Dai primi giorni del
suo mandato il presidente Thein Sein si è dichiarato favorevole a riformare
“democraticamente” il Paese. Ed in effetti sono state adottate delle riforme
politico-economiche che hanno portato al rilascio di prigionieri politici, ad
una maggior tutela dei diritti umani, ad una riduzione delle restrizioni alla
libertà di stampa, di associazione e in generale alle libertà civili.
La decisione di maggior impatto sull’opinione pubblica internazionale è
stata però il rilascio dagli arresti domiciliari della storica dissidente e
leader della Lega Nazionale per la Democrazia, Aung San Suu Kyi, a cui è stato
anche concesso di essere eletta in Parlamento. I militari sembrano aver
compreso che Aung San Suu Kyi è un ottimo strumento per riconciliare il Paese
con la Comunità internazionale, e in primis con Stati Uniti e Unione Europea, e
per tale ragione, in questo momento storico in cui i militari cercano
l’apertura e non la chiusura al mondo, ritengono sia più proficuo coinvolgerla
formalmente nella vita politica del Paese.
Nonostante vi siano ancora forti carenze nelle riforme adottate,
testimoniate dalla continua oppressione verso i dissidenti politici e dalla
questione etnica caratterizzata dalle persecuzioni verso la comunità Kachin e
Rohingya, Stati Uniti e Unione Europea hanno apprezzato le iniziative
“democratiche” birmane decidendo di sostenerle con la sospensione delle
sanzioni economiche nei suoi confronti, ad eccezione dell’embargo sulla vendita
di armi. Il culmine del maggior riconoscimento internazionale per Myanmar è
stato rappresentato dalla storica visita del presidente americano Barack Obama
seguita dall’altrettanta storica visita del presidente Thein Sein a Washington
dove ha incassato il sostegno statunitense per le riforme, nonostante
l’amministrazione americana abbia richiesto un maggiore sforzo per la tutela
dei diritti umani e delle minoranze.
I tentativi di apertura politica del governo birmano sono funzionali per
attrarre maggiori investimenti esteri. L’economia del Myanmar ha dei punti di
forza tra cui ricchezza di idrocarburi, gemme preziose, legname e manodopera a
basso costo che interessano particolarmente alle multinazionali. Inoltre,
l’integrazione nell’ASEAN che va verso l’AEC, ASEAN Economic Community, potrà fare del Myanmar il serbatoio di manodopera a
basso costo di una area sempre più importante ed economicamente integrata. La
sospensione o l’abolizione delle sanzioni, come nel caso dell’UE dal 22 aprile
2013, ha riportato dunque le multinazionali occidentali a fare affari in
Myanmar, tra cui General Electric, MasterCard, Coca Cola e GAP. Il governo
birmano ha dato anche buona prova delle proprie intenzioni di migliorare
l’ambiente economico per gli investitori esteri prima con l’assegnazione delle
licenze di telefonia aggiudicate dalla qatarina Ooredoo e dalla norvegese
Telenor e poi con l’assegnazione delle licenze dei blocchi oil & gas
offshore aggiudicate dalla maggiori compagnie petrolifere tra cui l’italiana
ENI. Attualmente è in corso l’assegnazione della licenza bancaria a una decina
di banche straniere che hanno già un ufficio di rappresentanza in Myanmar con
la quale saranno autorizzate ad aprire una filiale operativa dopo il versamento
di un capitale minimo di 75 milioni di dollari.
In generale, per un Paese che si è chiuso al mondo per circa cinquanta
anni, gli obiettivi principali sono l’accesso alla tecnologia, il miglioramento
delle infrastrutture e del settore delle costruzioni, e il perfezionamento
delle tecniche agricole anche attraverso un maggiore uso di fertilizzanti.
L’apertura di Myanmar dunque può costituire un’ottima opportunità anche per le
aziende italiane.
Da quando il Myanmar ha iniziato il suo lento percorso di riforme,
l’Italia non gli ha fatto mancare il proprio sostegno rivolgendogli particolari
attenzioni: nel marzo 2013 il presidente birmano Thein Sein è stato in visita
in Italia dove ha incontrato il presidente Napolitano e l’allora presidente del
Consiglio Monti; nel luglio 2013 l’ICE ha organizzato una “Country
Presentation” su Myanmar; nell’ottobre 2013 Aung San Suu Kyi è stata in visita
in Italia; nel marzo 2014 l’ICE ha organizzato un seminario sulle tecniche
agricole a Yangon in Myanmar e in agosto è prevista una fiera interamente
dedicata a tecnologie e prodotti made in Italy. L’attenzione per il Paese birmano è testimoniata anche dalle
iniziative predisposte dalla sezione italiana dell’UNIDO (United Nations Industrial
Development Association), UNIDO
ITPO Italy, che nel marzo 2014 ha organizzato una missione di scouting in Myanmar che ha individuato nella produzione di
riso, nel supporto alle infrastrutture nelle aree rurali e nella lavorazione
del marmo i settori di maggior interesse per l’imprenditoria italiana.
Il miglioramento delle relazioni tra Italia e Myanmar ha portato ad un
incremento dell’interscambio commerciale tra i due Paesi che, sebbene non
rilevante in termini assoluti (75 milioni di euro nel 2013) mostra un trend in
forte crescita, con un +113% tra il 2012 e il 2013 e addirittura un +287% tra
il 2011 e il 2013. Nel 2013, il saldo commerciale è stato a favore dell’Italia
pari a €35 milioni in quanto le esportazioni italiane sono ammontate a €55
milioni (+134% su base annua) contro importazioni dal Myanmar per €20 milioni
(+72%).
L’apertura economica del Myanmar è un buon passo verso la riammissione
completa del Paese tra i membri “rispettabili” della Comunità internazionale
anche se la strada delle riforme per una vera democratizzazione è ancora lunga
dato che i militari esercitano ancora un’influenza preponderante. Inoltre,
Myanmar ha bisogno di una concreta pacificazione tra le varie etnie e religioni
che lo compongono, che proprio in questi giorni stanno infiammando il Paese con
scontri tra la comunità buddista e musulmana a Mandalay, nel Myanmar centrale.
I miglioramenti intrapresi dal governo hanno bisogno del sostegno della
Comunità internazionale che tuttavia non deve accontentarsi dei risultati
raggiunti mantenendo un’accorta vigilanza sul processo di riforme. Lo stesso
discorso vale per le multinazionali i cui investimenti devono contribuire ad un
miglioramento delle condizioni di lavoro e non devono essere solo finalizzate a
ridurre il divario accumulato con le aziende cinesi e indiane che hanno
continuato ad investire in Myanmar durante la dittatura militare.
I prossimi due anni saranno fondamentali per capire la direzione presa
dal Paese. Infatti il Myanmar avrà due sfide in cui potrà dimostrare la sua
maturità e volontà di cambiare: la presidenza dell’ASEAN per il 2014 e le
elezioni del 2015. E la modifica della Costituzione per consentire la
candidabilità di Aung San Suu Kyi alla presidenza sarebbe un ulteriore passo
nella giusta direzione.
Massimiliano Porto è direttore del Programma "Estremo Oriente"
dell'IsAG.
Fonti
Fonti
venerdì 5 settembre 2014
China to maintain manufacturing supremacy
In the
past three decades China has revolutionised global manufacturing. In that time
500m people have moved from its fields to its cities, creating an unprecedented
mass of factory workers. China's economy is changing, however, as wages rise
and labour unrest grows. Does this mean an end to its dominance of global
manufacturing? The Economist Intelligence Unit believes that new infrastructure
and further productivity growth, allied to a continued supply of new urban
workers, will keep China competitive, despite several new trends in supply
chains.
China's huge supply of
workers—its labour force will peak this year at around 802m—has been a boon for
low-cost manufacturers, and has kept wages low. This, along with high levels of
public investment in infrastructure, a stable political environment and
respectable education, pushed China from the world's seventh-largest
manufacturer in 1980 to displace the US as the world's biggest in 2010 when
measured by the value of goods produced in US dollar terms. Inevitably, China's
rise has been destabilising for existing manufacturing hubs. Some, such as
South Korea, have been able to deftly move up the value chain, but others, such
as South Africa and several economies in Central America, have seen their bases
hollowed out.
This success has brought
increasing prosperity to China, and with it upward pressure on wages and
working conditions. Unrest at factories in China run by a Taiwan electronics
manufacturer, Foxconn, from 2010 began to erode confidence in China as the
future of global manufacturing, generating speculation that producers of
labour-intensive goods would go in search of cheaper destinations. The
Economist Intelligence Unit believes that this story is overstated. By plotting
our forecasts for labour productivity growth against nominal wage growth in a
group of emerging economies in 2013-18, we discovered that there are few
destinations that will become more cost-competitive than China, and none that
will see their workers have a larger increase in productivity than those in
China.
Lagging behind
Among Asian markets,
Bangladesh is most frequently cited as an alternative to China for low-cost
export manufacturing. Yet Bangladesh is forecast to make the least progress
closing the competitiveness gap with China, with wages rising faster than in
China but labour productivity growing only one-half as quickly. Vietnam has a
similar rate of wage growth as China, but an appreciably slower rate of
productivity growth. Indonesia is much the same, and given that it also scores
below China in our business environment rankings (which evaluate the quality of
domestic policies for potential investors), firms that move from China to
Indonesia in the next several years are likely to do so for sector-specific
reasons; for example, because they can make better use of Indonesia's
less-skilled workers than other firms.
giovedì 4 settembre 2014
Outlook clouds as polls narrow
Indonesia's presidential election just got interesting. After spending the last 12 months as the runaway favourite, Joko Widodo, the down-to-earth reformist mayor of Jakarta, now has former military general Prabowo Subianto nipping at his heels. Recent polling data, not always reliable in Indonesia, has Mr Widodo's lead at around six percentage points and narrowing.
This election is probably the most significant since the fall of the Suharto dictatorship in 1998. Mr Widodo hails from outside of the usual elite, is untainted by corruption and would be likely to make good progress on enforcing the rule of law and improving the bureaucracy. Mr Subianto, on the other hand, is focusing on the resource nationalism that has kept Indonesia from reaching potential. Foreign investors are rightly nervous.
This election is probably the most significant since the fall of the Suharto dictatorship in 1998. Mr Widodo hails from outside of the usual elite, is untainted by corruption and would be likely to make good progress on enforcing the rule of law and improving the bureaucracy. Mr Subianto, on the other hand, is focusing on the resource nationalism that has kept Indonesia from reaching potential. Foreign investors are rightly nervous.
For the world, the collapse of the Arab Spring heightens the symbolic role of Indonesia as the largest Muslim democracy. Indonesia will also strongly influence the future path of the Association of South-East Asian Nations, a ten country alliance with 630m people and an economy that will be as big as Germany's by 2018.
I'll be watching closely on July 9th. Will this election result change your activity in south-east Asia? Let me know on Twitter @Baptist_Simon or via email on simonjbaptist@eiu.com.
I'll be watching closely on July 9th. Will this election result change your activity in south-east Asia? Let me know on Twitter @Baptist_Simon or via email on simonjbaptist@eiu.com.
Best regards,

Simon Baptist
Chief Economist and Asia Regional Director

Simon Baptist
Chief Economist and Asia Regional Director
mercoledì 3 settembre 2014
Buona Lettura
Anno Accademico 2014-2015
Dopo la pausa estiva, riprendono le pubblicazioni dei post. Saranno messi anche quelli relativi a Luglio ed Agosto per completamento di archivio e non avere buchi per le ricerche, ma non saranno rinviati
A Tutti,
frequentatori, studenti e lettori un augurio di una felice ripresa e di un proficuo lavoro
(email geografia2013@libero.it)
Buona lettura
Anno Accademico 2014-2015
Dopo la pausa estiva, riprendono le pubblicazioni dei post. Saranno messi anche quelli relativi a Luglio ed Agosto per completamento di archivio e non avere buchi per le ricerche, ma non saranno rinviati
A Tutti,
frequentatori, studenti e lettori un augurio di una felice ripresa e di un proficuo lavoro
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