Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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martedì 15 dicembre 2015

Gli interessi strategici di Russia e Turchia


 Dal momento in cui la Russia ha iniziato a operare stabilmente in Siria sono state compiute diverse violazioni dello spazio aereo turco: i velivoli da combattimento russi hanno sconfinato nello spazio aereo di Ankara in più occasioni. Le violazioni di maggiore rilevanza si sono verificate il  3 e 4 ottobre scorsi; in questi due casi aerei Su-24 e Su-30SM sono entrati nello spazio aereo della Turchia per diversi minuti, nonostante gli avvertimenti della difesa aerea. Il 24 novembre, un Su-24 russo è stato abbattuto al confine fra Siria e Turchia da caccia F-16 in seguito ad uno sconfinamento di circa 17 secondi nel territorio turco. L’abbattimento dell’aereo da guerra russo non è stata una semplice risposta all’ennesimo sconfinamento compiuto dall’aviazione russa. Quest’ultimo deve essere interpretato come la conseguenza naturale dell’avanzata dell’esercito siriano nel nordovest della Siria, nei pressi di alcuni villaggi a maggioranza turcofona, occupati dalle milizie d’opposizione turkmene, che al momento costituiscono un supporto fondamentale di Ankara nella zona nord-occidentale del paese. In questo scenario la Russia ha avuto un ruolo rilevante, effettuando dei raid aerei a supporto dell’offensiva siriana. La Turchia vuole impedire che la regione di Aleppo cada nelle mani dell’esercito siriano, il quale, con l’aiuto dei bombardamenti russi, sta accerchiando la parte della città ancora in mano ai ribelli. Inoltre Ankara sta facendo leva sulla diffusa preoccupazione europea che tra i profughi possano infiltrarsi i terroristi dello Stato Islamico. La notevole pressione che sta esercitando sulle forze occidentali ha come fine quello di ottenere il supporto per la creazione delle zone sicure o No fly zone nel nord della Siria, le quali potrebbero contenere campi profughi ed evitare che gli sfollati proseguano nel loro transito verso l’Europa. Si tratterebbe di fasce territoriali occupate, alle quali l’esercito siriano e i suoi alleati non avrebbero alcun accesso. In realtà il vero obiettivo è arrestare l’avanzata delle milizie curde dell’Ypg lungo il confine e mantenere aperti i canali di collegamento con i gruppi ribelli islamisti siriani appoggiati da Ankara. La Russia vuole evitare che ciò avvenga. In una prospettiva a lungo termine la Turchia teme che un’eventuale federalizzazione del territorio siriano permetta ai curdi di prendere il sopravvento sui territori che delimitano il confine fra la stessa Turchia e la Siria,  negando alla prima l’accesso al territorio siriano. Se il territorio siriano occupato dai curdi dovesse ottenere un riconoscimento internazionale come stato autonomo entro determinati confini, potrebbe spingere all’insurrezione i 10 milioni di curdi che popolano la Turchia e alimentare le ovvie pretese di autonomia.
Al momento ci sono fattori importanti che dovrebbero evitare l’escalation fra Turchia e Russia:
·       Le imprese turche hanno costruito una parte consistente delle infrastrutture dei giochi olimpici di Sochi; in cambio i Russi hanno ottenuto l’appalto per costruire una centrale nucleare sulle coste mediterranee della Turchia.
·       La Turchia è il secondo acquirente per quantità di grano importato dalla Russia dopo l’Egitto. Negli ultimi mesi ha acquistato 1,6 milioni di tonnellate di grano dalla Russia. Se questo scambio commerciale dovesse essere interrotto la Turchia sarebbe costretta ad acquistare il grano da altri paesi ad un prezzo più alto.
·       La Turchia è il secondo importatore di gas naturale russo al mondo. Mesi fa i due paesi hanno approvato la costruzione di un gasdotto attraverso il Mar Nero.
·       Buona parte del materiale pesante che la Russia trasporta verso la Siria segue una rotta marittima che include lo stretto dei Dardanelli, un canale di transito al quale non potrà rinunciare.
·       Negli ultimi anni la Turchia è stata una delle principali mete turistiche dei russi. Solo nel 2014 più di tre milioni di visitatori russi hanno speso 3,6 miliardi di dollari. Nello stesso anno il commercio tra questi due stati ha superato i 30 miliardi di dollari.
L’eventuale deterioramento dei rapporti economici e diplomatici fra Mosca e Ankara dipende dalla possibile sospensione delle sanzioni imposte a Mosca in merito alla questione ucraina. Nel caso in cui dovessero essere  ripristinati gli scambi commerciali tra Europa e Russia, quest’ultima potrebbe  interrompere il partenariato economico con la Turchia e continuare ad operare contro i ribelli siriani e le minoranze turcofone nel nord della Siria, alimentando un clima di tensione già alto.

Alessandro Ugo Imbriglia


mercoledì 2 dicembre 2015

Siria e Iraq al centro degli interessi internazionali



In Siria, nelle ultime settimane, le potenze sunnite hanno fornito missili anticarro a gruppi dell’Esercito Siriano Libero e del Fronte Islamico, mentre non si dimostra efficace l’offensiva delle forze armate del regime, sostenute dal supporto logistico e militare iraniano oltre che dai raid russi. Dunque il piano di Vladimir Putin, finalizzato a facilitare lo scontro tra Assad e i jihadisti per aumentare il potere di contrattazione del regime in un eventuale patto con la comunità internazionale, si sta rivelando più complicato del previsto. La Russia vorrebbe svolgere un ruolo da protagonista nella soluzione della crisi, perché ne uscirebbe rafforzata sul piano del prestigio, consolidando la propria posizione in Medio Oriente. Per tal motivo sta rafforzando i contatti con le altre potenze internazionali, lasciando intendere che la resistenza potrebbe partecipare al negoziato. La Russia sarebbe favorevole ad un passo indietro del presidente siriano dopo le elezioni, mentre Stati Uniti, Arabia Saudita e Turchia sosterrebbero le elezioni solo dopo l’uscita di scena di Assad. Nel frattempo, sul fronte iracheno, l’esercito e le tribù sunnite locali hanno sottratto il 40 per cento della provincia di Ramadi, a circa 127 chilometri a ovest di Baghdad, al gruppo Stato Islamico, compreso l’impianto di raffinazione di Baiji. La provincia di Ramadi si estende per 138.500 chilometri quadrati nella parte occidentale del paese, e prima del conflitto aveva un milione e mezzo di abitanti. Una seconda operazione via terra, condotta dai peshmerga e coaudivata dalle forze statunitensi è stata effettuata a sette chilometri a nord dalla città di Hawija,  nell’area occidentale dell’Iraq, al confine con il Kurdistan iracheno, e ha condotto alla liberazione di circa settanta ostaggi che stavano per essere giustiziati. Era  previsto che le truppe statunitensi si limitassero a fornire consulenza ai combattenti curdi, ma sono intervenute sul campo a causa delle difficoltà incontrate dal contingente curdo. Durante l’incursione ha perso la vita un militare statunitense, il primo da quando il presidente Obama ha ordinato il ritiro delle truppe dall’Iraq nel 2011. Inoltre è la prima volta che un soldato americano perde la vita in un combattimento sul terreno contro il gruppo Stato islamico. Il soldato è stato colpito a Hawija e poi trasportato all’ospedale di Erbil, dove è deceduto. A questo punto  sarà fondamentale per le forze irachene consolidare le due vittorie e giungere ad una riconciliazione con gli abitanti dei territori sottratti al controllo dello Stato Islamico. Una fonte del ministero della difesa iracheno ha rivelato che il governo iracheno non era stato informato dell’operazione di salvataggio. In questo quadro complicato gli Stati Uniti provano a coniugare gli interessi delle forze curde con gli obiettivi delle autorità irachene, che combattono entrambe contro lo Stato islamico, nonostante l’equilibrio precario che ha contraddistinto da sempre i loro rapporti. Dall’anno scorso diversi consiglieri militari e istruttori statunitensi sono tornati in alcune zone dell’Iraq per addestrare le truppe irachene e i combattenti curdi. A questo punto  sarà fondamentale per le forze curde ed irachene consolidare le due vittorie e giungere ad una riconciliazione con gli abitanti dei territori sottratti al controllo dello Stato Islamico.


Alessandro Ugo Imbriglia

venerdì 27 novembre 2015

Cina la prospettiva militare

Orizzonte Cina
Pechino: Nato, Ue e vicinato d'Italia 
Giuseppe Cucchi
09/12/2015
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Che Cina ed Europa potessero giungere ad avere interessi e preoccupazioni di sicurezza condivisi o contrapposti, ma in ogni caso comuni sembrava - più o meno sino al 2010 - un’ipotesi ben lontana dal potersi un giorno realizzare.

Più che la considerevole lontananza geografica era infatti la pressoché completa reciproca estraneità dei due protagonisti negli ultimi sessant’anni che finiva col condizionare una percezione almeno in parte ancorata a stereotipi ormai sorpassati dai fatti e dalla storia.

Diverso invece il caso dell’Alleanza atlantica, inevitabilmente condizionata dalla presenza di un’America che aveva iniziato molto presto a considerare Pechino come il più immediato - e quindi il più pericoloso - dei potenziali aspiranti a sostituirla al vertice della leadership mondiale.

Un peccato mortale per un paese che - come gli Stati Uniti - non sopporta l'idea di essere considerato una potenza in declino, destinata, in un giorno ormai non molto lontano, a non essere più la prima superpotenza.

L’aleatorietà dei rapporti Cina Nato 
Così, almeno sin dall'inizio di questo secolo, la crescente preoccupazione americana per la crescita cinese ha finito con l'estendersi anche alla Nato: rimanendo all'inizio una preoccupazione vaga e lontana, ma divenendo molto più attuale nel momento in cui l'Alleanza ha superato tutti i vincoli di membership, di missione e di area geografica previsti dal suo trattato costitutivo per guidare un’articolata “coalition of the willing” in una missione afgana che si sta concludendo solo ora in un crepuscolo pieno di incertezze.

Con tale missione la Nato entrava a gamba tesa in Asia centrale, in una zona che si poteva considerare come un “backyard cinese”, secondo la terminologia americana, o come un “near abroad di Pechino” secondo quella russa.

La presenza più che decennale dell’Alleanza in Afghanistan, oltre ad avere un effetto stabilizzante per tutta l’area, ha permesso altresì alla Cina di non impegnarsi direttamente nel contenere l’espansione dell’estremismo islamico e il suo travaso dall’area pashtun afgana a quella uigura cinese.

Un fatto che spiega perché Pechino abbia tollerato per un periodo tanto lungo la presenza Nato in zone così prossime al suo territorio nazionale senza tentare di contrastarla in alcun modo e in alcuna sede.

Le difficoltà e i contrasti che potrebbero insorgere fra Pechino e l’Alleanza si concentrano così al momento soltanto sul contenzioso in atto nel Mar cinese meridionale, rimanendo, quindi, sino a prova contraria, unicamente potenziali.

Almeno in teoria la Nato dovrebbe infatti rimanere del tutto indifferente a una disputa tanto lontana dalla sua area e così estranea ai suoi interessi.

Se però le cose dovessero avviarsi su una china negativa, un’eventuale presa di posizione dura da parte degli Stati Uniti non potrebbe non ripercuotersi sull’Alleanza, ove l’azione congiunta di Washington e di un establishment Nato alla disperata ricerca di missioni che ne giustifichino la sopravvivenza finirebbe probabilmente col tradursi in qualche forma di coinvolgimento.

Un indizio di quanto potrebbe succedere è dato tra l’altro dal fatto che la Nato ha già da tempo rapporti particolari con il Giappone, mentre non ne intrattiene alcuno con la Cina.

Ue-Cina, sulla sicurezza rapporti stabili
All’aleatorietà dei rapporti della Cina con la Nato nel settore della sicurezza si contrappone la sostanziale stabilità di quelli con l’Unione europea, rimasti invece molto buoni, nonostante esistano fra i due protagonisti contenziosi - in atto e potenziali - che potrebbero col tempo rivelarsi pericolosi, e malgrado il fatto che i paesi dell’Unione siano al contempo, in maggioranza, anche membri dell’Alleanza atlantica.

Un comportamento vagamente schizofrenico da parte di alcuni protagonisti che seguono in pari tempo - nelle due diverse sedi - politiche in parte divergenti fra loro? La dimostrazione di quanto fortemente si possa far sentire in ambito Nato l’influenza degli Stati Uniti, che invece possono influire soltanto indirettamente sull’Unione?

Questo e altro, certamente, ma allo stesso tempo anche la piena coscienza di come la Cina possa progressivamente evidenziarsi come un partner importante e un protagonista di assoluto rilievo non soltanto nell’ambito politico ed economico ma anche in quello della sicurezza comune.

Molto gradualmente, la Cina è effettivamente riuscita ad avvicinarsi all’Europa, per lo meno per tramite delle proiezioni di forza oltremare. In Africa la presenza cinese si è progressivamente infittita negli ultimi vent’anni, arrivando a coprire con una rete capillare più o meno tutti i paesi del continente.

E non si tratta certamente di piccoli numeri: quando dovettero evacuare i connazionali dalla Libia in fiamme, i cinesi trassero in salvo oltre 35mila persone.

In parallelo alla crescita di tale presenza è altresì aumentata ovunque anche l’influenza cinese, ovviamente a discapito di preesistenti condizioni di privilegio, per la gran parte inglesi o francesi.

L’Europa si trova quindi a confrontarsi, in questo momento, con l’influenza crescente di un paese che è una grande potenza e che sempre più afferma la propria presenza sulla sponda meridionale del Mediterraneo, attraverso un processo che almeno potenzialmente potrebbe instradarla su una rotta di collisione con le due maggiori potenze militari dell’Unione.

La presenza cinese nel Mediterraneo e in zone contermini si esprime poi, ogni giorno di più, anche in altre forme che più direttamente coinvolgono il concetto di sicurezza. Contingenti di Pechino sono schierati da tempo con le forze Onu in Libano e nel Mali.

La Marina cinese è reduce da recenti manovre congiunte con quella russa nel bacino orientale del Mare nostrum. Contemporaneamente, essa coopera con le Marine Nato nell’azione anti-pirateria a sud di Suez.

Il Ministero degli affari esteri cinese ha evacuato qualche mese fa dallo Yemen travolto dalla guerra civile i connazionali a rischio - questa volta circa 600 - preoccupandosi inoltre di trarre in salvo anche i resortissants dell’Unione europea. Un bel gesto nei confronti dell’Europa, e una chiara dimostrazione di programmata efficienza.

Nel contempo, però, Pechino continua a insistere in tutte le sedi possibili perché l’Ue si decida a rispettare le promesse - più volte fatte e mai tradotte in realtà - di porre fine a un embargo sull’esportazione di armamenti in Cina che pressioni americane e veti inglesi hanno sino a questo momento impedito di revocare.

Revival delle vecchie Vie della seta 
In un certo senso si ha l'impressione di essere dinanzi a un articolato disegno strategico, quasi una enorme e complessa tela che di giorno in giorno sempre più si infittisce ed è probabilmente destinata a ricevere ancora maggiore impulso dal colossale progetto cinese di ripristino e ampliamento delle antiche “Vie della seta”, l’una terrestre e l’altra navale, che, partendo dalla Cina, avranno entrambe come terminali paesi dell’Unione.

Considerando come esse dovrebbero essere destinate a incrementare in grande misura flussi di commercio già ora molto consistenti, si comprende con facilità quale possa essere domani la dimensione dei problemi di sicurezza che Ue e Cina dovranno essere in condizione di gestire insieme.

Sorgono però spontanei, a questo punto, due fondamentali interrogativi destinati a rimanere entrambi senza risposta, almeno per il momento. Il primo riguarda la capacità di un’Ue che è ancora priva di una vera politica estera e di sicurezza comune di affrontare sfide di queste dimensioni e complessità.

Il secondo consiste invece nel chiedersi se e fino a quando durerà l’interesse europeo nel mantenere in vita un’Alleanza atlantica che ha già pesantemente contribuito a guastare i rapporti tra l’Europa e la Russia e che rischia di porci in tensione, in futuro, anche con la Cina.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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venerdì 20 novembre 2015

Cina: Le prospettive economiche

Cina
Il piano quinquennale sempre meno cogente 
Romeo Orlandi
07/12/2015
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"Dobbiamo essere realistici e ammettere che per un periodo di tempo considerevolmente lungo a venire, i nostri piani economici nel complesso possono essere solo a grandi linee ed elastici e non possiamo fare più che esercitare un controllo effettivo sulle questioni principali, puntando a un equilibrio generale nella pianificazione e attraverso la regolamentazione con mezzi economici, consentendo nel frattempo flessibilità su quelle di minore importanza".

Queste impegnative affermazioni hanno il marchio del CC del Partito comunista cinese nel 1984, quando l’impostazione collettivista di Mao stava per essere smantellata.

La straordinaria, efficace, virata di Deng Xiao Ping ha costruito i binari sui quali viaggia ancora spedita la locomotiva cinese. Senza sorprese né deviazioni la recente assise del Pcc ha infatti consegnato l’impalcatura del 13̊ piano quinquennale che sarà perfezionata e approvata nella primavera del 2016 dall’Assemblea nazionale del popolo.

Il lessico è rimasto invariato dai tempi della pianificazione sovietica; la liturgia è immutabile: da 66 anni la continuità è sacra; da millenni, nelle storia cinese, la forma è sostanza.

Imprese private sempre più dinamiche 
Tuttavia, la società e l’economia cinese sono radicalmente cambiate. Le “questioni principali” sono effettivamente rimaste in mano al partito-stato, ma quelle “di minore importanza” sono cresciute esponenzialmente. Le imprese pubbliche concorrono con quote decrescenti alla formazione del Pil.

Sono ancora importanti per l’occupazione, i settori strategici, i canali opachi che le legano al governo. Sono però le imprese private a mostrare maggiore dinamismo, abilità imprenditoriali, capacità di generare reddito nella catena globale del valore.

Anche l’export registra il dominio pressoché assoluto delle aziende private e delle multinazionali che hanno investito in Cina. Rimane invece forte il controllo politico della sfera economica, come se a essa fosse stata concessa una delega per le sue migliori capacità di produrre ricchezza sociale.

Made in China 2025, occhio alla qualità
Il blueprint del 13̊ piano quinquennale riflette in pieno questa contraddizione: l’impossibilità di gestire l’economia, non poterne prendere le redini pur mantenendone il controllo. Tornare alla vecchia impostazione è oggi impossibile. Non a caso, anche in cinese la parola “piano” è stata sostituita da “linee guida”.

Quelle enunciate erano attese. Il primo obiettivo sarà la combinazione tra innovazione e miglioramento tecnologico. È un percorso obbligato se la Cina intende uscire da una dimensione quantitativa della crescita, che per tanti, troppi anni l’ha relegata al ruolo di opificio mondiale.

La gigantesca macchina da merci impiantata sul suo territorio l’ha redenta dal sottosviluppo ma ha consegnato il suo futuro a un’incessante produzione. La Cina è nota per essere “la fabbrica del mondo”, non per la sofisticazione dei suoi prodotti. L’obiettivo del piano è promuovere il programma “Made in China 2025”, nell’orgoglio di saper offrire al mondo la qualità cinese.

La green economy cinese 
La scelta della green economy - altra priorità del piano - è sia un obiettivo intermedio che uno strumento utile. Sono consegnati alla storia - o dovrebbero esserlo - le negligenze sull’inquinamento da carbone, l’irresponsabile emissione di Co2, le visioni del traffico impazzito nelle metropoli.

Siamo ancora in presenza di una contraddizione: la Cina è il principale responsabile dell’inquinamento e il paese che spende di più per combatterlo. Lo stesso sforzo di servire l’industria è stato affidato allo sviluppo di internet e della rete, per la loro capacità di tagliare orizzontalmente tutti i settori produttivi.

La riforma del sistema finanziario è l’auspicio probabilmente più ambizioso del piano. Si articola in una maggiore libertà nel mercato dei capitali, nella convertibilità del renminbi, nella richiesta di includerlo tra le valute di riserva del Fondo monetario internazionale. Su questo terreno le resistenze interne e internazionali saranno serrate, perché la riforma si annuncia destabilizzante per interessi ed equilibri consolidati.

È stato infine annunciato un miglioramento del welfare state, con l’estensione delle coperture assicurative per le malattie e un miglioramento del sistema pensionistico. Sono segnali importanti per incrementare il consenso, garantire la stabilità e consegnare alla storia ineguaglianze sociali sempre meno giustificabili.

Il piano quinquennale riprende dunque temi già avviati dal governo; li codifica, ma non li introduce. La sua funzione è simbolica e programmatica, ma sempre meno cogente. Conferma che ogni decisione cinese è frutto di sintesi prima ancora che di scontro tra linee antitetiche, anche se questo non significa che le decisioni prese saranno redditizie o indolori per tutti.

Romeo Orlandi è Sinologo, economista, Professore di Economia dell’Asia Orientale all’Università di Bologna.
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mercoledì 18 novembre 2015

Orizzoniti Cina: La politica di trasformazione cinese ed altri articoli


 bimestrale OrizzonteCina (ISSN 2280-8035)*

In questo numero articoli su:

• La politica di difesa cinese: una trasformazione lunga trent’anni
• La strategia attuale della Cina e le lezioni del passato
• La Cina e il peacekeeping: una “potenza responsabile”?
• La privatizzazione della protezione del personale e delle infrastrutture cinesi all’estero
• La Cina è veramente vicina: Nato, Ue e il vicinato dell’Italia
• Le relazioni militari tra Cina ed Europa: dinamiche attuali e prospettive
• I dieci anni di Associna
• Come interpretare i dati sulle importazioni della Cina?
• Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi. Recensione


 Cliccare sopra le parole per andare agli articoli
Buona lettura!

venerdì 6 novembre 2015

Cina: verso la normalizzazione dei rapporti con Taiwan

Asia
La stretta di mano tra i signori di Cina e Taiwan
Nello del Gatto
09/11/2015
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Un minuto e passa di stretta di mano davanti a fotografi e videoperatori, contro 66 anni di gelo. L’incontro a Singapore tra il presidente cinese Xi Jinping e quello taiwanese Ma Ying-jeou è stato un momento centrale della vita politica e diplomatica asiatica.

Anche se la stretta di mano tra i due “cugini” assume un valore eccezionale ed apre la strada a speculazioni e a nuovi scenari, nessun risultatoè stato portato a casa.

Durante l’incontro, le due parti hanno rispettato le loro differenze, di forma e veduta. I due leader non si sono chiamati presidente, ma “signore”. A tavola non ci sono state bandiere e sui segnaposti il nome di Xi è stato scritto in cinese semplificato, mentre quello di Ma è apparso nella lingua tradizionale di Taiwan.

Pechino è rimasta ferma sulle sue posizioni di una sola Cina, secondo quanto già espresso nel 1992. In quell’anno, a Hong Kong ci fu un incontro tra esponenti della cinese Association for Relations Across the Taiwan Strait e la Taiwan’s Straits Exchange Foundation.

Il consenso verbale che ne derivò portò al riconoscimento comune del principio di “una sola Cina”, anche se con visioni diverse, che per i cinesi significa riunificazione con l’ex Formosa che ritorna sotto il controllo di Pechino, mentre per i taiwanesi del Kuomintang (il partito nazionalista) l’opposto, con la conservazione dello status quo e la non invasione cinese. Lo stesso consenso, non è invece riconosciuto dagli avversari politici di Ma e del suo partito.

Pechino ha inoltre voluto ribadire, sempre simbolicamente, la sua concezione di Taiwan come provincia ribelle e non come paese vero e proprio. Per evidenzialo ha inviato alla conferenza stampa finale Zhang Zhijun, presidente dell'Ufficio per gli affari di Taiwan della Repubblica Popolare. Un burocrate di medio livello.

Parallelamente, l'altra conferenza è stata presidiata da Ma che ha anche ribadito di aver chiesto spiegazioni a Xi dei missili posti a poche centinaia di chilometri dall’isola, ricevendone assicurazioni non belligeranti in merito.

Ma e la linea diretta con Pechino
Sin dalla sua elezione del 2008, Ma Ying-jeou ha cercato una linea diretta con Pechino e sotto la sua presidenza - ormai in scadenza - la distanza fra i due paesi si è notevolmente ridotta: sono ripresi i voli diretti tra molte città cinesi e Taipei; lo scambio commerciale bilaterale è cresciuto esponenzialmente arrivando, nel 2014, a 200 miliardi di dollari e numerose aziende taiwanesi, Foxconn in testa, si sono affrettate ad aprire fabbriche in Cina.

A questo si sommano i milioni di turisti, cinesi e taiwanesi, che viaggiano da un paese all’altro. Senza contare le vicinanze culturali e le imitazioni in termini di moda e stile di vita delle nuove generazioni.

Le prossime elezioni di gennaio sembrano però destinate a portare alla sconfitta di Ma a favore del Partito Democratico Progressista che non riconosce quanto deciso nel 1992. Temendo una colonizzazione che conduca alla perdita dell’attuale status del paese, annullando i traguardi raggiunti in termini politici e sociali, Pechino perché teme che Taiwan possa diventare una sorta di seconda Hong Kong che, mentre si avvicina sempre più al totale controllo di Pechino, pare perdere il principio di “un paese due sistemi” che l’ha governata fino ad ora.

Non a caso, a Taipei e in altre città taiwanesi, come successo già ad Hong Kong, soprattutto le nuove generazioni sono scese in piazza per protestare contro la stretta di mano e l’incontro tra i due presidenti.

Le prossime elezioni rischiano quindi di rallentare o addirittura interrompere il processo eventualmente iniziato con la stretta di mano di sabato a Singapore, un evento importante anche in chiave geopolitica per una serie di fattori.

L’ultimo disgelo della guerra fredda
Innanzitutto perché è stato l’ennesimo disgelo, semmai ne fosse rimasto qualcuno, della guerra fredda fra i due blocchi mondiali contrapposti. Taiwan è da sempre amica degli Usa, che oltre all’ex Formosa puntano sul Giappone per arginare nell’area l’influenza cinese.

In questi giorni di tensioni nel mar cinese meridionale - con le Spratly al centro di contese (anche Taiwan ne reclama alcune), navi militari Usa che le attraversano e i cinesi minacciano azioni anche di guerra - un riavvicinamento può aiutare.

Così come l’ingresso di Taiwan nella banca di sviluppo voluta dai cinesi (con un status appropriato, si è affrettato a spiegare Pechino) o nei due trattati transpacifici guidati uno dagli Usa e l’altro dalla Cina.

Fattore Taiwan nelle relazioni tra Cina e Vaticano
Infine, il riavvicinamento tra Cina e Taiwan può giovare anche al Vaticano che non ha relazioni diplomatiche con Pechino, anche a causa del suo riconoscimento di Taiwan.

Se negli ultimi anni il riavvicinamento tra Santa Sede e Pechino sembra aver aperto qualche spiraglio, il dialogo tra la Cina e Taiwan potrebbe portare risultati. Resta impensabile che la Cina possa permettere ad un paese straniero (Vaticano) di nominare sul proprio territorio funzionari (Vescovi) che controllano parte della popolazione. Ma qualche concessione potrebbe comunque essergli fatta.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo.
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domenica 1 novembre 2015

Cina: la crescita globale

Economia
Lo storico ruolo della Cina negli squilibri finanziari globali
Carlo Milani
31/10/2015
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Le turbolenze finanziarie che hanno colpito negli ultimi mesi la Cina hanno acceso un forte dibattito in merito ai potenziali contraccolpi sulla crescita globale.

A risentire di questo contesto sono, da un lato, i paesi emergenti, soprattutto quelli che basano il loro modello di business sulla produzione di materie prime, come ad esempio Brasile, Russia e Sudafrica. Alla diminuzione della produzione cinese si associa evidentemente la minor richiesta di beni di consumo.

A soffrire sono però anche i paesi avanzati che vendono questi beni e capitale alla Cina e agli altri emergenti. Ad agosto, ad esempio, la Germania ha registrato un calo dell’esportazioni del 5,2 per cento su base mensile, la flessione più consistente dal gennaio del 2009.

La Cina, dopo aver contribuito in modo determinante a creare le condizioni macroeconomiche e finanziarie che hanno poi portato alla crisi internazionale del 2007/2008, risulta essere ancora uno snodo cruciale per la stabilità/instabilità globale.

Dall’economia socialista al mercato globale 
Facendo un breve excursus storico, l’ingresso a pieno titolo dell’economia cinese nel quadro internazionale deve esser fatto risalire agli anni ’80. In quel periodo, e sotto la guida di Deng Xiaoping, venne adottata la cosiddetta economia socialista di mercato.

Il leader cinese introdusse una serie di riforme economiche volte a trasformare profondamente l’economia e in particolare l’agricoltura e l’industria. Nel settore agricolo si incentivò l’utilizzo della tecnologia al fine di aumentarne la produttività.

Come conseguenza, le braccia che prima venivano utilizzate nei campi potevano, ora, essere utilizzate nelle fabbriche. Si mise così in moto un processo di migrazione della popolazione dalle aree rurali alle aree urbane industrializzate, prevalentemente concentrate lungo le zone costiere. La popolazione urbana passò dai 190 milioni di abitanti circa del 1980 ai circa 750 milioni del 2014.

Contemporaneamente a questo esodo, la Cina, già dal 1986, avviò le procedure per entrare a far parte del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), divenuto in seguito Wto (World Trade Organization), il cui processo si è poi formalizzato nel 2001, garantendo all’economia cinese la possibilità di entrare a pieno titolo nei mercati globali.

Grazie all’impiego di un’immensa manovalanza a bassissimo costo e all’utilizzo di politiche valutarie particolarmente aggressive, che hanno determinato nel periodo pre-crisi una netta svalutazione della moneta cinese rispetto a tutte le principali valute internazionali, il commercio estero ha avuto un fortissimo impulso.

La bilancia delle partite correnti è arrivata a toccare il ragguardevole picco del 10 per cento del Pil nel 2007, spingendo il peso dell’economia cinese sul complesso del Pil mondiale, in termini di parità dei poteri di acquisto, a circa il 12 per cento contro il 3 per cento circa degli anni ’80.

Specularmente, il saldo di conto corrente degli Usa registrava una continua caduta, toccando il livello minimo di 6 punti di Pil nel 2006. In altri termini, la Cina riuscì, nel periodo pre-crisi, a inondare i mercati con i suoi prodotti che andarono a riversarsi soprattutto negli Stati Uniti.

Per finanziare il disavanzo delle partite correnti, gli Usa hanno ottenuto i capitali proprio dalla Cina. Gli ingenti capitali accumulati dall’economia cinese, posto il bassissimo livello dei tassi presenti nel mercato domestico per effetto delle politiche di svalutazione del cambio, sono andati alla ricerca di migliori rendimenti.

All’origine della bolla azionaria
Nella seconda metà degli anni ’90 gli investimenti sono confluiti soprattutto nel mercato azionario statunitense, attratti dagli ottimi rendimenti che il comparto della cosiddetta New Economy riusciva a offrire. Così facendo hanno però alimentato la generazione della bolla azionaria.

Quando quest’ultima è esplosa,i capitali sono andati a riversarsi soprattutto sul mercato obbligazionario (pubblico e privato) e ancor più sui titoli aventi come sottostante mutui immobiliari. Ancora una volta l’effetto è stato quello di generare una bolla speculativa negli Usa, nello specifico del mercato bancario ombra.

Con lo scoppio di questa nuova bolla, ancor più virulento rispetto a quello della New Economy, per le autorità cinese è divenuta evidente l’esigenza di rivedere il loro modello di business, cercando di sostenere di più la domanda interna e in particolare i consumi delle famiglie.

Gli eccessi degli anni passati, con l’immissione di ingenti quantità di liquidità soprattutto sotto forma di finanziamenti erogati dalle banche pubbliche alle imprese, anch’esse per buona parte controllate dallo Stato, hanno però surriscaldato oltre misura l’economia domestica.

I prezzi degli immobili hanno registrato negli anni una forte crescita, evidenziando la potenziale presenza di una bolla immobiliare. Inoltre, nel tentativo di spingere le famiglie a consumare di più attraverso l’azione degli effetti ricchezza, si sono attuate iniziative per far crescere artificialmente le quotazioni azionarie, ad esempio attraverso le operazioni al margine volte a concedere crediti aventi come scopo ultimo la speculazione finanziaria.

Il risultato è stato aver generato una bolla sul mercato azionario che nel momento della sua esplosione, nello scorso luglio, ha provocato il panico a livello internazionale con conseguenze ancora difficili da valutare compiutamente.

Carlo Milani è Economista presso il Centro Europa Ricerche. Questo articolo è tratto dal suo libro “Alle radici della crisi finanziaria. Origine, effetti e risposte”, Egea Editore, 2015.
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giovedì 29 ottobre 2015

Cina: rapporti energetici con gli stancountries

Energia
Cina ed Europa in Asia centrale: strategie a confronto
Nicola Casarini
21/10/2015
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Dal 1991, con la fine dell’Unione sovietica, i paesi che costituiscono l’Asia centrale - Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan - sono divenuti sempre più centrali nel calcolo strategico della Cina e dell’Unione europea (Ue).

Pechino e Bruxelles considerano la regione parte del proprio “vicinato” e competono sia per acquisire influenza politica che per garantirsi l’accesso alle ingenti risorse energetiche presenti nell’area.

La strategia cinese in Asia centrale
La strategia cinese in Asia centrale persegue quattro obiettivi: (1) sviluppo delle relazioni con i paesi in questione al fine di creare un ambiente regionale stabile che favorisca gli scambi commerciali; (2) accesso alle risorse naturali, soprattutto gas e petrolio; (3) contenimento della presenza americana nell’area; (4) lotta contro il terrorismo islamico che potrebbe destabilizzare le Regioni autonome del Tibet e dello Xinjiang confinanti con l’Asia centrale.

La strategia cinese nell’area ha assunto, negli anni, un pronunciato carattere politico-militare. Pechino si è fatta promotrice, dalla metà degli anni Novanta, dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Shanghai Cooperation Organisation – Sco) che include, attualmente, otto membri: i sei originari (Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan) più India e Pakistan, ammessi ufficialmente quali membri dell’organizzazione il 10 luglio 2015.

Dal 2005, ogni estate i paesi membri compiono esercitazioni militari congiunte, l’ultima delle quali si è conclusa alla fine dello scorso mese di agosto.

L’interesse prioritario di Pechino per l’Asia centrale rimane l’accesso alle ingenti risorse energetiche. Queste sono sempre più importanti per la Cina, che sta accelerando la transizione dal carbone verso petrolio e gas naturale: nel 2014 il carbone - primo responsabile per gli alti livelli di inquinamento dell’aria nel paese - ha generato il 64,2% dell’energia consumata in Cina, in calo dal 66% del 2013 e in linea con l’obiettivo governativo di scendere sotto il 62% entro il 2020.

La Cina importa petrolio dal Kazakistan attraverso un oleodotto inaugurato nel 2009 con una capacità di circa 200.000 barili al giorno. Si calcola che circa il 20% del greggio kazako sia destinato alla Cina.

Dal Turkmenistan la Cina importa gas naturale: un gasdotto costituito da due linee parallele, inaugurato anch’esso nel 2009, trasporta circa 30 miliardi di metri cubi l’anno. Una terza linea è in costruzione con una capacità totale potenziale di circa 65 miliardi di metri cubi. Il progetto attraversa l’Uzbekistan e il Kazakistan e prevede un ulteriore apporto di gas da entrambi questi paesi, per un totale di 15 miliardi di metri cubi.

La Cina è oggi il primo importatore al mondo di petrolio. Si calcola che la domanda cinese di gas per il 2020 sarà di oltre 300 miliardi di metri cubi. Si comprende, pertanto, quanto sia importante l’Asia centrale per Pechino e quanto sia difficile per gli europei tenere testa alla penetrazione cinese nell’area.

La costruzione del doppio gasdotto Turkmenistan-Cina, realizzato fra il 2006 e il 2009, ha infatti spiazzato la Ue che era in trattative da molto più tempo con il Turkmenistan e ancora non ha finalizzato il progetto che dovrà portare il gas turkmeno attraverso il Southern Corridor fino in Grecia.

La strategia europea in Asia centrale
Adottata nel 2007 e aggiornata nel 2012, la strategia della Ue per l’Asia centrale si propone quattro obiettivi: (1) conseguire la stabilità e la prosperità nella regione; (2) promuovere lo sviluppo di società aperte, lo Stato di diritto, la democratizzazione e la protezione dei diritti umani fondamentali; (3) contribuire alla sicurezza regionale e alla lotta al terrorismo islamico; (4) garantirsi l’accesso alle risorse energetiche di quei paesi.

Il momento di svolta nelle relazioni tra la Ue e le ex-Repubbliche sovietiche centro-asiatiche è stato il semestre di presidenza europea della Germania (gennaio-giugno 2007), al termine del quale è stata varata la nuova strategia europea verso l’Asia centrale. La Ue ha inserito la regione nella propria Politica di vicinato “rafforzata”, conferendo all’area una nuova rilevanza nella sua visione strategica.

Il 22 giugno 2015 sono state rese note le conclusioni del Consiglio Affari esteri che ha ulteriormente rivisto la strategia della Ue per l’Asia centrale dopo che il 15 aprile 2015 il Consiglio della Ue aveva nominato Peter Burian (ex-sottosegretario presso il Ministero slovacco degli Affari esteri) rappresentante speciale dell’Ue per l’Asia centrale con il compito di promuovere il coordinamento politico delle varie attività e programmi europei e monitorare l’attuazione complessiva della strategia Ue. Il suo primo mandato scadrà il 30 aprile 2016.

La dotazione globale per la cooperazione bilaterale e regionale della Ue con l’Asia centrale per il periodo di programmazione 2014-20 è di 1,068 miliardi di euro, un incremento del 56% rispetto al periodo 2007-2013.

L'assistenza è incentrata sull'istruzione, la sicurezza regionale, la gestione sostenibile delle risorse naturali e lo sviluppo socio-economico. A differenza della Cina, la strategia della Ue pone particolare attenzione al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

Lo strumento europeo per la democrazia e i diritti umani funziona in tutti i paesi dell’area ad eccezione dell'Uzbekistan e del Turkmenistan, dove le organizzazioni della società civile sono presenti in un numero troppo esiguo, sono poco organizzate e sottoposte a rigidi controlli.

Anche per l’Europa, comunque, la dimensione economica rimane centrale, in particolare l’accesso agli idrocarburi di Kazakistan e Turkmenistan. È soprattutto con questi due paesi che la Ue ha sviluppato le relazioni commerciali più intense negli ultimi anni (con gli altri paesi dell’area gli scambi rimangono alquanto limitati).

Nell’ottobre 2014 si sono conclusi i negoziati per un nuovo e rafforzato Accordo di partenariato e cooperazione (Apc) con il Kazakistan, che dovrebbe essere firmato entro la fine del 2015, mentre i negoziati con il Turkmenistan sono ancora in corso.

Nonostante abbia inserito l’Asia centrale nella sua politica di vicinato “rafforzata”, la Ue rimane un attore complessivamente marginale nella regione, soprattutto rispetto a una Cina che è diventata il primo partner commerciale di tutti i paesi dell’area.

Il progetto di una “Cintura economica della via della seta” annunciato da XiJinping nel novembre 2013 e che interessa tutta l’Asia centrale può sicuramente presentare opportunità per sinergie tra Bruxelles e Pechino - in particolare per lo sviluppo delle infrastrutture e il mantenimento della sicurezza regionale. Cina ed Europa rimangono, però, in definitiva, competitori nella regione, sia sul piano economico e strategico, che su quello dei valori.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Nicola Casarini, responsabile di ricerca Asia, Istituto Affari Internazionali (IAI).
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mercoledì 14 ottobre 2015

INDIA: prospettive navali

Cooperazione marittima
Un simposio sull'Oceano indiano
Francesco Valacchi
06/10/2015
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Dacca 2016: è questo l’appuntamento del prossimo Simposio navale dell’Oceano indiano, i cui lavori preparatori si sono tenuti a Karachi, in Pakistan, dal 15 al 18 settembre.

L’Indian Ocean Naval Symposium, Ions, è un gruppo di lavoro internazionale formato da paesi costieri dell’Oceano indiano ed aree immediatamente limitrofe col fine di implementare una cooperazione marittima improntata sulla condivisione di informazioni e la realizzazione di operazioni di sicurezza navale congiunte.

I paesi partecipanti sono 22 (oltre a vari paesi osservatori ed aspiranti tali) e sono raggruppati per quattro macroregioni geografiche: costieri dell’Asia meridionale, costieri dell’Asia occidentale (fra cui vari paesi del Golfo Persico), costieri dell’Africa orientale (fra cui Somalia, Sud Africa e Francia, per via del suo possedimento dell’isola della Réunion), costieri del Sud est asiatico e Australia (come Myanmar e Singapore).

L’importanza dello strumento è presto spiegata: oltre ad annoverare come membri l’India (potenza dell’Area Oceano indiano) e la Cina (come paese osservatore) vede la presenza di rivali strategici di New Delhi come il Pakistan e concorrenti alla supremazia come l’Australia.

L’Ions è quindi per l’India, la Cina e l’Australia il terreno di gioco sul quale disputare importanti partite nella condivisione, raccolta e sfruttamento delle informazioni, nella cooperazione internazionale marittima, ma anche nella rappresentazione internazionale del proprio soft-power.

Politica navale indiana
La politica navale indiana ha avuto una radicale evoluzione dal ruolo di semplice contenimento dei vicini rivali ad una sempre più forte aspirazione all’allargamento del suo status di potenza.

Col principio del nuovo secolo, New Delhi ha infatti iniziato a convertire la propria politica navale trasformandola in un costante tentativo di prevenire interventi esterni nell’area Oceano indiano, puntando su una strategia più proattiva di controllo e sfruttamento delle rotte.

L’evoluzione è stata naturale, dal momento che con la stabilità economica raggiunta sotto la guida del premier Manmohan Singh la Confederazione ha iniziato a vedere naturalmente riconosciute le proprie aspirazioni di potenza regionale e di conseguenza viene sempre di più vista come naturale portatore di sicurezza dell’area. L’India è diventata quindi principale sostenitrice e animatrice del Simposio.

Protagonismo del Pakistan
Inoltre, il Pakistan sta divenendo sempre più parte attiva dell’Ions a causa anche delle rivalità fra Islamabad e Nuova Delhi ed alla alleanza del Pakistan con la Cina.

Per la prima istanza il Pakistan tende a cercare una posizione più forte nel Simposio per una fungibilità di questa come leva nel suo rapporto di alti e bassi con Nuova Delhi.

Come alleato della Cina, il Pakistan rappresenta un importante sostegno interno per la promulgazione delle politiche marittime di Pechino e l’acceso del suo governo alle dinamiche funzionali interne all’organizzazione.

L’importanza del Pakistan - diventato parte attiva del Simposio lo scorso anno ed insignito del ruolo di organizzatore della conferenza preparatoria di settembre - sta crescendo quindi contestualmente al suo peso nel confronto fra le due superpotenze indiana e cinese.

Nuova via della seta
Tra i vari importanti risvolti internazionali del Simposio vale la pena di considerare che i paesi dell’Ions insistono su un’Area centrale negli equilibri di potenza mondiali, dove si svolge appunto il già evidenziato confronto fra India e Cina, e che sta crescendo di importanza con la creazione del sistema di comunicazione-collegamento della nuova Via della seta.

Il corridoio cinese sull’Oceano indiano costituisce il binario parallelo al collegamento terrestre. La nuova Via della seta sarà l’asse portante della comunicazione, del commercio e delle relazioni internazionali della Cina con i partner europei e mediorientali.

La Cina cercherà sempre più di imporsi sull’Oceano indiano, ma lo farà probabilmente con un profilo smart-power e soprattutto con l’immagine di fattiva collaboratrice dell’India, per evitare confronti diretti e perché l’obiettivo cinese rimane la libertà di movimento e certamente non la supremazia completa né tantomeno l’onere di portatore di sicurezza nell’area.

Lo strumento perfetto per tale orientamento è senz’altro un’associazione di cooperazione internazionale come il Simposio. Un altro elemento della questione è la sicurezza navale dell’Oceano indiano per l’Unione europea poiché oltre all’ormai annoso problema della pirateria (endemica nell’area) si fa sempre più forte il flusso di migranti da quest’area e soprattutto diventano sempre più macroscopici i fenomeni di attività illegali collegate ad esso.

Si pensi che i migranti verso l’Italia nel 2013 dall’Afghanistan sono stati circa 850 e dal Pakistan oltre 1500, gran parte di essi ha utilizzato rotte migratorie illegali passanti dall’Oceano indiano. L’aumento della sicurezza sul lungo termine, quindi garantito da attori dell’Area, diventa vitale in tal senso anche per l’Europa.

Il Simposio dell’Oceano indiano e altri strumenti simili sono quindi organizzazioni importanti per costruire una sicurezza basata sulla assunzione regionale della responsabilità e sulla cooperazione internazionale anziché sul confronto.

Considerata in tale chiave di lettura, l’emersione di paesi comprimari alla potenza regionale indiana, come il Pakistan in questo caso, non può che essere ben vista purché naturalmente avvenga con accordo fra le parti.

Francesco Valacchi si è laureato in Scienze Strategiche nel 2004 presso l’ateneo di Torino ed in Studi Internazionali presso quello di Pisa nel 2013. È appassionato di geopolitica e strategia; è ufficiale in servizio permanente effettivo nell’esercito italiano.
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venerdì 9 ottobre 2015

BImestrale ORIZZONTI CINA. Indice.

 Riportiamo l'indice del bimestrale Orizzonti Cina pubblicato IAI ad ottobre 2015

 OrizzonteCina (ISSN 2280-8035).


 In questo numero articoli su:

• “Una cintura e una via”: il modello dell’Asia centrale
• L’Afghanistan e la “Cintura economica della via della seta”
• Lo sviluppo sostenibile e la “Nuova via della seta”
• Quale sistema di sicurezza per i progetti infrastrutturali in Eurasia?
• Cina ed Europa in Asia centrale: strategie a confronto
• Tempo di fare chiarezza sulla shadow economy dei cinesi d’Italia
• Bisogna preoccuparsi per il mercato azionario di Shanghai?
• Uno sguardo sul documentario contemporaneo
• La Cina di Mao, l’Italia e l’Europa negli anni della Guerra fredda, a cura di Carla Meneguzzi Rostagni e Guido Samarani. Recensione



ulteriori informazioni: orizzonticina@iai.it

mercoledì 23 settembre 2015

Corea del Nord: una ulteriore disgrazia

SICCITA’ NELLA COREA DEL NORD

La Corea del Nord sta fronteggiando una delle peggiori siccità dell’ultimo secolo. Le conseguenze di questo flagello sono pesantissime per l’agricoltura, ove il 30%  delle risai si è prosciugato, secondo quanto ha comunicato l’agenzia Ufficiale Kana.

Negli anni novanta la Corea del Nord ha avuto un’altra pesantissima carestia che ha provocato morte e denutrizione. Si stima che la produzione agricola nordcoreana, secondo fonti sudcoreane, possa subire nel 2015 un crollo del 20%, qualora la siccità (giugno 2015) prosegua anche per il mese di luglio. Infatti le piantine di riso per produrre devono essere parzialmente sommerse all’inizio dell’estate per garantire il raccolto ad ottobre. Il riso è l’alimento di base della debole dieta nordcoreana e questa situazione porterebbe ad aggravare la già difficile situazione interna nordcoreana sotto il profilo della qualità della vita e dei beni di consumo disponibili.

giovedì 17 settembre 2015

L’Everest si è spostato ed abbassato


La montagna più alta del mondo, l’Everest, si è spostato di tre centimetri, dopo il devastante terremoto di magnitudo 7,8 della scala Richter che ha colpito il Nepal lo scorso 25 aprile, provocando oltre ottomila morti e milioni di danni.

Riportate dalla stampa locale di Kathmandu la notizia è tratta da fonti del Servizio Nazionale cinese di geoinformazione.

IL’Agenzia spaziale europea, inoltre, sulla base di dati satellitari, comunica che l’Everst si è abbassato di circa 2,5 centimetri, sempre a seguito del sisma,

 Per paura di scosse ulteriori, dato che il terremoto ha provocato una valanga sull’Everest, uccidendo 18 persone e distruggendo il  campo base degli scalatori, le Autorità nepalesi hanno proibito ogni scalata all’Everst per tutto il 2015

Massimo Coltrinari


lunedì 7 settembre 2015

Corea: un parallelo di nuovo pericoloso

La quasi ‘Guerra della radio’
Coree: nuove turbolenze al 38º parallelo
Francesco Celentano
06/09/2015
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Giovedì 20 agosto il Grande Successore Kim Jong Un, terzo discendente della prima e unica dinastia comunista della storia, ha ordinato alle proprie truppe di sparare contro un altoparlante situato nella zona demilitarizzata al confine con la Corea del Sud, che a sua volta non ha esitato a rispondere al fuoco con 60 cannonate, evacuando gli abitanti dei villaggi vicini.

Un fine settimana di nuove, quanto inaspettate, tensioni ha caratterizzato, quindi, la penisola coreana, da oltre 50 anni ultimo baluardo della Guerra Fredda.

Il giovane Kim ha riunito immediatamente la Commissione militare centrale del Partito, al termine della quale ha ufficializzato l’ultimatum, scaduto poi alle 17 (ora di P’yongyang) di sabato 21 agosto, con cui imponeva il cessare dell’attività propagandistica da parte della Corea del Sud, minacciata di un attacco militare “senza precedenti”.

Propaganda il casus belli
L’assetto di “semiguerra” imposto all’esercito nordcoreano (comandanti, truppe e sottomarini mobilitati), tra i più quantitativamente imponenti al mondo, derivava dall’intensificarsi degli scontri, solitamente solo propagandistici, di questi ultimi mesi tra le due Coree.

Il Sud ha ripreso, dopo circa 11 anni d’inattività, l’opera di propaganda anti regime comunista servendosi di altoparlanti posti, sul lato sudcoreano, lungo il confine con il Nord, ufficialmente per rispondere all’esplosione di una mina (di fabbricazione sovietica) che a inizio luglio è esplosa nei pressi della zona demilitarizzata istituita dalle Nazioni Unite al termine del conflitto, determinando il grave ferimento di due soldati sudcoreani.

Partendo dal presupposto che l’arte della provocazione senza esiti significativi è una delle maggiori “doti” che gli osservatori internazionali riconoscono al giovane leader nord-coreano (e a suo padre prima di lui), fa riflettere, alla luce degli ultimi accadimenti, anche parte del discorso tenuto da Kim Jong Un nel corso delle recenti celebrazioni per il 62° anniversario della firma dell’armistizio, del 27 luglio 1953, con la vicina Corea (unico atto su cui si fonda la tregua, per nulla pacifica, tra i due Paesi).

Il Grande Successore, parlando ai veterani e ricordando l’importanza dell’eterna vittoria - dicitura ufficiale di riferimento per il Regime -, ha avvertito che “in caso di nuove provocazioni il nemico avrebbe conosciuto la sua ultima fossa”.

Le manovre congiunte Sud/Usa
Oltre alla ripresa della propaganda si ritiene che altra causa d’irritazione per la Corea del Nord derivi dalle esercitazioni del programma Ulchi-Freedom Guardian che il governo di Seul sta conducendo, come avviene ogni anno da 11 anni, con gli Usa, quale reciproca prova di forza nella regione ed espressione della cooperazione tra l’esercito sudcoreano e i trentamila soldati statunitensi di stanza nel Paese.

Va detto che le tensioni militari e propagandistiche attuali si fondano anche e soprattutto sui burrascosi precedenti tra i due Paesi. Come se la storia dalla Guerra di Corea in poi non bastasse a definire un rapporto politico travagliato tra due Stati che prima erano uniti.

Gli episodi più recenti del 2010, quando il padre del leader attuale ordinò di affondare una nave della marina sudcoreana causando la morte di 46 dei 104 marinai a bordo e l’attacco all’isola di Cheonan sferrato qualche mese dopo, oltre a tutte le successive minacce di guerra poi ritirate dal Giovane Successore, sono il principale motivo per cui anche la Corea del Sud, più pacifica e diplomaticamente attiva, costantemente sotto pressione da oltre 50 anni, ha deciso di rispondere al recente attacco del Nord, portando avanti la linea dura voluta espressamente dalla prima donna presidente del Paese Park Geun-hye.

Dall’ultimatum alle trattative
Ancora una volta, confermando la regola della strategia della tensione tanto cara al Grande Successore, nulla è accaduto. Ultimatum, mobilitazione armata e proclami hanno lasciato il posto alla volontà di avviare dei colloqui, anche su pressione dell’alleato cinese che, a detta di molti osservatori, inizia a mal digerire i colpi di testa del capriccioso e militarizzato alleato.

Dopo oltre quaranta ore ininterrotte di trattative, tenutesi nello storico villaggio di Panmunjon - dove fu firmata la tregua del 1950 -, il rappresentante nordcoreano Hwang Pyong-So, secondo nella scala di comando del Paese, e il consigliere per la sicurezza nazionale sudcoreano Kim Kwan-jin hanno siglato un accordo in 6 punti.

Il rammarico nordcoreano per le mine al confine e lo smantellamento degli altoparlanti sudcoreani sono stati il punto di partenza di un accordo storico soprattutto per la decisione di riprendere le trattative per il ricongiungimento delle tante famiglie separate all’epoca della guerra e della conseguente chiusura dei confini.

Già in passato comunque i Kim avevano fatto ben sperare con colloqui e rapporti distesi dopo burrascose giornate di proclami. Negli Anni 90 si barattò una tregua sul nucleare (con l’adesione al Trattato di non proliferazione, poi ritirata) in cambio di rilevanti aiuti economici da parte di Stati Uniti e Onu.

Certamente, mentre Cina e Stati Uniti si limitano a vigilare sulla Penisola più militarizzata del mondo, il Sud continuerà a progredire aumentando il divario in termini di tutela dei diritti ed economia con il Nord, che invece sembra destinato a restare succube dei giochi di strategia dell’ultimo erede Kim, di cui la comunità internazionale, palesemente poco interessata ad un intervento diretto che potrebbe destabilizzare una regione così ricca di protagonisti e protagonismi, a questo punto, non può che attendere la prossima mossa.

Francesco Celentano, neolaureato in Giurisprudenza e praticante legale, si sta specializzando nello studio del diritto internazionale, già oggetto della sua tesi di laurea redatta durante un periodo di ricerca presso l'ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra.
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Pakistan. le prospettive di un conflitto

Lotta all’estremismo
Pakistan: i rischi della guerra di Karachi
Francesco Valacchi
07/09/2015
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A due anni dall’inizio del suo mandato, il governo di Nawaz Sharif ha impresso nuova forza ai provvedimenti atti a raggiungere uno degli obiettivi fondamentali delineati nella sua campagna elettorale: la lotta all’estremismo, soprattutto nella città di Karachi.

Infatti la capitale della provincia del Sindh, oltre ad essere il primo porto del Pakistan, con i suoi 62,25 milioni di tonnellate di traffico annuale, continua ad essere una delle maggiori spine nel fianco del governo di Islamabad.

Se la questione dell’instabilità e dell’estremismo islamico nelle Aree Tribali, nel Belucistan (la cui capitale Quetta è stata uno dei centri decisionali del movimento taleban) e nel Kashmir è endemica, la situazione a Karachi è invece andata compromettendosi negli ultimi trenta anni.

La città ha fra i più alti tassi di criminalità del paese e i crimini violenti sono all’ordine del giorno, come i reati connessi al terrorismo.

Il potere dell’Mqm e la sua storia
A farla da padrone dagli Anni Ottanta fino ad oggi, nella galassia dei movimenti estremistici, è stato il Muttahida Qaumi Movement, una formazione definita a più riprese estremista e che è considerata da alcuni Stati, fra cui il Canada, un gruppo terrorista.

Il Movimento partecipa alla vita politica pakistana e, nelle elezioni del maggio 2013 per l’Assemblea Nazionale della Repubblica Islamica del Pakistan, ha ottenuto 24 seggi, affermandosi come quarta forza politica del Paese.

Storicamente il Mqm è il movimento che rappresenta i cosiddetti Muhajir provenienti dall’India, cioè i musulmani di lingua urdu che preferirono la migrazione verso un futuro economicamente incerto al momento della divisione del Pakistan dall’India e della sua nascita come Stato indipendente.

Dal momento della sua nascita a oggi, il Movimento ha affrontato una travagliata storia, difendendo gli interessi delle classi medie pakistane dalle tendenze ritenute eccessivamente riformiste del Pakistan People Party della famiglia Bhutto, ma anche dalle tendenze conservatrici del Pakistan Muslim League.

Allo stesso tempo il Movimento ha fidelizzato un suo elettorato nella regione del Sindh, dove si trasferirono inizialmente gran parte dei Muhajir. Ma i suoi dirigenti e funzionari hanno anche intessuto una serie di legami con il crimine organizzato, specialmente nella città di Karachi, che ne hanno fatto una vera e propria formazione in contrasto con le istituzioni statali.

La forza del Mqm negli anni dal 1980 ad oggi è stata tale che la città di Karachi (ed il territorio nelle sue strette vicinanze) non può essere considerato sotto il completo controllo di Islamabad.

È una situazione particolare e ai limiti del paradosso per una visione occidentale, ma in certi quartieri di Karachi si respira un’atmosfera molto simile a quella di un governo ombra radicato e diffuso sul territorio, estraneo al potere di Islamabad, ma retto da un partito che partecipa alla vita politica pakistana, il Mqm appunto.

L’operazione Clean-up e i suoi effetti
Nel 1992, il governo organizzò una grande repressione contro il Movimento. Il nome dell’operazione fu Clean-up e costò la vita a migliaia di militanti estremisti, criminali comuni legati all’Mqm e semplici lavoratori vicini al Movimento.

Durante le violenze, a volte ingiustificate, perpetrate dall’esercito contro i sostenitori dell’Mqm, i principali dirigenti, compreso il capo indiscusso Altaf Hussain fuggirono rifugiandosi in Europa, da dove continuano a guidare il partito.

L’operazione Clean-up venne lanciata non a caso mentre l’esecutivo nazionale era guidato da Nawaz Sharif, segretario del PML-N, acerrimo avversario politico del Mqm, che invece sostenne in passato Parvaiz Musharraf.

L’operazione riuscì a stabilire il controllo del governo su Karachi per un brevissimo periodo, dopo il quale l’Mqm, grazie alla connivenza di certe fazioni dell’esercito legate a Musharraf, riuscì a riprendere il controllo della città.

Karachi oggi, un intreccio di operazioni
Una serie di azioni della polizia e delle forze anti-terrorismo pakistane, al fine di riconquistare il controllo completo della città di Karachi, sono state condotte tra marzo e agosto. Non a caso nuovamente sotto la spinta dell’esecutivo Sharif.

In particolare sono state condotte sia azioni sul campo, sia operazioni mediatiche atte a colpire e screditare il Movimento. Nel mese di marzo le forze anti-terrorismo hanno circondato e perquisito il quartier generale dell’Mqm, forzando la resistenza degli attivisti.

In seguito all’”aggressione”, com’era stato definito l’atto dagli esponenti dell’Mqm, i deputati presso l’Assemblea nazionale si erano ritirati ed il Movimento operava in una sorta di clandestinità.

Nel mese di giugno, a seguito del massacro di 43 sciiti ismailiti in un attentato rivendicato dal Tehrik Taleban Pakistan (gruppo estraneo all’Mqm), le forze anti-terrorismo hanno compiuto operazioni che hanno portato all’uccisione di decine di terroristi sul campo e a diversi arresti, nonché alla identificazione di un possibile filone di inchiesta che farebbe risalire le cellule estremiste operanti a Karachi a connessioni con i servizi segreti dell’India.

Infatti come indicato da fonti ufficiali pakistane il 27 agosto, sono stati arrestati a Karachi cinque terroristi addestrati dal servizio segreto indiano Research and Analysis Wing. La smentita del governo indiano è arrivata il giorno successivo, ma la verità che emergerà in fase processuale sarà comunque di parte pakistana.

Nel frattempo Islamabad ha iniziato una serie di operazioni atte a screditare l’Mqm, la principale delle quali è stata la pubblicazione su fonti ufficiali pakistane (come riferito dal quotidiano Dawn) di una serie di comunicazioni segrete dell’ufficio stampa del Mqm chiaramente volte ad accattivarsi la simpatia di organizzazioni governative e non governative straniere, in particolare indiane, contro le violenze perpetrate dalle forze armate nelle azioni anti-terroristiche a Karachi.

Questa strategia, prontamente sconfessata dal Movimento, punterebbe a delegittimare l’Mqm agli occhi dell’elettorato pakistano. L’Mqm aveva nel contempo ripreso il dialogo col governo centrale e i propri deputati erano tornati a sedere sui seggi dell’Assemblea nazionale a giugno, sulla base di rassicurazioni del Ministero dell’Interno.

Ma con una comunicazione a sorpresa il 1° settembre il Movimento ha ripreso la strada della clandestinità.

Il rischio che si delinea è che il governo Sharif, cui va comunque riconosciuto di essere stato eletto democraticamente e di avere i numeri sufficienti a garantire la stabilità nel Paese, cada nella tentazione di utilizzare lo spauracchio del terrorismo per eliminare scomodi rivali e cosi facendo causi la radicalizzazione di elementi politici che hanno un notevole peso specifico.

Francesco Valacchi si è laureato in Scienze Strategiche nel 2004 presso l’ateneo di Torino ed in Studi Internazionali presso quello di Pisa nel 2013. È appassionato di geopolitica e strategia; è ufficiale in servizio permanente effettivo nell’esercito italiano.
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sabato 5 settembre 2015

Birmania: le prospettive in vista delle elezioni di novembre

Verso le elezioni
Il triangolo di Malacca: Myanmar tra Cina e India
Francesco Valacchi
26/08/2015
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A pochi mesi dalle elezioni birmane del prossimo novembre, si apre la partita politica per il governo di Rangoon. Saranno le seconde elezioni dopo l’inizio della democratizzazione della Birmania e della politica di apertura (2010).

In realtà, la tornata elettorale del novembre 2010 è stata considerata fortemente influenzata dalla dittatura militare (così come le successive consultazioni parziali).

I risultati saranno importantissimi in ambito regionale. Da un punto di vista geopolitico Myanmar è la porta di accesso allo stretto di Malacca, che prende il nome dalla cittadina malese appartenuta storicamente alle dominazioni portoghese, olandese e britannica.

Malacca è vitale per gli interessi indiani e cinesi, soprattutto nel momento in cui la Cina porta a termine il progetto delle due cinture di collegamenti (l’una marittima passante per Malacca e l’altra terrestre) con il Pakistan.

L’India si vede quindi tagliata fuori dal gioco di contenimento di Pechino, a meno di non riuscire a mantenere una posizione forte sull’Oceano Indiano.

Dal punto di vista della politica economica, acquistare la preminenza nelle relazioni con un Paese sulla soglia dell’apertura al sistema capitalista significherebbe approfittare di un mercato vergine e dalle possibilità offerte dagli oltre 50 milioni di abitanti che presto costituiranno classi medie pronte a entrare in un mercato capitalista.

Inoltre Myanmar rappresenta ciò che in futuro potrebbe essere la Corea del Nord, quando anch’essa dovesse aprirsi al mercato: potrebbe, quindi, costituire un ottimo banco di prova per intrecciare in futuro relazioni con Pyongyang.

Dal punto di vista finanziario, Myanmar è fra i fondatori della Banca asiatica di Investimento per le Infrastrutture, la nuova istituzione monetaria internazionale promossa da Pechino (ed è quindi vitale per la Cina mantenere buoni rapporti).

Infine, l’apparente allontanamento degli Usa offre una finestra di opportunità per divenire il primo interlocutore della nuova Birmania.

La Cina, primo partner, difende la posizione
In passato, la Cina aveva appoggiato il regime militare birmano esercitando una decisa influenza su Myanmar. La forte relazione è stata a più riprese definita come una relazione di convenienza, dalla quale la Repubblica popolare traeva indubbi vantaggi per lo sfruttamento di materie prime e per l’influenza sullo stretto di Malacca, mentre il governo di Rangoon otteneva appoggio politico internazionale (come il veto cinese alle sanzioni nel 2007) e tecnologie anche militari.

Sino al recentissimo passato, i Paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, hanno contestato questa relazione bilaterale. Ogni volta che veniva messa in luce una violazione dei diritti umani da parte della dittatura militare birmana, la comunità internazionale accusava la Cina di comportarsi da free-rider e di non fare abbastanza per condannare il governo di Rangoon.

La Cina rimane il primo interlocutore commerciale di Rangoon e quest’anno, a seguito della cooperazione fra imprese guida nell’estrazione petrolifera - la China National Petroleum Corporation (Cnpc) e la Myanmar Oil and Gas Enterprise (Moge) -, ha aperto un nuovissimo porto sull’Oceano Indiano presso il villaggio di Ramree Island, concepito come punto di passaggio di un importante oleodotto diretto in Cina. È qualcosa di molto simile al porto cinese creato a Gwadar in Pakistan e soprattutto è un ulteriore punto di appoggio su Malacca.

Inoltre gli accordi di cooperazione in ambito energetico (gas) raggiunti nel 2005 e l’appoggio in termini di forniture militari e tecnologiche (costruzione di un oleodotto) che la Cina ha concesso a Myanmar (2009) hanno finito per creare un legame ancora più stretto.

Sembra perciò naturale che il Partito comunista cinese appoggi il regime di Rangoon e tenda al mantenimento dallo status quo, pur attraverso una riforma economica e politica.

L’India, alti e bassi nelle relazioni
Il rapporto con la potenza indiana è invece meno lineare rispetto a quello con la Cina. Dal punto di vista di Nuova Delhi vi sono tre fattori principali da considerare nelle relazioni con Myanmar.

Tali fattori sono: la sicurezza e stabilità del confine indiano a Nord-Est della Birmania e l’influenza della potenza cinese (avversaria del governo di nuova Delhi nella supremazia regionale); l’aspetto economico legato all’apertura del mercato di Rangoon; e la presenza di minoranze hindi sul suolo birmano.

Dall’indipendenza dei due Paesi nel 1947-’48, questi aspetti sono stati sempre importanti nei loro rapporti, che hanno registrato alti e bassi. Fino al 1988, le relazioni fra la Confederazione indiana e la Birmania furono sufficientemente buone, nonostante il conflitto sino-indiano del 1962 (in tale occasione la neutralità di Myanmar fu interpretata da nuova Delhi come un appoggio dell’aggressione cinese).

La crisi si ebbe nel 1988, quando la Confederazione indiana fu il più Paese vicino che criticò più aspramente il governo militare di Rangoon per la repressione della rivolta democratica.

L’ambasciata indiana divenne rifugio per rivoltosi e dissidenti e l’India appoggiò il movimento democratico sino ai primi Anni Novanta, nello stesso periodo in cui la Cina subiva la turbolenta stagione di Piazza Tian An Men.

Tuttavia negli ultimi venti anni le relazioni fra India e Myanmar sono divenute sempre più collaborative e si sono registrate strette relazioni in molti campi, incluso il contrasto all’insorgenza dei movimenti estremisti di etnia Chin e Kachin al confine, la lotta al traffico di droga, la condivisione di elementi di intelligence e, naturalmente, il commercio e gli investimenti.

Un campo in cui non si registra collaborazione di spessore è quello della fornitura di tecnologia militare.

Gli schieramenti in vista delle elezioni
Alle elezioni di novembre gli schieramenti principali saranno lo Union Solidarity and Development Party (Usdp) e la National League for Democracy (Nld). Lo Usdp è il partito del governo militare è guidato da Htayoo, anche se l’attuale presidente Thein Sein è stato un suo membro. L’Nld è il partito democratico di Aung San Suu Kyi (che non potrà essere tuttavia eletta per il veto governativo).

La terza forza in causa saranno i partiti di matrice etnica e regionale, che non dovrebbero tuttavia avere peso, se non quello di interferire con l’Nld accattivandosi parte del suo elettorato.

La Cina dovrebbe appoggiare quasi sicuramente il mantenimento dello status quo imposto dal governo militare di Rangoon, cercando per quanto possibile di evitare stravolgimenti eccessivamente democratizzanti nel processo di apertura al fine di mantenere i vantaggi storicamente acquisiti nell’alleanza con Myanmar.

L’india invece cercherà verosimilmente di appoggiare l’Nld sia per opporsi alla volontà cinese nel gioco di potenze regionale sia per ottenere vantaggi economici e nel campo della sicurezza (cooperazione nel contrasto all’insorgenza).

Francesco Valacchi si è laureato in Scienze Strategiche nel 2004 presso l’ateneo di Torino ed in Studi Internazionali presso quello di Pisa nel 2013. È appassionato di geopolitica e strategia; è ufficiale in servizio permanente effettivo nell’esercito italiano.
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