Economia Lo storico ruolo della Cina negli squilibri finanziari globali Carlo Milani 31/10/2015 |
Le turbolenze finanziarie che hanno colpito negli ultimi mesi la Cina hanno acceso un forte dibattito in merito ai potenziali contraccolpi sulla crescita globale.
A risentire di questo contesto sono, da un lato, i paesi emergenti, soprattutto quelli che basano il loro modello di business sulla produzione di materie prime, come ad esempio Brasile, Russia e Sudafrica. Alla diminuzione della produzione cinese si associa evidentemente la minor richiesta di beni di consumo.
A soffrire sono però anche i paesi avanzati che vendono questi beni e capitale alla Cina e agli altri emergenti. Ad agosto, ad esempio, la Germania ha registrato un calo dell’esportazioni del 5,2 per cento su base mensile, la flessione più consistente dal gennaio del 2009.
La Cina, dopo aver contribuito in modo determinante a creare le condizioni macroeconomiche e finanziarie che hanno poi portato alla crisi internazionale del 2007/2008, risulta essere ancora uno snodo cruciale per la stabilità/instabilità globale.
Dall’economia socialista al mercato globale
Facendo un breve excursus storico, l’ingresso a pieno titolo dell’economia cinese nel quadro internazionale deve esser fatto risalire agli anni ’80. In quel periodo, e sotto la guida di Deng Xiaoping, venne adottata la cosiddetta economia socialista di mercato.
Il leader cinese introdusse una serie di riforme economiche volte a trasformare profondamente l’economia e in particolare l’agricoltura e l’industria. Nel settore agricolo si incentivò l’utilizzo della tecnologia al fine di aumentarne la produttività.
Come conseguenza, le braccia che prima venivano utilizzate nei campi potevano, ora, essere utilizzate nelle fabbriche. Si mise così in moto un processo di migrazione della popolazione dalle aree rurali alle aree urbane industrializzate, prevalentemente concentrate lungo le zone costiere. La popolazione urbana passò dai 190 milioni di abitanti circa del 1980 ai circa 750 milioni del 2014.
Contemporaneamente a questo esodo, la Cina, già dal 1986, avviò le procedure per entrare a far parte del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), divenuto in seguito Wto (World Trade Organization), il cui processo si è poi formalizzato nel 2001, garantendo all’economia cinese la possibilità di entrare a pieno titolo nei mercati globali.
Grazie all’impiego di un’immensa manovalanza a bassissimo costo e all’utilizzo di politiche valutarie particolarmente aggressive, che hanno determinato nel periodo pre-crisi una netta svalutazione della moneta cinese rispetto a tutte le principali valute internazionali, il commercio estero ha avuto un fortissimo impulso.
La bilancia delle partite correnti è arrivata a toccare il ragguardevole picco del 10 per cento del Pil nel 2007, spingendo il peso dell’economia cinese sul complesso del Pil mondiale, in termini di parità dei poteri di acquisto, a circa il 12 per cento contro il 3 per cento circa degli anni ’80.
Specularmente, il saldo di conto corrente degli Usa registrava una continua caduta, toccando il livello minimo di 6 punti di Pil nel 2006. In altri termini, la Cina riuscì, nel periodo pre-crisi, a inondare i mercati con i suoi prodotti che andarono a riversarsi soprattutto negli Stati Uniti.
Per finanziare il disavanzo delle partite correnti, gli Usa hanno ottenuto i capitali proprio dalla Cina. Gli ingenti capitali accumulati dall’economia cinese, posto il bassissimo livello dei tassi presenti nel mercato domestico per effetto delle politiche di svalutazione del cambio, sono andati alla ricerca di migliori rendimenti.
All’origine della bolla azionaria
Nella seconda metà degli anni ’90 gli investimenti sono confluiti soprattutto nel mercato azionario statunitense, attratti dagli ottimi rendimenti che il comparto della cosiddetta New Economy riusciva a offrire. Così facendo hanno però alimentato la generazione della bolla azionaria.
Quando quest’ultima è esplosa,i capitali sono andati a riversarsi soprattutto sul mercato obbligazionario (pubblico e privato) e ancor più sui titoli aventi come sottostante mutui immobiliari. Ancora una volta l’effetto è stato quello di generare una bolla speculativa negli Usa, nello specifico del mercato bancario ombra.
Con lo scoppio di questa nuova bolla, ancor più virulento rispetto a quello della New Economy, per le autorità cinese è divenuta evidente l’esigenza di rivedere il loro modello di business, cercando di sostenere di più la domanda interna e in particolare i consumi delle famiglie.
Gli eccessi degli anni passati, con l’immissione di ingenti quantità di liquidità soprattutto sotto forma di finanziamenti erogati dalle banche pubbliche alle imprese, anch’esse per buona parte controllate dallo Stato, hanno però surriscaldato oltre misura l’economia domestica.
I prezzi degli immobili hanno registrato negli anni una forte crescita, evidenziando la potenziale presenza di una bolla immobiliare. Inoltre, nel tentativo di spingere le famiglie a consumare di più attraverso l’azione degli effetti ricchezza, si sono attuate iniziative per far crescere artificialmente le quotazioni azionarie, ad esempio attraverso le operazioni al margine volte a concedere crediti aventi come scopo ultimo la speculazione finanziaria.
Il risultato è stato aver generato una bolla sul mercato azionario che nel momento della sua esplosione, nello scorso luglio, ha provocato il panico a livello internazionale con conseguenze ancora difficili da valutare compiutamente.
Carlo Milani è Economista presso il Centro Europa Ricerche. Questo articolo è tratto dal suo libro “Alle radici della crisi finanziaria. Origine, effetti e risposte”, Egea Editore, 2015.
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A soffrire sono però anche i paesi avanzati che vendono questi beni e capitale alla Cina e agli altri emergenti. Ad agosto, ad esempio, la Germania ha registrato un calo dell’esportazioni del 5,2 per cento su base mensile, la flessione più consistente dal gennaio del 2009.
La Cina, dopo aver contribuito in modo determinante a creare le condizioni macroeconomiche e finanziarie che hanno poi portato alla crisi internazionale del 2007/2008, risulta essere ancora uno snodo cruciale per la stabilità/instabilità globale.
Facendo un breve excursus storico, l’ingresso a pieno titolo dell’economia cinese nel quadro internazionale deve esser fatto risalire agli anni ’80. In quel periodo, e sotto la guida di Deng Xiaoping, venne adottata la cosiddetta economia socialista di mercato.
Il leader cinese introdusse una serie di riforme economiche volte a trasformare profondamente l’economia e in particolare l’agricoltura e l’industria. Nel settore agricolo si incentivò l’utilizzo della tecnologia al fine di aumentarne la produttività.
Come conseguenza, le braccia che prima venivano utilizzate nei campi potevano, ora, essere utilizzate nelle fabbriche. Si mise così in moto un processo di migrazione della popolazione dalle aree rurali alle aree urbane industrializzate, prevalentemente concentrate lungo le zone costiere. La popolazione urbana passò dai 190 milioni di abitanti circa del 1980 ai circa 750 milioni del 2014.
Contemporaneamente a questo esodo, la Cina, già dal 1986, avviò le procedure per entrare a far parte del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), divenuto in seguito Wto (World Trade Organization), il cui processo si è poi formalizzato nel 2001, garantendo all’economia cinese la possibilità di entrare a pieno titolo nei mercati globali.
Grazie all’impiego di un’immensa manovalanza a bassissimo costo e all’utilizzo di politiche valutarie particolarmente aggressive, che hanno determinato nel periodo pre-crisi una netta svalutazione della moneta cinese rispetto a tutte le principali valute internazionali, il commercio estero ha avuto un fortissimo impulso.
La bilancia delle partite correnti è arrivata a toccare il ragguardevole picco del 10 per cento del Pil nel 2007, spingendo il peso dell’economia cinese sul complesso del Pil mondiale, in termini di parità dei poteri di acquisto, a circa il 12 per cento contro il 3 per cento circa degli anni ’80.
Specularmente, il saldo di conto corrente degli Usa registrava una continua caduta, toccando il livello minimo di 6 punti di Pil nel 2006. In altri termini, la Cina riuscì, nel periodo pre-crisi, a inondare i mercati con i suoi prodotti che andarono a riversarsi soprattutto negli Stati Uniti.
Per finanziare il disavanzo delle partite correnti, gli Usa hanno ottenuto i capitali proprio dalla Cina. Gli ingenti capitali accumulati dall’economia cinese, posto il bassissimo livello dei tassi presenti nel mercato domestico per effetto delle politiche di svalutazione del cambio, sono andati alla ricerca di migliori rendimenti.
All’origine della bolla azionaria
Nella seconda metà degli anni ’90 gli investimenti sono confluiti soprattutto nel mercato azionario statunitense, attratti dagli ottimi rendimenti che il comparto della cosiddetta New Economy riusciva a offrire. Così facendo hanno però alimentato la generazione della bolla azionaria.
Quando quest’ultima è esplosa,i capitali sono andati a riversarsi soprattutto sul mercato obbligazionario (pubblico e privato) e ancor più sui titoli aventi come sottostante mutui immobiliari. Ancora una volta l’effetto è stato quello di generare una bolla speculativa negli Usa, nello specifico del mercato bancario ombra.
Con lo scoppio di questa nuova bolla, ancor più virulento rispetto a quello della New Economy, per le autorità cinese è divenuta evidente l’esigenza di rivedere il loro modello di business, cercando di sostenere di più la domanda interna e in particolare i consumi delle famiglie.
Gli eccessi degli anni passati, con l’immissione di ingenti quantità di liquidità soprattutto sotto forma di finanziamenti erogati dalle banche pubbliche alle imprese, anch’esse per buona parte controllate dallo Stato, hanno però surriscaldato oltre misura l’economia domestica.
I prezzi degli immobili hanno registrato negli anni una forte crescita, evidenziando la potenziale presenza di una bolla immobiliare. Inoltre, nel tentativo di spingere le famiglie a consumare di più attraverso l’azione degli effetti ricchezza, si sono attuate iniziative per far crescere artificialmente le quotazioni azionarie, ad esempio attraverso le operazioni al margine volte a concedere crediti aventi come scopo ultimo la speculazione finanziaria.
Il risultato è stato aver generato una bolla sul mercato azionario che nel momento della sua esplosione, nello scorso luglio, ha provocato il panico a livello internazionale con conseguenze ancora difficili da valutare compiutamente.
Carlo Milani è Economista presso il Centro Europa Ricerche. Questo articolo è tratto dal suo libro “Alle radici della crisi finanziaria. Origine, effetti e risposte”, Egea Editore, 2015.
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