venerdì 31 dicembre 2021
lunedì 20 dicembre 2021
venerdì 10 dicembre 2021
martedì 30 novembre 2021
L'Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo
L'Atlante è Presente nella Biblioteca del CESVAM (www.istitutodelnastroazzurro.org)
Info: www.atlanteguerra.it
venerdì 19 novembre 2021
CIna: riaffermata la leaderschip al governo.
Central Committee members declared Mr Xi's ideology the "essence of Chinese culture". The party leadership's resolution on its history is only the third since its founding 100 years ago.
Fonte: Institute for Economics and Peace. New Letter Futire Trends novembre 2021
martedì 9 novembre 2021
giovedì 28 ottobre 2021
India. Terrorismo HIndu contro i Cattolici dell'Orissa.
mercoledì 20 ottobre 2021
sabato 9 ottobre 2021
Il Terrosimo in Cina La questione Uigura
Da ISPI. Aryicolo di Giulia Sciorati (vds.)
La
fase attuale della “questione uigura” comincia con il crollo dell’Unione
Sovietica e l’istituzione delle repubbliche indipendenti di Kazakistan,
Kirghizistan e Tajikistan lungo i confini della regione. La nascita di stati
indipendenti in Asia Centrale, infatti, contribuì a riaccendere i sentimenti
secessionisti della minoranza. L’allora presidente cinese Jiang Zemin si affrettò
a normalizzare i rapporti con gli stati emersi dallo spazio post-sovietico, ma
i confini particolarmente porosi dello Xinjiang agevolarono gli scambi con
altri esponenti del gruppo etnico uiguro localizzati sul territorio di stati
come Kazakistan e Kirghizistan. Furono questi scambi a far sì che fosse
riscoperto un ideale “panturco” e a fomentare un nuovo ciclo di moti
separatisti nella regione.
La
mancanza di esperienza del PCC nel contrastare il separatismo portò a sua volta
ad una recrudescenza dei livelli di contestazione politica dei gruppi
anti-statali che, dopo gli attentati di New York dell’11 settembre 2001, le
autorità di Pechino fecero rientrare nella cornice della “guerra globale al
terrorismo”, divenendo ufficialmente “terroristi” per il governo centrale. Una
definizione corroborata anche dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
(UNSC) che inserì il gruppo che più di ogni altro era stato identificato dal
PCC come artefice delle contestazioni violente – il Movimento islamico del Turkestan
orientale (ETIM) – nella lista dei gruppi terroristici riconosciuti a livello
internazionale.
Il
concetto di terrorismo in Cina ha una portata particolarmente ampia. Racchiude,
infatti, il terrorismo tout court, il separatismo e l’estremismo religioso in
un’unica cornice, quella dei “tre mali” dei quali, in particolare, viene
accusata la minoranza uigura in Xinjiang. Questa concettualizzazione del
terrorismo proviene da un circuito di coordinamento regionale che, a partire
dal 1996, ha visto Russia e Cina a capo di un forum internazionale di sicurezza
– lo Shanghai Five – che comprendeva le nuove repubbliche centro-asiatiche
(esclusi l’Uzbekistan e il Turkmenistan). Con l’istituzionalizzazione dello
Shanghai Five nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) nel
2001 e l’ingresso dell’Uzbekistan nell’organizzazione, la questione uigura è diventata
una delle priorità della cooperazione in Asia Centrale, grazie anche al lancio
della Struttura Regionale per l’Antiterrorismo (RATS) che fa capo alla SCO. La
RATS è infatti un’agenzia volta allo scambio di informazioni su gruppi
terroristici transnazionali e alla pianificazione di operazioni congiunte di
antiterrorismo.
mercoledì 29 settembre 2021
India: la protesta riprende vigore
Mezzo milione di agricoltori hanno manifestato contro il governo nel più popoloso Stato L'Uttar Pradesch dove nel 2022 ci saranno le elezioni. Le proteste che per più di otto mesi si sono svolte a Nuova Delhisono contro la riforma agricola introdotta dal governo, accusato di favorire le gradi aziende. Quasi la metà degli Indiani vive di agricoltura e gli organizzatori delle proteste sono conviti che l'inflazione il calo del reddito e la disoccupazione uniranno gli agricoltori e i lavoratori, gli operai ed i contadini in una sorta di un nuovo ritorno alla difesa delle classi più deboli in un paese ove si parla moto di democrazia ma che in realtà si è incamminato sulla strada della oligarchia.
Fonte: L'Internazionale 1426 n. 1426 10 settembre 2021
lunedì 20 settembre 2021
venerdì 10 settembre 2021
L'espanzione Russa verso la Siberia. Rapporti economico-commerciali con la CIna
Le partite sino Russe.
Il confronto tra Russia e Cina in Asia è mostrato da questa carta
apparsa sul n. 6 del 2021 della Rivista LimesIn blu la Russia in Arancione la
Cina; riporta i centri di ricerca dei due paesi
con una conchiglia ( tra cui Huawei in Russia e in Bielorussia.
Riporta la Rotta Marittima Settentrionale
Con linea gialla sono indicati i gas dotti operativi e quelli in
costruzione, mentre le freccie gialle indicano gli ingressi in cina di Gas
siberiano, mentre in arancione il flusso dalla Siberia centrale
Con frecce viola si indica
il rischio emigrazione dalla Cina verso lo scarsamente abitato ma ricco est
russo
Infine con i numeri da i a 5 i progetti di espansione russi verso
est con gas dotti di collegamento con la Cina e e lo sviluppo di giacimenti
gasieri e relativi gasdotti per export verso oriente.
Le linee gialle indicano le nuove vie della seta: dalla Cina alla
Russia e viceversa.
martedì 31 agosto 2021
giovedì 19 agosto 2021
Le 10 Mappe che spiegano il Mondo: L' Asia
Tim Marschall ha preparato questo volume che The evening Star lo ha definito uno dei più bei libri di geopolitica, con prefazione di Sir John Scarlett e traduzione di Roberto Merlini, ha i tipi di Garzanti, Miano 2015. Il volume non dedica un capitolo all'Asia ma tratta separatamente L'India ed Pakistan e la Corea ed il Giappone.
Il Volume è presente nella Biblioteca/Emeroteca del CESVAM ed informazioni ulteriori si possono trovare su www.il libraio.It
martedì 10 agosto 2021
Siberia un paese migliaia di mpopoli
Pur essendo inscindibile dalla Russia, la Siberia è soprattutto
la patria di una multitudine di persone che hanno vissuto .lì per migliaia di
anni( i russi sono arrivati in Siberia solo nel XIV secolo: Mentre l’identità
regionale siberiana esisteva dal XVII secolo, l’esigenza di una identità della
civiltà siberiana si ebbe solo alla fine
del XIX secolo e lo sviluppo continua ancora oggi. Il processo di reciproco adattamento
e assimilazione che è avvenuto non senza conflitti, fornisce, soprattutto per
il mondo odierno della globalizzazione e
delle migrazioni un esempio di come popoli di diversi possano andare d’accordo
imparare gli uni dagli altri ed alla fine arrivare anche ad una identità
comune.
Articolo di Cladimir Puckkov per la Civiltà Cattolica del 17
luglio 7 agosto 2021 n. 4106 anno 172
pag. 149
Copia di questo
numero è nella Emeroteca del CESVAM – Roma Piazza Galeno 1
(cemtrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
sabato 31 luglio 2021
martedì 20 luglio 2021
La Russia cerca la sua nuova dimensione in Asia
fonte: Rivista LIMES , n. 6 del 2021.
Nella carta qui riportata
si danno delle indicazioni di come la Russia sia spinta verso Est. Le
fasi dell’allontanamento della Russia dell’Europa sono indicate 1) seconda
guerra del Golfo, 2) Espansione della Nasto e rivoluzioni colorate, 3) Crisi
dell’Ucraina (Crimea e Donbass) e sospensione di Mosca dal G8 (2014)
Le Rivoluzione
colorare sono state: Georgia (2003) Ucraina (2004) Kirghizistan
I Paesi che hanno
aderito alla Nato sono:
1999 Ungheria, Rep. Ceca, Polonia
2004, Estonia, Lettonia,
Lituania, Slovacchia, Romania, Bulgaria Slovenia
2009 Croazia ed Albania
2017 Montenegro
2020 Macedonia del Nord
Riportata la Unione economica
euroasiatica, che comprende la Federazione Russa, la Bielorussia, Armenia,
Kazakistan, Kirghizistan
San Pietroburgo è il simbolo della Russia Europea
A Mosca è operante il
Valdai Club che è un think thank fondato nella città moscovita nel 2011 dedicata studiare la geopolitica russa
sabato 10 luglio 2021
Liles: Se Crolla la Russia e le ripercussioni in Asia
Numero dedicato alla ipotesi di un crollo della Russia e le sue ripercussioni. Diverse pagine sono state dedicate alla Siberia, la cui estensione è pari a quella di un continente. Certamente i paesi che confinano a sud con la Siberia avranno la possibilità o la tentazione di spingersi verso nord, a cominciare dalla Cina, che potrebbe vedere in questa possibilità l'incalanamento del surplus della popolazione che in questo momento è per la maggior parte concentrata nelle coste orientali del Paese
mercoledì 30 giugno 2021
sabato 19 giugno 2021
Rzbekistan. Un Paese chiave nell'Asia Centrale
Nel cuore dell’Asia
centrale si trova l’Uzbekistan, in cui si mescolano due culture: quella
truca e quella iraniana. Oggi dopo la morte del primo ministro Islam Karimov si
assiste ad un cambiamento della politica del Pese. Tuttavia le riforme
economiche intraprese modificano poco le strutture statali e sociali, che
sembrano ancora medievali. L’ispirazione di una parte della popolazione ad una
maggiore libertà e a un maggiore rispetto da parte dello Stato si accompagna al
ruolo vigile dell’islam e al tentativo di questo Stato di conservare la tradizione
laicista , ereditata dall’epoca sovietica. L?uzbekistan oggi è un Paese economicamente
ambizioso e socialmente pieno di tensioni il cui futuro è ancora aperto.
Articolo di Vladimiro Pachkov per la Civilta Cattolica. N.
4068 del 21 dicembre 2020 – 4 gennaio 2021 n. 4068 Anno 170
Copia di detto numero è presente mella Emeroteca del CESVAM
giovedì 10 giugno 2021
domenica 30 maggio 2021
Turkmenistan, dittatura tra passato e presnete.
Il Turkmenistan è un Paese al confine tra il mondo turco e quello iraniano che ha ottenuto l'indipendenza alla fine del XX secolo. E' considerato l'unico Stato totalitario nella zona post-sovietica ed è incredibilmente ricco di risorse naturali (sopratutto gas) per cui viene accostato agli Stati del Golfo. Il Paese è noto per il bizzarro culto della personalità dei suoi due primi presidenti. Ma la loro politica riesce a creare da una unione di clan e tribù, una vera nazione? Tuttavia la cosa più interessante è la loro politica religiosa, dove l'insegnamento del primo presidente Niyazov viene presentato come una alternativa all'Islam, ed il suo libro Ruhnama come alternativa al Corano.
Questa la sintesi dell'articolo di Vladimir Pachkow, S.I., apparso sul numero 4102 della rivista "La Civiltà Cattolica", Anno 172, Quindicinale, 15 maggio 5 giugno 2021. Il numero e la Rivbista è disponibile presso la Emeroteca del CESVAM
mercoledì 19 maggio 2021
Rivista QUADERNI 4 del 2020 Ottobre. Dicembre 2020 N. 18° della Serie
Dall’Editoriale del
Presidente Nazionale:
Questo
numero speciale dei Quaderni è dedicato al Valore Militare nella Provincia di
Arezzo, un Valore presente in tutti i momenti salienti della nostra storia
patria, dal Risorgimento alla Grande Guerra, dal 2° Conflitto Mondiale alla
Resistenza, come testimoniato dalle numerose decorazioni collettive e individuali
nel corso degli anni. Un territorio che ha subito in particolare le terribili
rappresaglie naziste dopo l’8 settembre 1943 di Bucine e Civitella Val di
Chiana, le cui vittime sono state ricordate nel corso della Giornata del
Decorato 2017 che l’Istituto ha celebrato ad Arezzo. Torneremo a fine ottobre
nella
Città toscana, per celebrare il XXXI Congresso Nazionale; sarà l’occasione per
rendere un doveroso omaggio al Gonfalone che si fregia della massina
decorazione al Valor Militare e ricordare, nel Centenario della traslazione del
Milite Ignoto, il passaggio del convoglio che ne portò la salma da Aquileia a
Roma.
La
pubblicazione é frutto della collaborazione tra la Federazione di Arezzo e il
CeSVaM e costituisce inoltre un importante materiale di studio per il Master di
1° livello in Storia Militare Contemporanea 1796-1969 che viene tenuto
all’Università Telematica Nicolò Cusano in partnership con il nostro Istituto.
E’
la prima del suo genere e mi auguro possa essere un esempio per le altre
Federazioni a seguirne l’esempio. Vengono infine riportate le copertine dei
primi 18 numeri dei Quaderni e dei 12 volumi del Dizionario Minimo della Grande
Guerra.
Il n. 4 del 2020, 18° della Rivista, riporta a complemento del contributo della
Federazione di Arezzo, Le Schede dei Volumi del Dizionario Minimo della Grande
Guerra e le consuete rubriche della Rivista.
Info: quaderni.cesvam@istitutonastroazzurro.org
Questo numero della
Rivista può essere chiesto direttamente alla Federazione di Arezzo (
federazione.arezzo@istitutonastroazzurro.org)
venerdì 7 maggio 2021
In ASIA la più grande area al mondo di libero scambio commerciale.
Cina Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda e 10 nazioni del Sud-Est asiatico hanno costituito un mercato comune per i loro prodotti. Queste economie generano il 30% della produzione economica mondiale e compongono un mercato di circa 2 miliardi di persone. Sembra innegabile che in questo modo la Cina migliori la propria posizione egemonica in Asia. L'economia indiana è rimasta, per ora, alla finestra ed ai margini. Gli analisti ritengono che con questo accordo Pechino miri a rivedere l'ordine mondiale. Secondo il presidente Biden gli Stati Uniti che rappresentano il 25% dell'economia mondiale devono stabilire le regole da seguire in futuro contrastando l'iniziativa cinese
Fernando de la Iglesia Viguiristi, S.I., Nasce in Asia la più grande area al mondo di libero scambio commerciale., in La Civiltà Cattolica, n. 4092, 2020/2 gennaio 2021 Quindicinale Anno 171.
La rivista La Civiltà Cattolica è presente su carta nella Emeroteca del CESVAM, Roma Piazza Galeno 1.
venerdì 30 aprile 2021
Fonti dedicate per la ricerca e l'informazione
Si indica come fonte accreditata nella Newsletter che la Rivista settimanale L'Internazionale mette a disposizione. Riporta nello specifico le notizie dell'Asia. In pratica solo la estensione della Pagina Africa e Medio oriente che detta Rivista riporta nei suoi numeri.
L'indirizzo per il Asia è: intern.az/1CrO
Per ricerche e stesura di tesi questa fonte appare quanto mai idonea ed esaustiva.
la Rivista Internazionale è disponibile su carta presso la Emeroteca del CESVAM - Centro Studi sul Valore Militare, dell'Istituto del Nastro Azzurro (www.istitutodelnastroazzurro.org) Roma Piazza Galeno 1
lunedì 19 aprile 2021
Lorenzo Postran. Appunti sull'Afganistan
Nel gennaio 2021, l'amministrazione
Trump ha dichiarato di aver ridotto le forze statunitensi in Afghanistan a
2.500 uomini, il numero più basso dal 2001, in anticipo rispetto al potenziale
ritiro completo militare entro maggio 2021 a cui gli Stati Uniti si erano
impegnati nell'accordo USA-talebani del febbraio 2020. In seno a tale accordo,
in cambio del completo ritiro delle forze internazionali, i talebani si sono
impegnati a impedire ad altri gruppi, tra cui Al Qaeda, di utilizzare il suolo afghano per reclutare, addestrare
o raccogliere fondi per attività che minaccino gli Stati Uniti o i suoi
alleati. L'accordo è stato accompagnato da un testo che, secondo il Capo di
Stato Maggiore della Difesa, Generale Mark Milley, contiene ulteriori impegni da
parte dei talebani, incluso quello di non attaccare le forze statunitensi o
internazionali. I funzionari statunitensi sostengono che i talebani non hanno
rispettato gli accordi e descrivono il potenziale ritiro degli Stati Uniti come
“soggetto a precise condizioni", ma non hanno specificato esattamente
quali di queste potrebbero invertire o alterare in altro modo la tempistica del
ritiro stabilita nell'accordo. I rappresentanti del governo afghano non presero
parte ai colloqui tra Stati Uniti e talebani, portando alcuni osservatori a
concludere che gli Stati Uniti avrebbero dato la priorità al ritiro militare mediante
un complesso accordo politico che tenderebbe a preservare buona parte dei risultati
sociali, politici e umanitari conseguiti dal 2001. Il 12 settembre 2020, il
governo afghano ed i rappresentanti dei talebani si sono incontrati
ufficialmente a Doha, in Qatar, per iniziare i loro primi negoziati di pace diretti
verso una tale soluzione, in un momento storico significativo con implicazioni
potenzialmente drammatiche per l’esito del conflitto in corso. I colloqui non
sembrano aver fatto progressi e rimangono complicati da una serie di fattori,
tra cui gli elevati livelli di violenza. Alla luce dell'imminente termine per
il ritiro e dello stallo dei colloqui intra-afghani, gli Stati Uniti sembrano
aver intensificato i propri sforzi per mediare un accordo intra-afghano. Il
Segretario di Stato USA, Antony Blinken, ha scritto ai funzionari del governo
afghano nel marzo 2021 con lo scopo di esortarli a formare un fronte unito e
partecipino agli sforzi diplomatici multilaterali pianificati, compresi i
colloqui in Turchia nell'aprile 2021. Secondo quanto riferito, gli Stati Uniti
hanno anche elaborato un progetto di pace per far ripartire i negoziati che
include una varietà di opzioni, inclusa l'istituzione di un governo di
transizione ad interim, che il
presidente afghano Ashraf Ghani ha però respinto. Dato il ruolo enorme degli
Stati Uniti nel potenziamento del governo afghano, molti esperti mettono in
guardia circa la possibilità di un ritiro su vasta scala da parte degli Stati
Uniti in parallelo ad un'interruzione degli aiuti che potrebbe portare al collasso
del paese oltre che al ristabilimento del dominio formale dei talebani su una
sua buona parte o addirittura tutto il suo territorio. Per molti aspetti, i
talebani sono in una condizione militare più che mai ottimale. Si valuta che
una volta ultimati i negoziati in maniera sufficientemente esaustiva da
garantire un ritiro completo degli Stati Uniti, i talebani sfrutteranno il loro
vantaggio militare per prendere il controllo del paese con la forza. Alcuni
membri del Congresso hanno supportato l’opzione di mantenere le truppe
statunitensi in Afghanistan dopo il mese di maggio 2021, anche se ciò potrebbe
spingere i talebani a riprendere gli attacchi contro le forze internazionali,
oltre che ad interrompere i negoziati di pace.
Il 29 febbraio 2020, dopo oltre un
anno di negoziati ufficiali tra rappresentanti degli Stati Uniti e dei
talebani, le due parti hanno concluso un accordo che pone le basi per il ritiro
delle forze armate statunitensi dall'Afghanistan e per i colloqui tra Kabul e i
talebani. Nel luglio 2018, l'amministrazione Trump ha avviato negoziati diretti
con i talebani senza la partecipazione di rappresentanti del governo afghano,
ribaltando la precedente posizione degli Stati Uniti che privilegiava un processo
di riconciliazione a guida afghana. La nomina nel settembre 2018 di Zalmay
Khalilzad, un ex ambasciatore statunitense di origine afghana e residente in
Afghanistan, in qualità di rappresentante speciale per la riconciliazione
dell'Afghanistan, ha dato slancio a questo sforzo. Per oltre un anno, Khalilzad
ha tenuto una serie quasi continua di incontri con funzionari talebani a Doha,
insieme a consultazioni con gli afghani, pakistani e altri governi della regione.
Il 29 febbraio 2020, il Rappresentante speciale Khalilzad ha firmato un accordo
formale a Doha con il vice leader
politico talebano Mullah Abdul Ghani Baradher di fronte ad una platea di
osservatori internazionali. Nell'accordo, le due parti hanno concordato delle
garanzie ben correlate: il ritiro di tutte le forze statunitensi e
internazionali entro il mese di maggio 2021 e l’impegno da parte dei talebani di
impedire ad altri gruppi (tra cui Al
Qaeda) di utilizzare il suolo afghano per minacciare gli Stati Uniti ed i
suoi alleati. Altri impegni da parte degli Stati Uniti includevano
l'agevolazione di uno scambio di prigionieri tra i talebani e il governo
afghano e la rimozione delle sanzioni statunitensi.
Fra gli altri impegni presi dagli
Stati Uniti vi sono l'agevolazione di uno scambio di prigionieri tra i talebani
e il governo afghano e la rimozione delle sanzioni sui talebani. In base
all'accordo, i funzionari statunitensi hanno affermato che i talebani non
stanno adempiendo ai loro impegni ai sensi dell'accordo, in particolare per
quanto riguarda eventuali affiliazioni ad Al
Qaeda o peggio ancora ad ISIS-K (ISIS Khorrasan,
la filiera centro-asiatica dello Stato Islamico). Il ritiro degli Stati Uniti
può anche influenzare le forze militari dei paesi partner (che al momento superano numericamente le forze
statunitensi nel paese) e la loro capacità di operare sul terreno e soprattutto
di continuare la loro missione di addestramento (Train, Advise and Assist – TAA) senza il fondamentale supporto
logistico americano. Alcuni diplomatici stranieri hanno espresso cautela
riguardo all’opzione del ritiro, incluso il Segretario generale della NATO
Stoltenberg che ha affermato che sebbene ci siano rischi nel rimanere, partendo,
si rischia che l'Afghanistan diventi di nuovo un rifugio sicuro per i
terroristi internazionali, e si getterà al vento gli obiettivi conseguiti con un
pesante sacrificio in termini di risorse e soprattutto, di vite umane.
L'accordo USA-talebani impegnava questi ultimi ad avviare colloqui con il
governo afghano entro marzo, ma i negoziati sono rimasti non programmati per
mesi tra varie complicazioni come i ritardi nello scambio di prigionieri tra talebani
e il governo afghano. Il presidente afghano Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah,
oppositore elettorale di Ghani, ed ex partner
nel governo di unità nazionale, hanno convenuto nel maggio 2020 di porre fine
alla loro impasse politica e nominare
Abdullah presidente del neo-creato Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale
(High Council for National Reconciliation)
per supervisionare i colloqui con i talebani. Lo scambio di prigionieri è stato
completato all'inizio di settembre 2020, rimuovendo così il principale ostacolo
ai colloqui intra-afghani, iniziati a Doha nello stesso mese. Le due parti si
sono successivamente incontrate a intermittenza, ed alcune discrezioni provenienti
dai colloqui li davano in fase di stallo. Il rappresentante speciale Khalilzad
ha dichiarato l'11 settembre 2020 che gli Stati Uniti impegneranno entrambe le
parti ai negoziati, ma non parteciperanno direttamente ai colloqui, limitandosi
ad agevolare i negoziati laddove richiesto. Da allora Khalilzad ha effettuato
numerose visite a Doha, dove si è incontrato separatamente con i membri di
ciascuna squadra negoziale. Nel frattempo, le principali offensive talebane
nell'Afghanistan meridionale alla fine del 2020 hanno provocato lo sfollamento
di decine di migliaia di civili, hanno portato le forze afghane ad abbandonare
quasi 200 posti di blocco nella provincia di Kandahar nel solo mese di dicembre
2020, e ha spinto gli Stati Uniti a lanciare attacchi aerei a sostegno delle
forze governative afghane, e sono di fatto il motivo per cui i talebani
spingono moltissimo per il ritiro della NATO; la superiorità aerea ha inflitto
gravi perdite fra i miliziani. Per quanto riguarda invece le attività
terroristiche, negli ultimi mesi sono aumentati gli attacchi mirati, veri e
propri assassinii in pubblico, spesso applicando cariche esplosive magnetiche
ai veicoli dei bersagli o tendendo vere e proprie imboscate con armi da fuoco. Il
governo afghano ha quindi dato la priorità a un cessate il fuoco permanente,
che i talebani hanno respinto nonostante due tregue limitate negli ultimi anni.
Si dubita che i talebani accetterebbero di abbandonare la azioni violente, loro
principale fonte di influenza sulla popolazione, prima di qualsiasi accordo
politico intra-afghano. Un loro portavoce ha dichiarato lo scorso marzo che il
gruppo aveva presentato una bozza di proposta per mitigare gli attacchi già a dicembre
2020, ma quell'accordo non era stato poi ratificato. Rimangono importanti
differenze tra le due rispettive visioni per il futuro dell'Afghanistan,
compresa la struttura dello stato afghano e quali diritti dovrà riconoscere ai
cittadini afgani, in particolare alle donne. I talebani, che si sono
concentrati sul ritiro delle forze straniere e soprattutto del loro potere
aereo, non hanno mai fornito dettagli circa le loro proposte sulle questioni di
governance. All'apertura dei colloqui
a Doha, il vice leader politico
talebano Mullah Abdul Ghani Baradher ha dichiarato di volere un Afghanistan
indipendente, sovrano, unito, sviluppato e libero, con un sistema islamico in
cui tutte le persone della nazione possano partecipare alla comunità senza
discriminazione. In una lettera aperta dello scorso febbraio, Baradher ha
scritto che il gruppo si è impegnato a proteggere i diritti delle donne come loro
garantiti dalla legge islamica e la libertà di parola nel quadro dei principi
islamici e degli interessi nazionali. Si ipotizza dunque che i talebani
probabilmente cercheranno una supervisione religiosa del processo decisionale
esecutivo e legislativo realizzando una versione ibrida del loro precedente emirato
(1996-2001) con uno stato moderno in stile occidentale. I leader del governo in carica esprimono la determinazione a
preservare le istituzioni democratiche dell'Afghanistan e la sua costituzione,
che stabilisce l'Islam come religione di stato ma non lega la legislazione e la
politica nazionale in maniera stretta alla giurisprudenza religiosa. Il
presidente Ghani ha pertanto dichiarato che il suo governo non concluderà alcun
accordo che limiti i diritti degli afgani. Non è chiaro quale tipo di sicurezza
e accordi politici potrebbero soddisfare sia Kabul che i talebani nella misura
in cui questi ultimi abbandonino la lotta armata. Molti afgani, in particolare
donne, ricordano il governo talebano e si oppongono alle politiche e alle
convinzioni del gruppo, dubitando dell'affidabilità dei talebani e temono che,
in assenza di pressioni militari statunitensi, il gruppo avrà ben poche motivazioni
ad attenersi ai termini degli accordi raggiunti con Kabul. Si sospetta che i
talebani stiano cercando di prendere tempo e far scadere i termini del ritiro
delle truppe americane, impantanando il processo in trattative abbastanza lunghe
fino al ritiro completo degli Stati Uniti, dopo di che trarranno passeranno
all’attacco militare. Il culmine degli sforzi diplomatici statunitensi sarà l’incontro
di alto livello che si terrà ad Istanbul il 24 aprile per finalizzare l’accordo;
al momento però i talebani non intendono parteciparvi. Inoltre, il presidente
Ghani parteciperà solo se il leader talebano Haibatullah Akhundzada (latitante
da anni e fermo su posizioni molto estreme) farà altrettanto. A partire dal
marzo, la missione a guida NATO in Afghanistan, nota come Resolute Support Mission (RSM), composta da circa 10.000 soldati,
ha addestrato, mentorizzato ed assistito le Forze Nazionali di Difesa e Sicurezza
(Afghan National Defence Security Forces
- ANDSF) dell'Afghanistan sin sua dalla costituzione all'inizio del 2015,
quando le forze afghane hanno assunto la responsabilità della sicurezza a
livello nazionale. Continuano inoltre anche le operazioni di combattimento delle
Forze statunitensi all’interno dell'Operazione Freedom’s Sentinel, con particolare focus sulle province occidentali e meridionali di Helmand e
Knadahar, da sempre teatro dei più violenti scontri del paese.
Il leader dei talebani, Haibatullah
Akhundzada, noto come emiro al-mu'minin,
o comandante dei fedeli, incarna l’aspirazione del gruppo a rifondare l'Emirato
islamico dell'Afghanistan. Haibatullah è succeduto al Mullah Mansoor, ucciso in
un attacco aereo statunitense del 2016 in Pakistan; Mansoor era a sua volta
succeduto al fondatore talebano Mullah Omar, morto per cause naturali nel 2013.
Precedentemente membro dei tribunali religiosi talebani, Haibatullah è considerato
più uno studioso islamico che un tattico militare, tuttavia, sotto la sua leadership orientata al consenso fra le
varie fazioni interne al movimento (che è anche il principale punto debole dei
talebani) ha ottenuto alcuni importanti successi militari, ed il gruppo è visto
come più coeso e meno suscettibile alla frammentazione rispetto al passato. La
cui forza a disposizione di Haibatullah è stata stimata in 60.000 combattenti, e
gli stessi hanno costantemente dimostrato notevoli capacità tattiche. I
funzionari statunitensi descrivono l'attuale dinamica tra il governo afghano ed
i talebani come uno "stallo strategico" che probabilmente persisterà,
ma solo grazie al sostegno degli Stati Uniti; tale stallo è stato descritto
come una situazione in cui il governo dell'Afghanistan non avrebbe mai sconfitto
militarmente i talebani e questi ultimi, fintanto che resterà il sostegno
occidentale il governo dell'Afghanistan, non sconfiggeranno mai militarmente il
governo, ma questa situazione muterà drasticamente laddove gli Stati Uniti
alterassero il numerico e la postura del dispiegamento delle proprie truppe in
Afghanistan e riducessero i
finanziamenti per le ANDSF. Quest’ultimo aspetto in particolare, è davvero
deleterio in merito all’efficienza delle Forze Armate del Governo afghano, in
quanto venendo a mancare sia gli equipaggiamenti che le sovvenzioni (in
particolare gli stipendi) il personale non avrà grandi motivazioni per
combattere i talebani, e si temono molte defezioni al nemico, come già accaduto
nelle province occidentali. La partecipazione dei talebani ai colloqui di pace
o comunque la loro apertura ad una soluzione politica potrebbe spingere i
combattenti verso due direzioni: la prima, di collaborazione e rispetto dei
patti sanciti dagli accordi verso una soluzione politica condivisa, la seconda,
purtroppo più realistica, che vede il rapido ed inesorabile scollamento fra i
rappresentanti del movimento che vivono nel lusso e nella diplomazia a Doha, ed
i combattenti sul campo che devono sopravvivere quotidianamente in condizioni
precarie e che di fatto non riconoscono la loro rappresentanza diplomatica. Si
stima inoltre che Al Qaeda (AQ) abbia
ancora una forte presenza in Afghanistan ed i suoi legami decennali con i
talebani sembrano essere rimasti forti negli ultimi anni: nel maggio 2020, gli
osservatori delle sanzioni delle Nazioni Unite hanno riferito che i leader di alto livello dei talebani si
sono consultati regolarmente con le loro controparti di AQ durante i negoziati
con gli Stati Uniti. Sebbene in passato i talebani abbiano combattuto attivamente
Al Qaeda, la stessa sta guadagnando forza in Afghanistan continuando a operare a
supporto del gruppo e ricevendone a sua volta protezione. In particolare, si
stima che una volta uscito di scena il contingente NATO, venendo a mancare il
“nemico comune”, inizierebbe un conflitto interno al gruppo con conseguente
disgregazione e guerra civile; e nella lotta al potere, diverse fazioni talebane,
pur di ottenere la vittoria, non esiterebbero ad allearsi attivamente con AQ e
peggio ancora, con ISIS-K.
Sin dalla sua fondazione,
l’Afghanistan è stato ed è tuttora teatro di conflitti e tensioni generate dai
paesi confinanti o comunque presenti nella stessa regione, venendone direttamente
influenzato. Il più importante a questo riguardo è ovviamente il Pakistan, che
da decenni svolge un ruolo attivo, e per molti versi negativo, negli affari interni
afghani. I servizi di sicurezza interni pakistani (Inter-Service Intelligence, o ISI) mantengono stretti legami con i
gruppi ribelli afgani, ed in particolare la rete Haqqani. I leader afghani, insieme ai comandanti
militari statunitensi, hanno attribuito gran parte del potere e della longevità
dell'insorgenza direttamente o indirettamente al sostegno pakistano.
L'amministrazione statunitense dell’epoca Trump aveva chiesto l'assistenza di
Islamabad nei colloqui di pace con i talebani dopo il 2018 e da allora le
valutazioni americane sul ruolo dei talebani sono state generalmente più
positive. Ad esempio, Khalilzad ha ringraziato il Pakistan per aver rilasciato il
Mullah Baradher dalla custodia nell'ottobre 2018 e per aver facilitato il
viaggio di figure talebane ai colloqui a Doha. Nonostante le dichiarazioni
contrarie della leadership ufficiale
pakistana, Islamabad può considerare un Afghanistan debole e destabilizzato
preferibile a uno stato afghano forte e unificato (in particolare uno guidato
da un governo di etnia pashtun a
Kabul; il Pakistan ha infatti al suo interno un’ampia e attiva comunità pashtun). Le relazioni
Afghanistan-Pakistan sono ulteriormente complicate dalla presenza di oltre un
milione di rifugiati afghani in Pakistan, così come da una disputa di lunga
data e dalle sfumature etniche sul confine di ben 2.670 km (definito anche
linea Durand, dal diplomatico britannico che lo ha tracciato alla fine del XIX°
secolo). L'ISI pakistano, timoroso di un accerchiamento strategico dall'India,
apparentemente continua a vedere i talebani afghani come persone relativamente
affidabili (definiti talebani “buoni” in quanto svolgono le loro attività in
Afghanistan a differenza dei gruppi “cattivi” come Tehrik Taliban Pakistan, o TTP, che si concentra invece su attività
contro le forze di sicurezza pakistane) nonché come elemento anti-indiano in
Afghanistan. La presenza diplomatica e commerciale indiana in Afghanistan
esacerba infatti i timori pakistani di accerchiamento. L'India è stata il
maggior contributore regionale alla ricostruzione afghana, ma Delhi non ha
mostrato un'inclinazione particolare a perseguire un rapporto più profondo con
Kabul. L'Afghanistan mantiene legami per lo più cordiali con gli altri paesi
vicini, in particolare gli stati post-sovietici dell'Asia centrale, il cui
ruolo nelle dinamiche interne del paese è stato relativamente limitato, ma
potrebbero aumentare in futuro. Negli ultimi due anni, molti comandanti
statunitensi hanno riportato un aumento del supporto a favore dei talebani da
parte della Russia e dell'Iran, i quali a loro volta hanno utilizzato la
presenza di ISIS-K in Afghanistan per giustificare le loro attività,
specialmente il secondo in chiave religiosa (rifacendosi al secolare scontro
fra musulmani sciiti e sunniti). L'Afghanistan rappresenta inoltre una priorità
crescente per la Cina nel contesto delle sue sempre più ampie aspirazioni in
Asia e nel mondo, facendo coincidere la propria strategia geopolitica con
l’antica via della seta ed utilizzando quindi il paese come punto di transito
verso i porti pakistani nell’Oceano Indiano ed i confini occidentali per collegarsi
con l’Iran. Va inoltre ricordato che quasi tutte le miniere di pietre e metalli
preziosi presenti sul suolo afghano sono state acquistate da Pechino, che ha
investito parecchio denaro nel settore delle vie di comunicazione terrestri
(asfaltatura e manutenzione della Highway
1, nota anche come “ring road”,
che di fatto circonda tutto il paese e ne costituisce la principale arteria
stradale). Altro attore di cui tener conto è la Turchia, che sta investendo
parecchie risorse nel paese e di fatto, controlla la sicurezza dell’aeroporto
internazionale di Kabul, altro centro nevralgico e strategico. Sebbene sia un
membro della NATO, Ankara ha dichiarato di avere propri piani bilaterali con
l’Afghanistan e pertanto, non si atterrà alla pianificazione di ritiro della
coalizione, mantenendo quindi il proprio contingente militare. Resta da
chiarire come il presidente turco Erdogan voglia affrontare la posizione
talebana che impone a tutti gli occidentali, siano essi militari o contractors, di abbandonare il paese, a
meno che non vi siano già trattative in corso per mitigare ciò e consentire la
permanenza delle forze turche tramite accordi coi talebani. Le ipotesi per tale
soluzione sono molteplici: di sicuro la prima che salta all’attenzione è la
possibilità di chiudere l’Iran (avversario storico nonché religioso) a ovest e
ad est realizzando così, unitamente al Turkmenistan ed all’Azerbaijian, il
cosiddetto “asse turkmeno” che si estenderebbe dal mare Mediterraneo fino ai
confini con la Cina, rendendo la Turchia una vera e propria potenza regionale,
in contrapposizione al progetto iraniano della cosiddetta “mezzaluna sciita”
che, in caso di presa di potere da parte di autorità islamiche sciite e quindi
anti-talebane in Afghanistan, porterebbe ad estendere questa entità geopolitica
dalle coste mediterranee siriane fino a Kabul. Altra carta importante da
giocare nel mazzo di Ankara è il signore della guerra Abdul Rashid Dostum,
attivo già dalla guerra contro i sovietici oltre che generale dell’Alleanza del
Nord contro il precedente emirato talebano, che potrebbe giocare un ruolo
importante dalla sua attuale posizione governativa in chiave filo-turca. Come
si può notare, ora più che mai il territorio afghano è un teatro operativo di
dispute geopolitiche da parte di altri paesi confinanti e non, che attendono la
partenza della NATO per utilizzare le fazioni belligeranti già presenti in
Afghanistan o nuove realtà locali da impiegare in un conflitto per procura
volto alla spartizione delle principali vie di comunicazione dell’Asia centrale
nonché delle principali risorse del territorio; l’unica grande incognita resta
ISIS-K, che perseguendo il progetto del Califfato sunnita, non intende allearsi
ma combattere (almeno finora) contro i talebani, AQ e le forze governative.
Oltre alla postura imprevedibile, ISIS-K conduce attacchi estremamente violenti
anche contro obiettivi eticamente intoccabili come donne e bambini, e
soprattutto ne esalta le conseguenze attraverso i media. In questa situazione
altamente esplosiva, la popolazione prosegue con la vita quotidiana e attende i
prossimi mesi ben sapendo che costituiranno un momento storico per il paese e
la regione stessa dopo 20 anni di Campagna NATO. Ben oltre il 70% degli afghani
non vuole ritornare al regime talebano ed alle sue regole estremamente
restrittive, soprattutto dopo aver vissuto per due decadi a contatto con gli
occidentali e, nonostante il continuo clima di crisi e conflitto, aver provato
un tipo di governo più democratico. Ipotizzando l’avvento di un nuovo emirato talebano,
sia a seguito della guerra civile o per accordi con il governo in carica, esso
sarebbe molto diverso da quello precedente. Innanzitutto la nuova leadership appartiene ad una generazione
di giovani combattenti, proprio come i loro predecessori, ma molto più
interconnessi grazie anche all’uso delle piattaforme social network e dei contatti internazionali con finanziatori e
sostenitori politici, rendendoli di fatto molto più “sensibili” alla considerazione
che il movimento talebano necessita in campo internazionale per la sua
affermazione ed approvazione. Fallire in quest’opera di propaganda
significherebbe per il movimento rischiare di ritrovarsi un’altra coalizione
militare nel paese con conseguente impossibilità di mantenere il potere
conquistato. Come già precedentemente illustrato, la soluzione della leadership talebana sarebbe quella di un
regime teocratico con una forte connotazione repressiva basata sulla Shari’a (legge islamica) ma con
altrettanto marcate connotazioni di modernità basate su un moderno stato
occidentale, facendo assomigliare il paese all’attuale Iran, sebbene agli
antipodi di quest’ultimo per corrente religiosa.
Con l'avvicinarsi della scadenza del primo
di maggio 2021 per il ritiro delle Forze internazionali dall'Afghanistan,
appare chiaro che l'amministrazione Biden intensificherà gli sforzi per mediare
un accordo intra-afghano che riduca la ostilità e crei un percorso per una
soluzione politica. In ogni caso, sembra sempre più improbabile che gli Stati
Uniti saranno in grado di rispettare quella scadenza, sollevando dubbi su come
potrebbero reagire i talebani nel frattempo; inoltre, il governo USA non ha
rilasciato grandi commenti sulla situazione in Afghanistan, ma in un'intervista
del 16 marzo scorso, lo stesso Presidente Biden ha dichiarato che l'accordo tra
Stati Uniti e talebani non era stato negoziato in modo molto concreto, e che il
rispetto della scadenza per il ritiro del primo maggio sarebbe auspicabile ma
difficile da realizzare, concludendo con l’affermazione che comunque non
avrebbe previsto la presenza di truppe statunitensi ancora in Afghanistan al
termine del 2021.
Per quanto riguarda invece la visione
più tattica della situazione attuale, i talebani si stanno preparando per la
prossima offensiva di primavera, come del resto è sempre accaduto, a seguito della
raccolta dei proventi della vendita dell’oppio e l’inizio della stagione calda:
aspetti favorevoli per iniziare gli attacchi contro la coalizione. Stavolta
però stanno ammassando i combattenti nelle periferie delle città capoluoghi di
provincia come Herat, Jalalabad, Mazar-i-Sharif e Kandahar, e solo quest’ultima
è già teatro di scontri violenti in quanto è la porta di accesso al paese dalla
regione pakistana del Balochistan, sede fra l’altro della giunta militare
talebana, ovvero Shura di Quetta. Gli
altri capoluoghi di provincia sono attigui ad altrettanti confini statali e
rappresentano quindi nodi strategici per controllare il flusso di combattenti e
risorse da e per l'Afghanistan. Per quanto riguarda Kabul, anche attorno ad
essa si sta stringendo silenziosamente l’assedio talebano, in attesa della
partenza definitiva della NATO. Si attendono attacchi intimidatori per
accelerare il processo di evacuazione attuati attraverso armi a tiro indiretto
come razzi e mortai unitamente ad assassinii mirati contro le personalità
importanti del governo e delle ANSDF. In questa strategia di logoramento,
restano le due grandi incognite: la prima, il ruolo di ISIS-K che non segue
alcuna strategia ma mira esclusivamente al terrore ed alla disgregazione del
paese, rendendo questa organizzazione imprevedibile e difficile da contrastare;
la seconda, la tenuta delle ANSDF dopo la partenza della NATO e la loro
resilienza nel perseguire gli obiettivi di assicurare la stabilità dello stato
oltre che a combattere il terrorismo (caratteristica altamente dipendente dai
finanziamenti USA ed europei, al momento già aggravati dai costi di gestione della
pandemia COVID-19), senza quindi cadere nel pozzo senza fondo delle defezioni a
catena: sarebbe davvero la fine del governo in carica e dell’Afghanistan come
lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Lorenzo Prodan, frequentatore del Master di 1° Liv. in Politica Militare Comparata. Da 1960 ad oggi. attivato presso la Università degli Studi N. Cusano Telematica Roma.
sabato 10 aprile 2021
Afganistan: Le vie di facilitazione
L'Afganistan si presenta con un centro praticamente inaccessibile, mentre la sua periferia, è percorsa da un anello che rappresenta il sistema principale portante delle vie di facilitazione per la percorrenza del Paese. Da questo anello verso l'esterno partano vie di facilitazione vero i paesi confinanti
mercoledì 31 marzo 2021
Cina: Il teatro operativo.
La Carta mostra il teatro operativo che si mostra alla CIna. Tutti i punti di uscita dai propri mari sono critici. I Paesi dell'ANSEAN sono un approccio tutto da costruire, mentre il prinmo ed il secondo cordone statunitense rappresenta al momento una totale chisura per l'accesso al Pacifico ed alle rotte meridionali.
Fonte LIMES Rivista di geopolitica. www.ilmioabbonamento.org.
venerdì 19 marzo 2021
Filippine: la repressione anticomunista di Duterte
L'insurezione comunista delle Filippine è la più lunga ancora in corso nel mondo . Cominciata nel 1969 con la nascita del Bagong hutìkbong bayan BHB ( Nuovo Esercito Popolare) il braccio armato del partito comunista filippino , di orientamento marxista-leninista maoista la guerra tra esercito e ribelli continua dopo quaranta anni di colloqui di pace falliti. Fonti governative hanno annunciato ultimamente che il BHB è sull'orlo del collasso che entro la fine del mandato del presente governo nel 2022 si arriverà alla pace. In realtà dato il consenso che hanno i comunisti nelle zone rurali e l'interesse delle forze armate a mantenere aperto il conflitto e viva la minaccia che giustifica ingenti fondi destinati ogni anno all'esercito, difficilmente si raggiungerà la pace in breve tempo. Intanto si deve registrare l'azione della polizia, che ubbidendo ai diretti ordini del Presidente Duterte ha ucciso in un giorno tra militanti e sindacalisti nove persone accusate di essere legate all'insurrezione comunista.
Fonte: Internazionale 1400 12 marzo 2021
venerdì 12 marzo 2021
Perche il bilancio delle vittime per covid è stato contenuto relativamente in AFrica e in Asia?
Una delle risposte potrebbe essere che in questi continenti si vive molto all'aria aperta, oppure vi sono sistemi immunitari individuali più allenati alle infezioni ed ai virus, la popolazione è più giovane. Ovviamente incide anche il sistema di rilevazione statistica che proprio non è estremamente aderente alla realtà. In ogni caso la domanda posta merita ulteriori studi e spiegazioni relative.
domenica 28 febbraio 2021
Cina e Giappone e le controversie nel 1940
La Cina nazionalista è stata oggeto dell'imperialismo nipponico Il Giappone non aveva territorio, mentre la Cina era l'esatto contrario. La necessita di avere piede sul continente fece si che il Giappone dal 1931 iniziò una guerra contro la Cina che praticamente è finita solo nel 1945. Le ragioni che sostennero l'imperialismo nipponico sono state rimosse con la sconfitta del 1945. Ma oggi, nel confronto tra Stati Uniti e Cina queste ragioni ritornato ad essere presenti in quanto gli Stati Uniti non possono nel confronto fare a meno del Giappone che ovviamente presenta le sue richieste. la Carta, fonte LIMES, mostra le linee di penetrazione
mercoledì 10 febbraio 2021
Russia: controversie per la rotta marittima settentrionale
La carta mostra gli stretti russi che sono contestati dagli Stati Uniti. Il problema è veramente importante per la Russia in quanto gli stretti possono interessare anche lo sviluppo degli sforzi per potenziare la Rotta Marittima Settentrionale. Le relazioni non difficoltose con gli Stati Uniti sono fondamentali per avere prospettive di sviluppo per questi problemi
Fonte LIMES Rivista di geopolitica info: www.ilmioabbonamento.it
domenica 31 gennaio 2021
Rivista QUADERNIn.3 del 2020 Luglio-Settembre 2020
Per la parte dedicata
alla Storia, iniziano con questo numero le pubblicazioni dedicate al centenario
del Milite Ignoto che ricorre il prossimo anno. L’’Istituto è particolarmente
impegnato in questa data anniversaria, e la Rivista non può che assecondare
questa scelta. Prosegue, sull’abbrivio della Giornata del Decorato del 2021,
che non si è potuta celebrare per via della epidemia da Covid19, che non può
fermare l’attività posta in essere a corredo scientifico di detta giornata, le
note riguardanti la campagna di Sicilia del luglio 1943 e degli avvenimenti
riguardanti la campagna d’Italia del 1944. Contributi di Massimo Coltrinari e
Luigi Marsibilio, nell’ambito delle ricerche avviate a seguito dei Progetti in
corso riguardanti le tematiche della Guerra di Liberazione, e una di Giorgio Clemente
che affronta particolari situazioni di nostri militari durante la seconda
guerra mondiale e una nota di Consalvo Dolce riguardante l’intervento
dell’impegno degli Stati Uniti nel Vietnam.
Per la parte
geografica apre Valentina Trogu trattando della sociologia della deterrenza,
mentre in geopolitica delle prossime sfide, una nota sul covid e come viene
affrontato, che fa riflettere sulla leaderschip degli Stati Uniti nel mondo
occidentale e Luca Bordini che tratta della digitalizzazione nelle FF.AA.
Infine Stefano Chiarle tratta dell’Ucraina e del suo cammino verso la democrazia.
Nelle rubriche,
quelle relative al CESVAM si riportano alcune peculiari attività del Centro,
con la evidenziazione delle realizzazioni editoriali mentre gli Indici della
rivista QUADERNI ON LINE si riferiscono al III trimestre del 2020. Si può
finalmente dire che un costante aggiornamento delle NOTIZIE CESVAM e degli
eventi a cui si partecipa come CESVAM è possibile trovarlo sulla home page
della piattaforma www.cesvam.org alla rubrica
“Eventi” ed alla rubrica “Notizia CESVAM”, mentre è in progetto la
pubblicazione su questa rivista dei contenuti dei vari comparti della
piattaforma
La rubrica di chiusura
riporta la iconografia brigate di fanteria della prima guerra mondiale, come
tradizione di questa rivista.
Da ultimo,
l’editoriale del Presidente Nazionale ed il Post editoriale del Direttore del
Periodico sono intonati al tema della celebrazione del Milite Ignoto, nel solco
delle scelte sopra dette, e dei contenuti evidenziati nella pubblicazione consorella.
(massimo coltrinari)
In I di Copertina: Lapide Commemorativa del Bollettino della
Vittoria del 4 Novembre 1918
martedì 19 gennaio 2021
Un conflitto in più per i Giganti asiatici
Tra Cina e India, il fiume (e la diga) della discordia
In Cina lo chiamano Yarlung Zangbo, in India Brahmaputra. È il fiume della discordia tra Pechino e Nuova Delhi, i due giganti asiatici impegnati in annosi contenziosi territoriali lungo il poroso confine che divide Tibet e Xinjiang dalle regioni indiane dell’Arunachal Pradesh e dell’Aksai Chin. Sgorga dal Tibet e attraversa India e Bangladesh percorrendo oltre 2.900 km tra ghiacciai, canyon e vallate lussureggianti. All’estero è noto per essere il corso d’acqua più alto del mondo, ma per le popolazioni locali, prevalentemente agricole, il fiume è soprattutto un’imprescindibile fonte di sostentamento. Così, quando alcuni giorni fa il colosso delle rinnovabili Power Construction Corporation of China ha annunciato la costruzione sul tratto cinese di una mega diga “senza precedenti nella storia” la notizia ha suscitato immediate preoccupazioni nei due Paesi a valle. Tre volte più potente della famigerata Diga delle Tre Gole ̶ realizzata sullo Yangtze nel 2006 nonostante l’opposizione degli ambientalisti ̶ il nuovo impianto si colloca all’interno dell’ambizioso pacchetto di investimenti preannunciato dal Partito comunista per il prossimo piano quinquennale. Obiettivo: sostenere la crescita economica perseguendo il taglio delle emissioni. Ma se per Pechino la nuova diga (una delle otto programmate per i prossimi dieci anni) risponde a “esigenze ambientali, di sicurezza nazionale, e cooperazione internazionale”, in India, dove la popolarità del Dragone è già ai minimi storici, l’annuncio è stato accolto con diffidenza. Soprattutto considerata la collocazione: Medog, l’ultima contea tibetana dove lo Yarlung Zangbo forma un gomito prima di gettarsi nelle aree contese dell’Arunachal Pradesh e cambiare nome. Non solo l’area coinvolta è soggetta a smottamenti e frequenti scosse sismiche. Secondo India Today, la scarsa densità abitativa rende il progetto inutile per le popolazioni locali, tanto che c’è chi sospetta sia stato pianificato con l’obiettivo di “sottrarre” energia elettrica ai villaggi di confine per dirottarla verso la Cina centrale. Un’accusa che accompagna di frequente gli investimenti idroelettrici cinesi quando incidono sulla distribuzione delle risorse nel vicinato asiatico. Ma sono soprattutto le possibili ricadute geopolitiche a preoccupare Nuova Delhi. Da mesi le due potenze regionali sono impegnate a fronteggiarsi lungo la contestata Linea di controllo effettivo (LAC, Line of Actual Control) che divide ̶ o almeno dovrebbe ̶ il territorio indiano da quello tibetano. A giugno 22 soldati indiani e un imprecisato numero di cinesi hanno perso la vita negli scontri più violenti dal 1975. La gestione della diga permetterebbe a Pechino di controllare il flusso d’acqua provocando oltreconfine inondazioni e siccità a proprio piacimento. Il problema non è nuovo. Lo stesso dilemma si ripropone ciclicamente lungo il Mekong, il fiume più lungo dell’Indocina, che il gigante asiatico condivide con Thailandia, Vietnam, Laos e Cambogia. In entrambi i casi, l’opacità con cui la Cina gestisce le controversie non aiuta a diradare i sospetti. Un accordo siglato nel 2002 imporrebbe la condivisione dei dati idrologici con il governo indiano durante la stagione dei monsoni. Ma la prassi è stata spesso ignorata con tempismo sospetto. È successo nel 2017, quando dopo 72 giorni di tensioni militari sull’altopiano del Doklam, Pechino smise di consegnare a Nuova Delhi le informazioni idrometriche del Brahmaputra. Il pericolo di una manipolazione delle risorse idriche si è riaffacciato lo scorso giugno, al culmine delle schermaglie lungo la frontiera sino-indiana quando, secondo rilevamenti satellitari, i bulldozer cinesi bloccarono il flusso naturale del fiume Galwan nell’omonima valle teatro degli scontri. In Cina, dove fino al secolo scorso l’agricoltura è rimasta la prima fonte di sussistenza, la costruzione di dighe e canali vanta una storia millenaria. Si fa risalire al leggendario sovrano Yu il Grande, ed è rimasta una costante durante tutto il periodo imperale per scongiurare carestie e rivolte contadine. Con l’avvento della leadership comunista, alle grandi opere idrauliche (si pensi al ciclopico progetto di diversione delle acque South-North Water Transfer Project vagheggiato da Mao Zedong e avviato nel 2002 per dissetare il Nord del Paese industriale grazie a una serie di canali e acquedotti) è stato affiancato l’utilizzo dell’ingegneria ambientale. Per sei decenni, il Partito/Stato ha schierato aerei militari e cannoni antiaerei per inseminare le nuvole con ioduro d’argento e azoto liquido così da addensare le goccioline d’acqua fino a trasformarle in neve e pioggia.
Mentre la tecnologia è stata utilizzata principalmente a livello nazionale per alleviare la siccità o schiarire il cielo in vista di eventi celebrativi, come nel caso delle dighe anche le nuove tecniche di modificazione del clima hanno finito per creare apprensione al di là della Muraglia. Solo pochi giorni fa Pechino ha annunciato un piano mirato a quintuplicare entro il 2035 le operazioni di inseminazione delle nuvole fino a coprire un’area grande quanto l’India. Epicentro del progetto sarà proprio l’altopiano tibetano, la più grande riserva di acqua dolce d’Asia dove nascono il Mekong e il Brahmaputra. Far fluire artificialmente l’aria calda e umida del subcontinente indiano verso le desertiche province della Cina settentrionale è un’idea che circola negli ambienti militari cinesi fin dagli anni Settanta. E mentre per ora il cloud seeding sembra avere esclusivamente finalità pacifiche, la Cina non sarebbe certo la prima a impiegare la geoingegneria per colpire i Paesi rivali. Durante la guerra del Vietnam, furono gli Stati Uniti a manipolare le piogge stagionali per bloccare i rifornimenti lungo il sentiero di Ho Chi Minh.