Nel gennaio 2021, l'amministrazione
Trump ha dichiarato di aver ridotto le forze statunitensi in Afghanistan a
2.500 uomini, il numero più basso dal 2001, in anticipo rispetto al potenziale
ritiro completo militare entro maggio 2021 a cui gli Stati Uniti si erano
impegnati nell'accordo USA-talebani del febbraio 2020. In seno a tale accordo,
in cambio del completo ritiro delle forze internazionali, i talebani si sono
impegnati a impedire ad altri gruppi, tra cui Al Qaeda, di utilizzare il suolo afghano per reclutare, addestrare
o raccogliere fondi per attività che minaccino gli Stati Uniti o i suoi
alleati. L'accordo è stato accompagnato da un testo che, secondo il Capo di
Stato Maggiore della Difesa, Generale Mark Milley, contiene ulteriori impegni da
parte dei talebani, incluso quello di non attaccare le forze statunitensi o
internazionali. I funzionari statunitensi sostengono che i talebani non hanno
rispettato gli accordi e descrivono il potenziale ritiro degli Stati Uniti come
“soggetto a precise condizioni", ma non hanno specificato esattamente
quali di queste potrebbero invertire o alterare in altro modo la tempistica del
ritiro stabilita nell'accordo. I rappresentanti del governo afghano non presero
parte ai colloqui tra Stati Uniti e talebani, portando alcuni osservatori a
concludere che gli Stati Uniti avrebbero dato la priorità al ritiro militare mediante
un complesso accordo politico che tenderebbe a preservare buona parte dei risultati
sociali, politici e umanitari conseguiti dal 2001. Il 12 settembre 2020, il
governo afghano ed i rappresentanti dei talebani si sono incontrati
ufficialmente a Doha, in Qatar, per iniziare i loro primi negoziati di pace diretti
verso una tale soluzione, in un momento storico significativo con implicazioni
potenzialmente drammatiche per l’esito del conflitto in corso. I colloqui non
sembrano aver fatto progressi e rimangono complicati da una serie di fattori,
tra cui gli elevati livelli di violenza. Alla luce dell'imminente termine per
il ritiro e dello stallo dei colloqui intra-afghani, gli Stati Uniti sembrano
aver intensificato i propri sforzi per mediare un accordo intra-afghano. Il
Segretario di Stato USA, Antony Blinken, ha scritto ai funzionari del governo
afghano nel marzo 2021 con lo scopo di esortarli a formare un fronte unito e
partecipino agli sforzi diplomatici multilaterali pianificati, compresi i
colloqui in Turchia nell'aprile 2021. Secondo quanto riferito, gli Stati Uniti
hanno anche elaborato un progetto di pace per far ripartire i negoziati che
include una varietà di opzioni, inclusa l'istituzione di un governo di
transizione ad interim, che il
presidente afghano Ashraf Ghani ha però respinto. Dato il ruolo enorme degli
Stati Uniti nel potenziamento del governo afghano, molti esperti mettono in
guardia circa la possibilità di un ritiro su vasta scala da parte degli Stati
Uniti in parallelo ad un'interruzione degli aiuti che potrebbe portare al collasso
del paese oltre che al ristabilimento del dominio formale dei talebani su una
sua buona parte o addirittura tutto il suo territorio. Per molti aspetti, i
talebani sono in una condizione militare più che mai ottimale. Si valuta che
una volta ultimati i negoziati in maniera sufficientemente esaustiva da
garantire un ritiro completo degli Stati Uniti, i talebani sfrutteranno il loro
vantaggio militare per prendere il controllo del paese con la forza. Alcuni
membri del Congresso hanno supportato l’opzione di mantenere le truppe
statunitensi in Afghanistan dopo il mese di maggio 2021, anche se ciò potrebbe
spingere i talebani a riprendere gli attacchi contro le forze internazionali,
oltre che ad interrompere i negoziati di pace.
Il 29 febbraio 2020, dopo oltre un
anno di negoziati ufficiali tra rappresentanti degli Stati Uniti e dei
talebani, le due parti hanno concluso un accordo che pone le basi per il ritiro
delle forze armate statunitensi dall'Afghanistan e per i colloqui tra Kabul e i
talebani. Nel luglio 2018, l'amministrazione Trump ha avviato negoziati diretti
con i talebani senza la partecipazione di rappresentanti del governo afghano,
ribaltando la precedente posizione degli Stati Uniti che privilegiava un processo
di riconciliazione a guida afghana. La nomina nel settembre 2018 di Zalmay
Khalilzad, un ex ambasciatore statunitense di origine afghana e residente in
Afghanistan, in qualità di rappresentante speciale per la riconciliazione
dell'Afghanistan, ha dato slancio a questo sforzo. Per oltre un anno, Khalilzad
ha tenuto una serie quasi continua di incontri con funzionari talebani a Doha,
insieme a consultazioni con gli afghani, pakistani e altri governi della regione.
Il 29 febbraio 2020, il Rappresentante speciale Khalilzad ha firmato un accordo
formale a Doha con il vice leader
politico talebano Mullah Abdul Ghani Baradher di fronte ad una platea di
osservatori internazionali. Nell'accordo, le due parti hanno concordato delle
garanzie ben correlate: il ritiro di tutte le forze statunitensi e
internazionali entro il mese di maggio 2021 e l’impegno da parte dei talebani di
impedire ad altri gruppi (tra cui Al
Qaeda) di utilizzare il suolo afghano per minacciare gli Stati Uniti ed i
suoi alleati. Altri impegni da parte degli Stati Uniti includevano
l'agevolazione di uno scambio di prigionieri tra i talebani e il governo
afghano e la rimozione delle sanzioni statunitensi.
Fra gli altri impegni presi dagli
Stati Uniti vi sono l'agevolazione di uno scambio di prigionieri tra i talebani
e il governo afghano e la rimozione delle sanzioni sui talebani. In base
all'accordo, i funzionari statunitensi hanno affermato che i talebani non
stanno adempiendo ai loro impegni ai sensi dell'accordo, in particolare per
quanto riguarda eventuali affiliazioni ad Al
Qaeda o peggio ancora ad ISIS-K (ISIS Khorrasan,
la filiera centro-asiatica dello Stato Islamico). Il ritiro degli Stati Uniti
può anche influenzare le forze militari dei paesi partner (che al momento superano numericamente le forze
statunitensi nel paese) e la loro capacità di operare sul terreno e soprattutto
di continuare la loro missione di addestramento (Train, Advise and Assist – TAA) senza il fondamentale supporto
logistico americano. Alcuni diplomatici stranieri hanno espresso cautela
riguardo all’opzione del ritiro, incluso il Segretario generale della NATO
Stoltenberg che ha affermato che sebbene ci siano rischi nel rimanere, partendo,
si rischia che l'Afghanistan diventi di nuovo un rifugio sicuro per i
terroristi internazionali, e si getterà al vento gli obiettivi conseguiti con un
pesante sacrificio in termini di risorse e soprattutto, di vite umane.
L'accordo USA-talebani impegnava questi ultimi ad avviare colloqui con il
governo afghano entro marzo, ma i negoziati sono rimasti non programmati per
mesi tra varie complicazioni come i ritardi nello scambio di prigionieri tra talebani
e il governo afghano. Il presidente afghano Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah,
oppositore elettorale di Ghani, ed ex partner
nel governo di unità nazionale, hanno convenuto nel maggio 2020 di porre fine
alla loro impasse politica e nominare
Abdullah presidente del neo-creato Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale
(High Council for National Reconciliation)
per supervisionare i colloqui con i talebani. Lo scambio di prigionieri è stato
completato all'inizio di settembre 2020, rimuovendo così il principale ostacolo
ai colloqui intra-afghani, iniziati a Doha nello stesso mese. Le due parti si
sono successivamente incontrate a intermittenza, ed alcune discrezioni provenienti
dai colloqui li davano in fase di stallo. Il rappresentante speciale Khalilzad
ha dichiarato l'11 settembre 2020 che gli Stati Uniti impegneranno entrambe le
parti ai negoziati, ma non parteciperanno direttamente ai colloqui, limitandosi
ad agevolare i negoziati laddove richiesto. Da allora Khalilzad ha effettuato
numerose visite a Doha, dove si è incontrato separatamente con i membri di
ciascuna squadra negoziale. Nel frattempo, le principali offensive talebane
nell'Afghanistan meridionale alla fine del 2020 hanno provocato lo sfollamento
di decine di migliaia di civili, hanno portato le forze afghane ad abbandonare
quasi 200 posti di blocco nella provincia di Kandahar nel solo mese di dicembre
2020, e ha spinto gli Stati Uniti a lanciare attacchi aerei a sostegno delle
forze governative afghane, e sono di fatto il motivo per cui i talebani
spingono moltissimo per il ritiro della NATO; la superiorità aerea ha inflitto
gravi perdite fra i miliziani. Per quanto riguarda invece le attività
terroristiche, negli ultimi mesi sono aumentati gli attacchi mirati, veri e
propri assassinii in pubblico, spesso applicando cariche esplosive magnetiche
ai veicoli dei bersagli o tendendo vere e proprie imboscate con armi da fuoco. Il
governo afghano ha quindi dato la priorità a un cessate il fuoco permanente,
che i talebani hanno respinto nonostante due tregue limitate negli ultimi anni.
Si dubita che i talebani accetterebbero di abbandonare la azioni violente, loro
principale fonte di influenza sulla popolazione, prima di qualsiasi accordo
politico intra-afghano. Un loro portavoce ha dichiarato lo scorso marzo che il
gruppo aveva presentato una bozza di proposta per mitigare gli attacchi già a dicembre
2020, ma quell'accordo non era stato poi ratificato. Rimangono importanti
differenze tra le due rispettive visioni per il futuro dell'Afghanistan,
compresa la struttura dello stato afghano e quali diritti dovrà riconoscere ai
cittadini afgani, in particolare alle donne. I talebani, che si sono
concentrati sul ritiro delle forze straniere e soprattutto del loro potere
aereo, non hanno mai fornito dettagli circa le loro proposte sulle questioni di
governance. All'apertura dei colloqui
a Doha, il vice leader politico
talebano Mullah Abdul Ghani Baradher ha dichiarato di volere un Afghanistan
indipendente, sovrano, unito, sviluppato e libero, con un sistema islamico in
cui tutte le persone della nazione possano partecipare alla comunità senza
discriminazione. In una lettera aperta dello scorso febbraio, Baradher ha
scritto che il gruppo si è impegnato a proteggere i diritti delle donne come loro
garantiti dalla legge islamica e la libertà di parola nel quadro dei principi
islamici e degli interessi nazionali. Si ipotizza dunque che i talebani
probabilmente cercheranno una supervisione religiosa del processo decisionale
esecutivo e legislativo realizzando una versione ibrida del loro precedente emirato
(1996-2001) con uno stato moderno in stile occidentale. I leader del governo in carica esprimono la determinazione a
preservare le istituzioni democratiche dell'Afghanistan e la sua costituzione,
che stabilisce l'Islam come religione di stato ma non lega la legislazione e la
politica nazionale in maniera stretta alla giurisprudenza religiosa. Il
presidente Ghani ha pertanto dichiarato che il suo governo non concluderà alcun
accordo che limiti i diritti degli afgani. Non è chiaro quale tipo di sicurezza
e accordi politici potrebbero soddisfare sia Kabul che i talebani nella misura
in cui questi ultimi abbandonino la lotta armata. Molti afgani, in particolare
donne, ricordano il governo talebano e si oppongono alle politiche e alle
convinzioni del gruppo, dubitando dell'affidabilità dei talebani e temono che,
in assenza di pressioni militari statunitensi, il gruppo avrà ben poche motivazioni
ad attenersi ai termini degli accordi raggiunti con Kabul. Si sospetta che i
talebani stiano cercando di prendere tempo e far scadere i termini del ritiro
delle truppe americane, impantanando il processo in trattative abbastanza lunghe
fino al ritiro completo degli Stati Uniti, dopo di che trarranno passeranno
all’attacco militare. Il culmine degli sforzi diplomatici statunitensi sarà l’incontro
di alto livello che si terrà ad Istanbul il 24 aprile per finalizzare l’accordo;
al momento però i talebani non intendono parteciparvi. Inoltre, il presidente
Ghani parteciperà solo se il leader talebano Haibatullah Akhundzada (latitante
da anni e fermo su posizioni molto estreme) farà altrettanto. A partire dal
marzo, la missione a guida NATO in Afghanistan, nota come Resolute Support Mission (RSM), composta da circa 10.000 soldati,
ha addestrato, mentorizzato ed assistito le Forze Nazionali di Difesa e Sicurezza
(Afghan National Defence Security Forces
- ANDSF) dell'Afghanistan sin sua dalla costituzione all'inizio del 2015,
quando le forze afghane hanno assunto la responsabilità della sicurezza a
livello nazionale. Continuano inoltre anche le operazioni di combattimento delle
Forze statunitensi all’interno dell'Operazione Freedom’s Sentinel, con particolare focus sulle province occidentali e meridionali di Helmand e
Knadahar, da sempre teatro dei più violenti scontri del paese.
Il leader dei talebani, Haibatullah
Akhundzada, noto come emiro al-mu'minin,
o comandante dei fedeli, incarna l’aspirazione del gruppo a rifondare l'Emirato
islamico dell'Afghanistan. Haibatullah è succeduto al Mullah Mansoor, ucciso in
un attacco aereo statunitense del 2016 in Pakistan; Mansoor era a sua volta
succeduto al fondatore talebano Mullah Omar, morto per cause naturali nel 2013.
Precedentemente membro dei tribunali religiosi talebani, Haibatullah è considerato
più uno studioso islamico che un tattico militare, tuttavia, sotto la sua leadership orientata al consenso fra le
varie fazioni interne al movimento (che è anche il principale punto debole dei
talebani) ha ottenuto alcuni importanti successi militari, ed il gruppo è visto
come più coeso e meno suscettibile alla frammentazione rispetto al passato. La
cui forza a disposizione di Haibatullah è stata stimata in 60.000 combattenti, e
gli stessi hanno costantemente dimostrato notevoli capacità tattiche. I
funzionari statunitensi descrivono l'attuale dinamica tra il governo afghano ed
i talebani come uno "stallo strategico" che probabilmente persisterà,
ma solo grazie al sostegno degli Stati Uniti; tale stallo è stato descritto
come una situazione in cui il governo dell'Afghanistan non avrebbe mai sconfitto
militarmente i talebani e questi ultimi, fintanto che resterà il sostegno
occidentale il governo dell'Afghanistan, non sconfiggeranno mai militarmente il
governo, ma questa situazione muterà drasticamente laddove gli Stati Uniti
alterassero il numerico e la postura del dispiegamento delle proprie truppe in
Afghanistan e riducessero i
finanziamenti per le ANDSF. Quest’ultimo aspetto in particolare, è davvero
deleterio in merito all’efficienza delle Forze Armate del Governo afghano, in
quanto venendo a mancare sia gli equipaggiamenti che le sovvenzioni (in
particolare gli stipendi) il personale non avrà grandi motivazioni per
combattere i talebani, e si temono molte defezioni al nemico, come già accaduto
nelle province occidentali. La partecipazione dei talebani ai colloqui di pace
o comunque la loro apertura ad una soluzione politica potrebbe spingere i
combattenti verso due direzioni: la prima, di collaborazione e rispetto dei
patti sanciti dagli accordi verso una soluzione politica condivisa, la seconda,
purtroppo più realistica, che vede il rapido ed inesorabile scollamento fra i
rappresentanti del movimento che vivono nel lusso e nella diplomazia a Doha, ed
i combattenti sul campo che devono sopravvivere quotidianamente in condizioni
precarie e che di fatto non riconoscono la loro rappresentanza diplomatica. Si
stima inoltre che Al Qaeda (AQ) abbia
ancora una forte presenza in Afghanistan ed i suoi legami decennali con i
talebani sembrano essere rimasti forti negli ultimi anni: nel maggio 2020, gli
osservatori delle sanzioni delle Nazioni Unite hanno riferito che i leader di alto livello dei talebani si
sono consultati regolarmente con le loro controparti di AQ durante i negoziati
con gli Stati Uniti. Sebbene in passato i talebani abbiano combattuto attivamente
Al Qaeda, la stessa sta guadagnando forza in Afghanistan continuando a operare a
supporto del gruppo e ricevendone a sua volta protezione. In particolare, si
stima che una volta uscito di scena il contingente NATO, venendo a mancare il
“nemico comune”, inizierebbe un conflitto interno al gruppo con conseguente
disgregazione e guerra civile; e nella lotta al potere, diverse fazioni talebane,
pur di ottenere la vittoria, non esiterebbero ad allearsi attivamente con AQ e
peggio ancora, con ISIS-K.
Sin dalla sua fondazione,
l’Afghanistan è stato ed è tuttora teatro di conflitti e tensioni generate dai
paesi confinanti o comunque presenti nella stessa regione, venendone direttamente
influenzato. Il più importante a questo riguardo è ovviamente il Pakistan, che
da decenni svolge un ruolo attivo, e per molti versi negativo, negli affari interni
afghani. I servizi di sicurezza interni pakistani (Inter-Service Intelligence, o ISI) mantengono stretti legami con i
gruppi ribelli afgani, ed in particolare la rete Haqqani. I leader afghani, insieme ai comandanti
militari statunitensi, hanno attribuito gran parte del potere e della longevità
dell'insorgenza direttamente o indirettamente al sostegno pakistano.
L'amministrazione statunitense dell’epoca Trump aveva chiesto l'assistenza di
Islamabad nei colloqui di pace con i talebani dopo il 2018 e da allora le
valutazioni americane sul ruolo dei talebani sono state generalmente più
positive. Ad esempio, Khalilzad ha ringraziato il Pakistan per aver rilasciato il
Mullah Baradher dalla custodia nell'ottobre 2018 e per aver facilitato il
viaggio di figure talebane ai colloqui a Doha. Nonostante le dichiarazioni
contrarie della leadership ufficiale
pakistana, Islamabad può considerare un Afghanistan debole e destabilizzato
preferibile a uno stato afghano forte e unificato (in particolare uno guidato
da un governo di etnia pashtun a
Kabul; il Pakistan ha infatti al suo interno un’ampia e attiva comunità pashtun). Le relazioni
Afghanistan-Pakistan sono ulteriormente complicate dalla presenza di oltre un
milione di rifugiati afghani in Pakistan, così come da una disputa di lunga
data e dalle sfumature etniche sul confine di ben 2.670 km (definito anche
linea Durand, dal diplomatico britannico che lo ha tracciato alla fine del XIX°
secolo). L'ISI pakistano, timoroso di un accerchiamento strategico dall'India,
apparentemente continua a vedere i talebani afghani come persone relativamente
affidabili (definiti talebani “buoni” in quanto svolgono le loro attività in
Afghanistan a differenza dei gruppi “cattivi” come Tehrik Taliban Pakistan, o TTP, che si concentra invece su attività
contro le forze di sicurezza pakistane) nonché come elemento anti-indiano in
Afghanistan. La presenza diplomatica e commerciale indiana in Afghanistan
esacerba infatti i timori pakistani di accerchiamento. L'India è stata il
maggior contributore regionale alla ricostruzione afghana, ma Delhi non ha
mostrato un'inclinazione particolare a perseguire un rapporto più profondo con
Kabul. L'Afghanistan mantiene legami per lo più cordiali con gli altri paesi
vicini, in particolare gli stati post-sovietici dell'Asia centrale, il cui
ruolo nelle dinamiche interne del paese è stato relativamente limitato, ma
potrebbero aumentare in futuro. Negli ultimi due anni, molti comandanti
statunitensi hanno riportato un aumento del supporto a favore dei talebani da
parte della Russia e dell'Iran, i quali a loro volta hanno utilizzato la
presenza di ISIS-K in Afghanistan per giustificare le loro attività,
specialmente il secondo in chiave religiosa (rifacendosi al secolare scontro
fra musulmani sciiti e sunniti). L'Afghanistan rappresenta inoltre una priorità
crescente per la Cina nel contesto delle sue sempre più ampie aspirazioni in
Asia e nel mondo, facendo coincidere la propria strategia geopolitica con
l’antica via della seta ed utilizzando quindi il paese come punto di transito
verso i porti pakistani nell’Oceano Indiano ed i confini occidentali per collegarsi
con l’Iran. Va inoltre ricordato che quasi tutte le miniere di pietre e metalli
preziosi presenti sul suolo afghano sono state acquistate da Pechino, che ha
investito parecchio denaro nel settore delle vie di comunicazione terrestri
(asfaltatura e manutenzione della Highway
1, nota anche come “ring road”,
che di fatto circonda tutto il paese e ne costituisce la principale arteria
stradale). Altro attore di cui tener conto è la Turchia, che sta investendo
parecchie risorse nel paese e di fatto, controlla la sicurezza dell’aeroporto
internazionale di Kabul, altro centro nevralgico e strategico. Sebbene sia un
membro della NATO, Ankara ha dichiarato di avere propri piani bilaterali con
l’Afghanistan e pertanto, non si atterrà alla pianificazione di ritiro della
coalizione, mantenendo quindi il proprio contingente militare. Resta da
chiarire come il presidente turco Erdogan voglia affrontare la posizione
talebana che impone a tutti gli occidentali, siano essi militari o contractors, di abbandonare il paese, a
meno che non vi siano già trattative in corso per mitigare ciò e consentire la
permanenza delle forze turche tramite accordi coi talebani. Le ipotesi per tale
soluzione sono molteplici: di sicuro la prima che salta all’attenzione è la
possibilità di chiudere l’Iran (avversario storico nonché religioso) a ovest e
ad est realizzando così, unitamente al Turkmenistan ed all’Azerbaijian, il
cosiddetto “asse turkmeno” che si estenderebbe dal mare Mediterraneo fino ai
confini con la Cina, rendendo la Turchia una vera e propria potenza regionale,
in contrapposizione al progetto iraniano della cosiddetta “mezzaluna sciita”
che, in caso di presa di potere da parte di autorità islamiche sciite e quindi
anti-talebane in Afghanistan, porterebbe ad estendere questa entità geopolitica
dalle coste mediterranee siriane fino a Kabul. Altra carta importante da
giocare nel mazzo di Ankara è il signore della guerra Abdul Rashid Dostum,
attivo già dalla guerra contro i sovietici oltre che generale dell’Alleanza del
Nord contro il precedente emirato talebano, che potrebbe giocare un ruolo
importante dalla sua attuale posizione governativa in chiave filo-turca. Come
si può notare, ora più che mai il territorio afghano è un teatro operativo di
dispute geopolitiche da parte di altri paesi confinanti e non, che attendono la
partenza della NATO per utilizzare le fazioni belligeranti già presenti in
Afghanistan o nuove realtà locali da impiegare in un conflitto per procura
volto alla spartizione delle principali vie di comunicazione dell’Asia centrale
nonché delle principali risorse del territorio; l’unica grande incognita resta
ISIS-K, che perseguendo il progetto del Califfato sunnita, non intende allearsi
ma combattere (almeno finora) contro i talebani, AQ e le forze governative.
Oltre alla postura imprevedibile, ISIS-K conduce attacchi estremamente violenti
anche contro obiettivi eticamente intoccabili come donne e bambini, e
soprattutto ne esalta le conseguenze attraverso i media. In questa situazione
altamente esplosiva, la popolazione prosegue con la vita quotidiana e attende i
prossimi mesi ben sapendo che costituiranno un momento storico per il paese e
la regione stessa dopo 20 anni di Campagna NATO. Ben oltre il 70% degli afghani
non vuole ritornare al regime talebano ed alle sue regole estremamente
restrittive, soprattutto dopo aver vissuto per due decadi a contatto con gli
occidentali e, nonostante il continuo clima di crisi e conflitto, aver provato
un tipo di governo più democratico. Ipotizzando l’avvento di un nuovo emirato talebano,
sia a seguito della guerra civile o per accordi con il governo in carica, esso
sarebbe molto diverso da quello precedente. Innanzitutto la nuova leadership appartiene ad una generazione
di giovani combattenti, proprio come i loro predecessori, ma molto più
interconnessi grazie anche all’uso delle piattaforme social network e dei contatti internazionali con finanziatori e
sostenitori politici, rendendoli di fatto molto più “sensibili” alla considerazione
che il movimento talebano necessita in campo internazionale per la sua
affermazione ed approvazione. Fallire in quest’opera di propaganda
significherebbe per il movimento rischiare di ritrovarsi un’altra coalizione
militare nel paese con conseguente impossibilità di mantenere il potere
conquistato. Come già precedentemente illustrato, la soluzione della leadership talebana sarebbe quella di un
regime teocratico con una forte connotazione repressiva basata sulla Shari’a (legge islamica) ma con
altrettanto marcate connotazioni di modernità basate su un moderno stato
occidentale, facendo assomigliare il paese all’attuale Iran, sebbene agli
antipodi di quest’ultimo per corrente religiosa.
Con l'avvicinarsi della scadenza del primo
di maggio 2021 per il ritiro delle Forze internazionali dall'Afghanistan,
appare chiaro che l'amministrazione Biden intensificherà gli sforzi per mediare
un accordo intra-afghano che riduca la ostilità e crei un percorso per una
soluzione politica. In ogni caso, sembra sempre più improbabile che gli Stati
Uniti saranno in grado di rispettare quella scadenza, sollevando dubbi su come
potrebbero reagire i talebani nel frattempo; inoltre, il governo USA non ha
rilasciato grandi commenti sulla situazione in Afghanistan, ma in un'intervista
del 16 marzo scorso, lo stesso Presidente Biden ha dichiarato che l'accordo tra
Stati Uniti e talebani non era stato negoziato in modo molto concreto, e che il
rispetto della scadenza per il ritiro del primo maggio sarebbe auspicabile ma
difficile da realizzare, concludendo con l’affermazione che comunque non
avrebbe previsto la presenza di truppe statunitensi ancora in Afghanistan al
termine del 2021.
Per quanto riguarda invece la visione
più tattica della situazione attuale, i talebani si stanno preparando per la
prossima offensiva di primavera, come del resto è sempre accaduto, a seguito della
raccolta dei proventi della vendita dell’oppio e l’inizio della stagione calda:
aspetti favorevoli per iniziare gli attacchi contro la coalizione. Stavolta
però stanno ammassando i combattenti nelle periferie delle città capoluoghi di
provincia come Herat, Jalalabad, Mazar-i-Sharif e Kandahar, e solo quest’ultima
è già teatro di scontri violenti in quanto è la porta di accesso al paese dalla
regione pakistana del Balochistan, sede fra l’altro della giunta militare
talebana, ovvero Shura di Quetta. Gli
altri capoluoghi di provincia sono attigui ad altrettanti confini statali e
rappresentano quindi nodi strategici per controllare il flusso di combattenti e
risorse da e per l'Afghanistan. Per quanto riguarda Kabul, anche attorno ad
essa si sta stringendo silenziosamente l’assedio talebano, in attesa della
partenza definitiva della NATO. Si attendono attacchi intimidatori per
accelerare il processo di evacuazione attuati attraverso armi a tiro indiretto
come razzi e mortai unitamente ad assassinii mirati contro le personalità
importanti del governo e delle ANSDF. In questa strategia di logoramento,
restano le due grandi incognite: la prima, il ruolo di ISIS-K che non segue
alcuna strategia ma mira esclusivamente al terrore ed alla disgregazione del
paese, rendendo questa organizzazione imprevedibile e difficile da contrastare;
la seconda, la tenuta delle ANSDF dopo la partenza della NATO e la loro
resilienza nel perseguire gli obiettivi di assicurare la stabilità dello stato
oltre che a combattere il terrorismo (caratteristica altamente dipendente dai
finanziamenti USA ed europei, al momento già aggravati dai costi di gestione della
pandemia COVID-19), senza quindi cadere nel pozzo senza fondo delle defezioni a
catena: sarebbe davvero la fine del governo in carica e dell’Afghanistan come
lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Lorenzo Prodan, frequentatore del Master di 1° Liv. in Politica Militare Comparata. Da 1960 ad oggi. attivato presso la Università degli Studi N. Cusano Telematica Roma.
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