Armenia, la mancata firma dell’accordo con l’Unione Europea e la conseguente scelta di intavolare trattative per l’ingresso nell’Unione Eurasiatica ha suscitato un dibattito interno che divide fortemente l’opinione pubblica e gli specialisti di geopolitica e relazioni internazionali. Dopo aver pubblicato il commento dell’analista Stepan Grigoryan, molto polemico nei confronti dell’attuale dirigenza armena e della sua apertura verso l’Unione Eurasiatica, presentiamo ai lettori il parere di segno opposto di Artem Chačaturjan, direttore del portale analitico www.n-idea.am, che legge positivamente la scelta in favore dell’Unione Eurasiatica e critica invece le modalità con cui sono avvenute le trattative con l’UE.
Il rifiuto dell’Armenia di avviare un processo di integrazione con l’Unione Europea ha colto di sorpresa tanto le burocrazie quanto i centri della geopolitica mondiale. Per interpretare questa decisione sono state avanzate innumerevoli ipotesi, opinioni, illazioni e supposizioni d’ogni sorta, soprattutto in Europa. Da Armeno, credo vi sia un problema di fondo che illumina la situazione venutasi a creare. L’impressione è che in Europa non si abbia reale cognizione di cosa sia veramente l’Armenia. Si potrebbero addurre centinaia di esempi a sostegno di questo fatto: ne vorrei enumerare alcuni nel corso di un’analisi sulle cause del rifiuto armeno (che tuttavia a parole viene bilanciato dall’eventualità di una “scelta europea” in futuro, il che è già abbastanza risibile), al fine di comprendere se si tratti di un processo inesorabile dovuto a circostanze oggettive, ma soprattutto a chi si debba attribuire la responsabilità della perdita dell’Armenia da parte dell’Europa. Cominciando proprio da quest’ultimo punto, ritengo che si possa dire che la colpa è dell’Europa stessa: il processo di integrazione dell’Armenia è stato infatti avviato dall’UE nell’ambito della piattaforma del cosiddetto “Partenariato orientale” ed è partito male sin dall’inizio.
Il primo aspetto da sottolineare è che le trattative, che si sono basate dall’inizio alla fine su un fariseismo ipocrita, erano destinate all’insuccesso già dal principio. Anzi, si potrebbe giudicare “farisaica” l’idea stessa di portare l’Armenia in Europa. Che cosa veniva detto infatti agli Armeni, quando si proponeva loro di siglare il cosiddetto DCFTA (Deep and Comprehensive Free Trade Area), un accordo onnicomprensivo sul libero scambio che imponeva di non partecipare ad altri progetti di integrazione economica? Si diceva agli Armeni che il loro Paese avrebbe ottenuto stimoli per la crescita economica, creazione di nuovi posti di lavoro, liberalizzazione del commercio con l’UE, e che sul piano politico sarebbero arrivati tempi miracolosi, segnati dal miglioramento delle istituzioni pubbliche, dalla vittoria della democrazia e via dicendo. Tuttavia, il modo di attrarre a sé l’Armenia da parte dell’UE è stato talmente confuso, maldestro, aggressivo e incompetente da suscitare presso la popolazione locale un autentico irrigidimento e provocare seri sospetti sulla bontà dell’iniziativa. Innanzitutto, ogni Armeno di media cultura ha capito che il nostro Paese, con una popolazione di poco oltre tre milioni di abitanti che vivono in larga maggioranza ben al di sotto delle condizioni da ceto medio, non poteva certo rappresentare per l’Europa un interesse significativo come mercato di sbocco per le merci (a differenza per esempio dell’Ucraina, che ha una popolazione di 45 milioni di abitanti con un maggior potere d’acquisto). In secondo luogo, è evidente che la produzione locale armena (ad eccezione forse della frutta e dell’acqua) non avrebbe a sua volta mai potuto penetrare nei mercati dei Paesi europei; infine, che i prodotti armeni esportati in Russia e in altri Paesi CSI godono invece di nicchie di mercato anche in assenza di accordi specifici che incentivino il commercio. Sulla base di queste tre inferenze logiche, l’Armeno medio giunge alla conclusione che c’è qualcosa che non torna. Dov’è la verità?
La verità è che l’iniziativa del Partenariato orientale di stipulare accordi di cooperazione e libero scambio con tutta una serie di Repubbliche ex sovietiche risponde a un progetto geopolitico avente uno scopo ben preciso: ostacolare il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin nel suo lavoro di ricomposizione dello spazio post-sovietico. Ciò significa che l’Armenia come tale, che non rappresenta interesse economico alcuno per l’Unione Europea, viene vista in Occidente come uno strumento di contrapposizione alla nascita di un nuovo polo guidato dalla Russia. Se intesa come strumento geopolitico, l’Armenia ha ovviamente un valore e un significato importantissimi. Questa è la chiave di lettura per spiegare l’impegno della burocrazia europea per l’ingresso dell’Armenia. Ciò significa anche che preesisteva un presupposto oggettivo per il fallimento dell’iniziativa, e la responsabilità del fallimento ricade su coloro che in Europa hanno lavorato in vista di questo fine.
Un secondo presupposto oggettivo di tale fallimento riguarda la sfera culturale. Gli Armeni appartengono alla civiltà cristiano-orientale: il processo di inserimento di un popolo dell’Oriente cristiano in Occidente appare innanzitutto irrealistico, in quanto creerebbe una nazione divisa che l’Occidente stesso non vorrebbe più accogliere, ed è quindi gravido di conflitti che mettono a rischio le strutture stesse dello Stato armeno. L’unico vantaggio sarebbe in termini geopolitici, ma si tratterebbe d’un vantaggio chiaramente a favore dell’Occidente. Un esempio eloquente è il caso della Georgia. Il risultato tangibile dell’integrazione in Europa, o per essere più precisi dei tentativi di integrazione in Europa, è stato di fatto la decurtazione del territorio georgiano. Mi è difficile capire quale utilità abbiano ricavato gli Stati Uniti imprimendo una netta impronta antirussa al corso della politica estera georgiana, mentre sono al contrario evidenti le perdite territoriali della Georgia. La domanda che le élite georgiane dovevano porsi è se davvero valeva la pena assumere un atteggiamento antirusso per 20 anni e staccarsi dall’orbita di civiltà di cui fa parte la loro stessa patria per tentare di inserirsi senza successo in un’altra. Il caso della Georgia costituisce in questo senso un precedente che tutte le nazioni dell’Oriente cristiano – in primo luogo l’Armenia, l’Ucraina e la Moldavia – dovrebbero tenere bene a mente per il futuro. Sulla base dei due elementi qui presi in esame, sembra si possa già pronunciare un giudizio molto netto: l’Unione Europea e gli USA hanno avviato un progetto geopolitico allo scopo di contrastare l’ascesa del rivale russo, ignorando completamente i fattori culturali e tutte le conseguenze che potevano derivarne. In questo quadro generale, è possibile individuare altri elementi che costituiscono ostacoli insormontabili per l’integrazione europea dell’Armenia.
L’atteggiamento miope dell’Occidente dal momento in cui sono iniziate le infruttuose trattative per l’accordo di associazione con l’UE si è palesato in una totale ignoranza della coscienza civile dell’Armenia. Parlo non di “opinione pubblica”, ma proprio di coscienza civile, cioè di quella componente morale e spirituale che accompagna il processo storico di una nazione. Uno studio serio sulla coscienza civile degli Armeni avrebbe infatti palesato che questo popolo è in grado di sopportare di tutto: l’occupazione, la deportazione e ogni genere di sofferenza, ma certamente non l’imposizione di quei “nuovi” valori europei che suscitano invece una netta disapprovazione, come ad esempio la promozione pubblica dell’omosessualità, i matrimoni e le adozioni di bambini per coppie dello stesso sesso, i gay pride e via dicendo. Se si conducesse un’analisi sondaggistica senza pregiudizi, ci si convincerebbe facilmente che in qualsiasi referendum gli Armeni avrebbero votato contro l’ingresso nell’UE se una delle condizioni fosse stata la promozione pubblica dell’omosessualità. Quando affermo che gli Europei hanno lavorato in modo maldestro, mi riferisco anche a questi aspetti: la popolazione armena, ricevendo informazioni sui tentativi di promuovere il culto della sodomia in Moldavia, in Ucraina e in Georgia, ha provato repulsione pensando che simili politiche potessero un giorno essere imposte in Armenia.
Un’altra miopia politica dell’Unione Europea si è palesata nella scarsa consapevolezza del livello reale di sovranità dello Stato armeno e dell’assenza di politica estera. La politica estera dell’Armenia somiglia a una barca a vela nell’oceano, che va dove la porta il vento. Gli Statunitensi e gli Europei hanno creduto che riuscendo a insediare una base militare nel centro di Ereven sotto forma di un’Ambasciata, dove magari far stazionare 800 Marines, sarebbero stati in grado di fare tutto, ivi compresa la totale indipendenza dalla Russia. Ma oltre alla sfera del potere, che certamente soffre di un deficit di legittimità interna ed estera, in Armenia esiste anche una società, il cui punto di vista non può essere del tutto ignorato in determinate circostanze. La terza miopia politica, collegata a quanto esposto finora, è stata la sottovalutazione del fattore russo. Già una volta gli Stati Uniti si sono infiammati su questo punto, dando mandato a Saakašvili di invadere la capitale osseta Cxinvali e presumendo che la Russia non avrebbe reagito. Quale sia stata invece la reazione russa è noto a tutti. Credo quindi che sarebbe stato opportuno coinvolgere anche la Russia nelle trattative sull’Accordo di associazione con l’Armenia, perché in ogni caso vi sarebbe stata assai più chiarezza di quanto vediamo oggi.
In definitiva, dopo tre anni e mezzo di duro lavoro, una grande quantità di viaggi, dispendio di risorse e festeggiamenti anticipati, alla fine tutto si è concluso nel nulla (per l’Europa, sia chiaro; perché l’Armenia ha iniziato il processo di integrazione eurasiatica con il conseguente ingresso in un polo geopolitico guidato dalla Russia). In questo breve articolo ho cercato di illustrare le cause di tale fallimento. Per il futuro, credo che le relazioni tra Armenia e Unione Europea debbano fondarsi su tutt’altri presupposti, escludendo finalità geopolitiche e usando altri strumenti di dialogo. In caso contrario, c’è il rischio che nel giro di pochi anni la sola parola “Europa” ingeneri in Armenia non soltanto ostilità, ma un senso di nausea e disgusto.
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