Due eventi recenti esemplificano il dilemma geopolitico dell’India. Durante i primi giorni di aprile 2013 è stato riferito che alcuni sottomarini cinesi avevano condotto incursioni nell’Oceano Indiano, ovviamente avvertite dai sonar della marina statunitense1. Un paio di settimane dopo c’è stata l’intrusione di un plotone di truppe cinesi nella zona della valle di Depsang, nel Ladakh orientale2. Anche se lo status precedente all’incursione è stato raggiunto pacificamente, l’incidente del Ladakh ricorda chiaramente le durevoli implicazioni dell’irrisolta controversia himalayana. Insieme, ciò a cui entrambi questi eventi fanno pensare è anche la profonda controversia nella geostrategia dell’India nei confronti della Cina. Questa è contesa tra le rappresentazioni di Mackinder e di Mahan, e parte della sua ambivalenza strategica può essere ricondotta proprio alla mancanza di una rappresentazione geopolitica ben definita su cui basare il dibattito.
Una soluzione mahaniana alla sfida posta dalla Cina riguarda il fatto che l’India può superare alcuni dei suoi svantaggi continentali disturbando le linee di comunicazione marittime (SLOC – sea lines of communications) cinesi, o prendendo parte alle dispute dell’Asia Orientale. La logica di fondo deriva dal concetto di escalation orizzontale, secondo cui si può tentare di superare l’asimmetria in un teatro facendo salire il conflitto ad un dominio geografico più ampio. Riassumendo, se la Cina dovesse continuare ad avventurarsi nelle montagne, l’India potrebbe rispondere in mare aperto.
Anche se concettualmente intuitivo, questo collegamento richiede che Pechino valuti l’integrità delle sue linee di comunicazioni marittime in una maniera sufficiente a spingerla a modificare i suoi piani sulle montagne. I blocchi navali sono inoltre operazioni complesse, e l’orizzonte temporale necessario al successo, che corrisponderebbe al porre una seria minaccia alla sicurezza delle risorse cinesi, sarebbe significativamente più lungo di quello richiesto da una rapida e limitata operazione continentale volta a modificare permanentemente la linea di controllo effettiva (Line of Actual Control – LAC) o avente scopi punitivi. La crescente riserva strategica di petrolio della Cina inoltre, anche se destinata a compensare turbative di mercato, rappresenterebbe una risorsa in una situazione del genere. Infine, la ricerca cinese di nuove linee di comunicazione eurasiatiche, sia mediante i sempre più importanti legami energetici con la Russia che con le interconnessioni attraverso l’Asia Centrale, indicano una potenziale riduzione della dipendenza dalle linee di comunicazioni marittime dell’Oceano Indiano, almeno per alcune delle risorse strategiche3. Chiaramente la Cina percepirà il gioco allo stesso modo, e nulla suggerisce che la predilezione dello statega marittimo indiano per questo tipo di gioco rappresenti un’eccezione. In parole povere un interesse centrale non può essere difeso attraverso azioni orizzontali periferiche.
Come può l’India impedire che venga esercitata una pressione pesante sulle sue frontiere? Non ci sono alternative alla deterrenza in ambito continentale, dove suoi interessi fondamentali, in questo caso l’integrità territoriale, possono essere minacciati. Forse il metodo più sistematico per sviluppare opzioni di deterrenza è con un doppio processo.
In primo luogo il rafforzamento dei sistemi di allerta delle frontiere nei passaggi chiave di tutta la linea di controllo effettiva, attraverso il potenziamento della logistica, le capacità di spostamento pesante, e le capacità di intelligence, sorveglianza e ricognizione (ISR), per migliorare l’abilità a muovere le forze in avanti verso passi montani vulnerabili. Questo aumenterebbe un po’ i costi per la Cina. A dire il vero esistono intrinseci limiti geografici a quanto la catena logistica può diventare flessibile ed efficiente, e l’India non riuscirà mai a pareggiare i vantaggi della Cina, che prevedono un approccio decisamente flessibile alla gestione delle frontiere, permesso dalla comodità dell’uniforme territorio tibetano. Ma l’India non si avvicina neanche lontanamente a un briciolo di quelle che sono la moderna logistica e la rete ISR in una topografia vincolata.
Un rapporto, basato su valutazioni ufficiali, afferma che “sul versante indiano molte delle strade si fermano tra i 60 e gli 80 km prima della LAC, compromettendo così il dispiegamento delle truppe e la loro presenza in avanti”4. Nonostante la decisione ufficiale di migliorare l’interconnessione delle regioni di confine in tutte e tre le sezioni della frontiera indo-cinese “a partire dal 2010, solo nove delle 72 strade pianificate sono state completate”5. Alcune delle motivazioni, legate principalmente all’inerzia burocratica e ai gravi limiti nel coordinamento e nelle capacità dell’Organizzazione delle strade di confine, sono note, ma non sono state affrontate6.
Si può affermare che la mancanza di una logistica moderna e di una rete di connessione può aver involontariamente enfatizzato in modo eccessivo il pattugliamento dei punti controversi lungo la LAC. In altre parole, l’approccio prevalente per la gestione delle frontiere è una soluzione tampone per compensare problemi strutturali decennali sul retro, come quelli infrastrutturali, della catena logistica, delle ISR basate sulla tecnologia, ecc. Se alcuni di questi aspetti, compresa la capacità di monitoraggio, fossero rafforzati, la gestione delle frontiere verrebbe trasformata. In assenza di seri mutamenti nella rete logistica retrostante che conduce alle montagne, l’India potrebbe restare per sempre ostaggio di una situazione in cui un’azione cinese in una zona controversa lungo la LAC lascia a Nuova Delhi solamente opzioni costose.
In secondo luogo, anziché in ambiti periferici, la capacità di aumentare i livelli della violenza orizzontalmente e verticalmente costituisce un elemento importante per il rafforzamento della deterrenza. La Cina è logisticamente in grado di ammassare un grande volume di forze e potenza di fuoco in ogni settore in breve tempo7. Per scoraggiare tale scenario da “guerra lampo”, l’India può dimostrare di avere le capacità e la disciplina per dirigere gli obiettivi a un grado più basso, nel cuore del Tibet e in un dominio cui la Cina assegna un importante valore, il suo heartland continentale nella parte orientale.
Questo implica che l’India ha bisogno di sistemi di deterrenza a distanza come missili a lunga gittata e una forza aerea avente un ampio raggio d’azione. Alcune di queste capacità esistono già, ma non sono state dirette verso obiettivi di deterrenza dalla politica centrale. Di conseguenza le forze armate, esercito e aviazione in questo caso, vengono lasciati a soddisfare le loro limitate preferenze, precludendo una dottrina congiunta terra-aria. L’esercito è legato a una concezione di deterrenza che prevede un uso intensivo delle risorse umane, mentre le forze aeree si accontentano di accumulare funzionalità ad hoc senza contribuire a una condizione di deterrenza stabile. È sconcertante, ad esempio, che l’India stia cercando di conquistare capacità di proiezione fuori area senza prima considerare le esigenze di trasporto dei carichi pesanti per le sue necessità di sicurezza o l’assenza di una rete di difesa aerea moderna.
Forse è stato a partire da una valutazione così frammentaria che un documento programmatico ampiamente letto nel 2012 parlava di promuovere la deterrenza asimmetrica, preparandosi “a innescare una vera e propria rivolta nelle zone occupate dalle forze cinesi” in caso d’invasione8! La Cina non è neanche lontanamente in procinto di impegnare i piani dello stratega indiano in una lunga guerra vicino alle colline. In effetti, si può affermare che un approccio di modernizzazione della difesa delle frontiere dominato dalle risorse umane, piuttosto che rafforzare la deterrenza, potrebbe involontariamente minarla, inviando a Pechino un messaggio sbagliato, e, allo stesso tempo, illudere la leadership politica e militare che stia per essere posto in essere un atteggiamento di “difesa attiva”9.
La sfida cinese lungo le frontiere deve essere analizzata chiaramente in ogni sua parte. In assenza di un confine ben definito, una delle sfide consiste nel garantire che la zona contestata della LAC non si ampli a causa dell’abilità logistica della Cina nel perseguire un atteggiamento attivista di perlustrazione in tempo di pace. Questo può essere affrontato solo, come già accennato, concentrando l’attenzione sulla logistica e sulle capacità di monitoraggio, insieme a un approccio dinamico alla gestione delle frontiere. Inoltre, dato che l’India possiede un territorio più basso, deve anche fare leva sulle misure di confidence-building(CBM) e intanto negoziare nuove norme per vincolare le capacità superiori della Cina in termini di flessibilità e pattugliamento. Se sfruttate prudentemente, le CBM possono aiutare nel mantenimento di uno status quo stabile.
C’è poi il classico scenario di un conflitto limitato derivante da un deterioramento delle relazioni bilaterali. Questo conduce direttamente al cuore di una valida strategia di deterrenza basata sulla natura geopolitica del campo di battaglia himalayano. Una strategia di deterrenza fondata sulla negazione è un approccio sbagliato in un mondo nucleare. L’asimmetria può in effetti essere volta a favore dell’India. Anziché affidarsi a una strategia di risposta flessibile, che vede la Cina in una posizione migliore grazie alla sua logistica superiore e ai vantaggi geostrategici del suo territorio più alto, la dottrina indiana dovrebbe basarsi sulla deterrenza attraverso la punizione. È inutile e costoso prepararsi ad attaccare la Cina a tutti i livelli con ogni tipo di aggressione. Se c’è una lezione da imparare dalla coppia India-Pakistan è proprio questa. L’attore convenzionalmente più debole può annullare l’asimmetria sfruttando politicamente le sue capacità strategiche e la sua dottrina. Una dottrina nucleare credibile e ponderatamente segnalata, correlata a una dottrina convenzionale congiunta ad ampio raggio d’azione, consentirà all’India di allontanare lo scenario dell’avventurismo cinese.
Il punto cruciale è che l’appropriata dottrina militare sta emergendo a partire dall’inerzia istituzionale piuttosto che attraverso un piano accuratamente dibattuto. Se l’obiettivo è creare deterrenza in condizioni di alta tecnologia convenzionale e nucleare, allora investire nelle risorse umane per intraprendere un’ipotetica battaglia in Tibet è una strategia non ottimale che potrebbe esacerbare il dilemma della sicurezza tra India e Cina, senza aumentare la tranquillità dell’India sulla frontiera. Dati i vantaggi geostrategici e logistici della Cina, un atteggiamento di difesa attiva da parte dell’India è semplicemente non credibile.
Una strategia di deterrenza mediante punizione, combinata a solide capacità di mantenimento, è preferibile all’illusione di poter perseguire una dottrina di difesa attiva. Una strategia di questo tipo richiede sistemi di precisione a lungo raggio, la conoscenza del settore spaziale, capacità aeree di quarta e quinta generazione e una moderna rete di difesa aerea, oggi quasi interamente garantita dall’Indian Air Force (IAF). Anche in questo caso, alcuni degli ingredienti di base esistono già, sparsi all’interno delle forze armate, ma non sono stati orientati verso obiettivi dottrinali comuni.
Il cuore del problema non è la mancanza di pensiero strategico, ma la diversità delle percezioni strategiche e delle dottrine che sono in competizione per la validità individuale e il primato. Mentre i mahaniani sminuiscono i continentalisti per il loro attaccamento a rappresentazioni geopolitiche obsolete, questi ultimi si sono sforzati di interiorizzare le implicazioni di un ambiente ad alta tecnologia post nucleare, dove la deterrenza deve essere la finalità principale della strategia militare. La dimensione militare della grande strategia non può essere di tipo additivo, in cui le diverse parti interessate, in questo caso le forze armate, suggeriscono mezzi autonomi per affrontare le stesse minacce o addirittura ricostruiscono delle minacce per adattarsi ai mezzi, mentre il compito dello stratega è di far quadrare insieme queste dottrine!
La strategia non consiste nel gettare soldi in un pozzo senza fondo, ma nell’orientare in modo dinamico e creativo gli strumenti più appropriati verso le minacce in modo che possano apparire basati sugli obiettivi politici e sulla dottrina militare degli avversari, e non come e dove dovrebbero apparire. L’elite politica dell’India deve accettare di riconoscere la sua parte di responsabilità, dato che è stata l’apatia a quel livello a permettere un’impostazione dal basso e un approccio frammentario alla strategia, senza un pianificatore centrale disposto a fissare i termini dell’agenda.
L’India dovrebbe focalizzarsi più sulla Cina continentale che su quella marittima, ed è l’equilibrio di potere e d’influenza sulla periferia subcontinentale che richiede costante attenzione strategica. Le linee di comunicazione cinesi verso l’Asia Meridionale partono dalla Cina continentale. Il corridoio verso l’Asia Centrale, i collegamenti che attraversano il Karakorum tramite il Pakistan e il corridoio attraverso il Myanmar sono tutti parte della geostrategia continentale di Pechino per garantire la sicurezza delle sue regioni periferiche e integrarsi con i vicini. L’estensione e l’ulteriore potenziale di queste linee di comunicazione nel nord dell’Oceano Indiano, nel Golfo del Bengala o nel Mar Arabico, non possono essere sfruttati senza l’acquiescenza strategica e la cooperazione dell’India.
Il regno marittimo non è, contrariamente a quanto osservano alcuni analisti10, il teatro di un gioco a somma zero tra India e Cina, in cui sono in ballo gli interessi vitali di entrambi i Paesi. La realtà geopolitica è che le linee di comunicazioni marittime cinesi passano vicino a schieramenti navali indiani, e oltre l’85% delle importazioni di petrolio cinesi attraversano le rotte marittime dell’Oceano Indiano. Allo stesso modo, più del 50% del commercio indiano attraversa oggi gli stretti di Malacca e Singapore. Anziché rappresentare una fonte di conflitto questo dovrebbe essere la base di un rapporto marittimo accomodante.
Nell’ambito di un’economia politica internazionale interdipendente l’idea di sicurezza unilaterale lungo le linee di comunicazione marittima è illogica.
I territori dell’Indo-Pacifico sono caduti sotto il dominio di una sola superpotenza in condizioni storiche uniche che non possono prevalere a tempo indeterminato. Anche se è prematuro valutare a priori l’evoluzione del sistema marittimo dell’Indo-Pacifico, sicuramente questa vedrà uno sforzo collettivo in cui nessuna singola potenza può essere esclusa dalla gestione degli spazi comuni. All’interno di questa logica è probabile che diverse potenze regionali prendano in carico oneri maggiori nelle loro periferie geopolitiche. Ma finché il commercio interregionale e lo scambio di risorse sostengono l’economia globale, gli spazi comuni non possono diventare un sistema di sicurezza chiuso. La rivalità marittima anglo-tedesca testimonia l’inutilità di un gioco a somma zero. Quella rivalità ha prodotto un’incontrollabile corsa agli armamenti che ha frantumato il predominio marittimo britannico e, in ultima analisi, le pretese della Germania di avere un’egemonia europea.
In effetti, l’evoluzione della tecnologia militare evidenzia come le idee di Mahan siano pressoché obsolete. La storica logica mahaniana di controllo offensivo del mare attraverso le grandi flotte di superficie, “definita come la capacità di utilizzare i mari sfidando la volontà degli altri”11, è superata. Le prescrizioni originali di Mahan sul controllo del mare derivavano da uno specifico contesto storico, industriale e tecnologico che non prevale più, vista l’evoluzione dell’ambiente tecnologico-militare. Forze missilistiche continentali a lungo raggio; capacità aerospaziali di quarta e quinta generazione; funzionalità subacquee come i sottomarini d’attacco; ISR e abilità nell’individuazione degli obiettivi su terra, aria e spazio; armi anti-satellite (ASAT) e capacità informatiche rendono l’idea del controllo del mare, un concetto altamente controverso. In realtà, la negazione del mare, insieme a limitate capacità di proiezione di potenza, è forse il massimo a cui le potenze emergenti contemporanee possono aspirare. È probabile che la struttura della forza marittima di domani assumerà la forma di piattaforme disaggregate e meno vulnerabili, piuttosto che di potenza di fuoco concentrata in grandi flotte trasportatrici di mezzi.
Sarebbe più appropriato descrivere la strategia militare cinese come un approccio regionale “antinavale” di negazione del mare che come una ricerca di potere marittimo globale12. I sistemi terrestri sono parte integrante della modernizzazione navale della Cina, che non compete con le grandi flotte di superficie della tradizione anglo-americana. Come sottolinea una valutazione occidentale, “l’obiettivo principale della marina cinese è ancora quello di proteggere il Paese dal potere di attacco in mare statunitense”13. Un autorevole studio americano afferma che “la nuova marina della Cina conta più su viaggi senza equipaggio e missili balistici che su velivoli con equipaggio, e più su sottomarini che su navi di superficie”14. Ciò considerato, è ironico che, nel dibattito strategico indiano, qualcuno chiami in causa l’immagine mahaniana della Liaoning, la sola portaerei cinese, come simbolo e guida della strategia marittima cinese15. La proiezione in mare aperto, al di là dei mari regionali, è di secondaria importanza per Pechino. L’obiettivo principale della strategia cinese per l’immediato futuro è la negazione del mare, focalizzata nel Pacifico Occidentale e sulla marina statunitense.
La marina degli Stati Uniti riconosce di non poter più agire indisturbata nelle periferie marittime delle varie potenze regionali, e gran parte del suo dibattito strategico è animato dalla sfida asimmetrica antiaccesso che si estende nelle regioni dall’Asia Occidentale alla penisola coreana16. Queste tecnologie perturbatrici sono resistenti e, dal momento che vengono messe in campo dalle potenze del Rimland eurasiatico, il discorso mahaniano sarà profondamente modificato nei prossimi anni.
In sintesi, anche se Stati continentali come India e Cina possono far aumentare i costi operativi delle altre potenze marittime, incluse l’un l’altra, nelle loro rispettive regioni, non possono acquisire unilateralmente il controllo del mare necessario ad assicurare le linee di comunicazione marittima in mare aperto, linee vitali delle loro economie. In ciò consiste la logica della competizione e della cooperazione. Strategie di autotutela possono coesistere con regole cooperative di ripartizione degli oneri per consentire una più ampia stabilità degli spazi comuni.
L’influenza cinese sulle coste dell’Oceano Indiano paradossalmente è emersa non perché la marina dell’Esercito popolare di liberazione fosse percepita come garante della sicurezza, ma perché l’assistenza economica e tecnico-militare ha assicurato alla Cina uno spazio politico. Le possibilità marittime dell’India si riducono a un insieme di mezzi per recuperare influenza. Per quanto riguarda l’influenza indiana in Asia Orientale, l’emulazione delle pratiche cinesi è una strada maggiormente percorribile rispetto all’eventualità di premature incursioni marittime in teatri dove l’India dovrebbe confrontarsi con il peso della potenza di fuoco cinese. Ad esempio, l’influenza indiana è avanzata di più sostenendo la capacità propria del Vietnam di bilanciare asimmetricamente una Cina assertiva, piuttosto che con la presenza diretta nel Mar Cinese Meridionale.
I mahaniani hanno raccomandato all’India di disfarsi delle sue rappresentazioni continentali e prospettano per essa il ruolo marittimo di “garante della sicurezza” in altre regioni. Quest’analisi fin qui suggerisce che non è una strategia prudente. Considerati gli straordinari investimenti e il tempo richiesto da una modernizzazione della marina, è indispensabile che gli strateghi indiani raggiungano questa consapevolezza.
I mahaniani per certi aspetti riflettono i più ampi cambiamenti nel profilo economico e diplomatico dell’India, che hanno diffuso i suoi interessi in tutto il mondo. È vero che l’India globalizzata ha un impatto economico e culturale in molti continenti, e che le sue istituzioni dovrebbero riflettere ciò, ma non è affatto detto che la strategia marittima, spesso considerata come il potenziale mezzo di espansione degli interessi globali indiani, dovrebbe guidare questo processo. E non è sicuramente detto che l’India debba ricercare un ruolo extra-regionale prima ancora di aver raggiunto un minimo di sicurezza e influenza nella propria regione, in cui le sue aspirazioni locali restano fortemente contestate.
Per il futuro imminente gli interessi fondamentali dell’India dovrebbero restare nel continente ed essere perseguiti attraverso una geostrategia principalmente continentale. Un ruolo marittimo strettamente legato al rafforzamento della deterrenza e dell’influenza nel Subcontinente sembra più in sintonia non solo con le sfide nazionali dell’India, ma anche con la direzione geostrategica delle pressioni che continuano a ricorrere.
(Traduzione dall’inglese di Chiara Macci)
Zorawar Daulet Singh è ricercatore presso il Center for Policy Alternatives, Nuova Delhi e dottorando presso l’India Institute, King’s College, Londra.
1. Singh, Rahul, China Submarines in Indian Ocean Worry Indian Navy, “Hindustan Times”, 7 April 2013.
2. Singh, Rahul, China Ends Ladakh Standoff, Troops Pull Back, “Hindustan Times”, 5 May 2013.
3. Downs, Erica S., Money Talks: China-Russia Energy Relations after Xi Jinping’s Visit to Moscow, 1 April 2013; Alexandros Petersen, China Latest Piece of the New Silk Road, “Eurasia Daily Monitor”, Vol. 10, No. 4, 10 January 2013; Li Yingqing e Guo Anfei, Third Land Link to Europe Envisioned, “China Daily”, 2 July 2009.
4. Rajagopalan, Rajeswari Pillai e Rahul Prakash, Sino-Indian Border Infrastructure: An Update, ORF Occasional Paper No. 42, May 2013, p. 11.
5. Ibid., p. 14.
6. Ibid. Si veda anche Shishir Gupta, 45 Years After China Conflict, Delhi to Build Roads Linking Ladakh Outposts, “Indian Express”, 21 May 2007.
7. Chansoria, Monika, China’s Infrastructure Development in Tibet: Evaluating Trendlines, Manekshaw Paper No. 32, New Delhi: Claws, 2011.
8. Khilnani, Sunil, Rajiv Kumar, Pratap Bhanu Mehta, Prakash Menon, Nandan Nilekani, Srinath Raghavan, Shyam Saran e Siddharth Varadarajan, Nonalignment 2.0: A Foreign and Strategic Policy for India in the Twenty First Century, New Delhi: Centre for Policy Research, 2012, p. 41.
9. Samanta, Pranab Dhal, Incursion Effect: Strike Corps on China Border Gets Nod, “Indian Express”, 26 May 2013; Ajai Shukla, New Strike Corps for China Border, “Business Standard”, 24 August 2011.
10. Raja Mohan, C., Beijing at Sea, “Indian Express”, 26 April 2013.
11. Gompert, David C., Sea Power and American Interests in the Western Pacific, Santa Monica: Rand Corporation, 2013, p. 186.
12. Ibid., p. 14.
13. Ibid., p. 113.
14. Saunders, Phillip, Christopher Yung, Michael Swaine, e Andrew Nien-Dzu Yang (eds), The Chinese Navy: Expanding Capabilities, Evolving Roles, Washington, D.C.: National Defence University Press, 2011, p. 12.
15. Raja Mohan, Beijing at Sea, n. 10.
16. Gertz, Bill, Threat in Asia is Anti-ship Missiles, “Washington Times”, 23 March 2010; Roger Cliff, Mark Burles, Michael S. Chase, Derek Eaton, Kevin L. Pollpeter, Entering the Chinese Antiaccess Strategies and Their Implications for the United States Dragon’s Lair, Santa Monica: Ra