Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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lunedì 28 ottobre 2013

Afganistan: elezioni del 2014

Afghanistan
afghanistan 124
Domenica 6 ottobre, in Afghanistan, si è conclusa la registrazione dei candidati alle prossime elezioni del 5 aprile. L’elenco definitivo, che raccoglie 27 candidati in lizza per le presidenziali, esclude la partecipazione dell’attuale presidente Hamid Karzai, per raggiungimento dei limiti costituzionali. Di fronte a questa moltitudine di candidature però, il cerchio sul possibile designato si stringe intorno a un numero più limitato di personalità, fra cui Abdul Rahim Wardak (pashtun) ex Ministro della Difesa sino al 2012, Zalmay Rassoul (pashtun) attuale Ministro degli Esteri, Abdul Rasul Sayyaf (pashtun) controverso signore della guerra dell’Alleanza del Nord, Abdullah Abdullah (tagiko) ex Ministro degli Esteri nel primo governo ad interim di Karzai, Ashraf Ghani (pashtun) già Ministro delle Finanze e direttore della commissione sulla transizione e infine il fratello del presidente, Qayum Karzai (pashtun). A prescindere dal diffici! le contesto di sicurezza in cui le elezioni avranno luogo e che certamente avrà un impatto sul processo elettorale, una prima considerazione positiva è il fatto che ciascun candidato si sia presentato con due vice-presidenti scelti fra esponenti degli altri gruppi etnici principali, un raro segno di distensione in un Paese dove i rapporti fra i vari gruppi sono tradizionalmente tesi. La tenuta di elezioni ragionevolmente libere e prive di irregolarità è un’importante tappa non solo per l’Afghanistan, ma anche per la Comunità Internazionale, che, proprio nel 2014, si appresta a ultimare il ritiro dei contingenti ISAF, dopo 13 anni di operazioni nel Paese.

venerdì 25 ottobre 2013

Cina: verso un ordine mondiale nuovo

La Cina è la seconda economia più grande del mondo ed è ipotizzato che entro il 2016 superi quella degli Stati Uniti nella classifica della ricchezza del pianeta. È ormai la locomotiva del mondo e ciò è testimoniato dall’attenzione che il mondo dell’economia e della finanza presta all’indice della fiducia dei consumatori e del Pmi1 della Cina. Tuttavia, alla crescita esponenziale dell’economia reale cinese non è corrisposta una stessa crescita dell’importanza della sua moneta. Almeno finora.
La crescita cinese iniziata tra fine anni Ottanta e inizi anni Novanta si basava su fattori che la rendevano estremamente competitiva al mondo che si cominciava ad aprire alla globalizzazione, tra cui il costo del lavoro, la grandezza potenziale del mercato interno, politiche preferenziali, l’apertura e le riforme del governo cinese. Tutti questi elementi hanno favorito la delocalizzazione in Cina, contribuendo a trasformarla nella “fabbrica del mondo”. La Cina si inseriva così nella fitta rete del commercio internazionale con i suoi beni a basso costo che penetravano i mercati dei paesi industrializzati e soprattutto di quelli più consumistici e quindi in primo luogo quello statunitense.
I consumatori statunitensi erano ben disposti a pagare “un pugno di dollari” per i prodotti cinesi che altrimenti si sarebbero potuti permettere con più difficoltà. Parallelamente, il consistente afflusso di dollari in Cina chiedeva impieghi che andavano oltre le possibilità di un sistema bancario e finanziario del tutto inefficiente. Prendeva forma così quel legame che ancora oggi lega a doppio filo Cina e Stati Uniti: l’acquisto di merci cinesi da parte degli Stati Uniti in cambio dell’acquisto da parte cinese del debito pubblico americano, sintetizzabile con l’espressione I buy your goods, you buy my bonds.
Inizialmente questo sistema sembrava reciprocamente vantaggioso poiché gli Stati Uniti compravano merci a basso costo e la Cina aveva un impiego redditizio per i “suoi dollari”. Tuttavia, si erano poste le basi per uno squilibrio macroeconomico che, fondandosi su una carenza strutturale di risparmio negli Stati Uniti e su un modello di crescita cinese export-oriented, avrebbe portato l’economia mondiale verso la più grande crisi economica dalla Grande Depressione del 1929. Intanto, la Cina faceva segnare record su record e nel 2009, anno di piena crisi economica mondiale, diveniva ufficialmente la prima esportatrice mondiale davanti alla Germania, con un gigantesco avanzo commerciale di 198 miliardi di dollari ed un portafoglio di titoli americani di 755 miliardi di dollari, pari al 21% del totale del debito pubblico americano.
Di contro, nello stesso anno gli Stati Uniti facevano registrare un deficit commerciale di 536 miliardi di dollari, rendendo evidente che il loro modello di crescita non era più sostenibile. Il sistema messo in piedi dagli Stati Uniti si è infine rivelato soprattutto vantaggioso per la Cina. Visti i risultati raggiunti e le prospettive di crescita dell’economia cinese, in controtendenza rispetto a quelle del resto del mondo sviluppato, le autorità americane hanno iniziato a chiedere insistentemente alla Cina di svolgere la propria parte per supportare l’economia e il commercio internazionale, ovvero, in parole povere, di rivalutare lo yuan.
Gli Stati Uniti, infatti, imputano alla Cina di aumentare artificialmente la propria competitività mantenendo volutamente basso il tasso di cambio per favorire le proprie esportazioni e rendere i beni stranieri costosi per i cittadini cinesi. Parte dell’ambiente politico-economico statunitense ha invocato, e tuttora invoca, delle misure protezionistiche contro i prodotti cinesi. In effetti, l’Omnibus Trade & Competitiviness Act del 1988 conferisce al Tesoro americano l’autorità di relazionare ogni due anni al Congresso su se i partner commerciali manipolano le loro valute. Nel 2005, l’atto è stato modificato su proposta dei senatori Baucus e Grassley con la sostituzione della frase “unfair manipulation” con “currency misalignment” al fine di alleggerire l’onere della prova per le autorità del Tesoro.
In caso di scoperta della violazione, si avvierebbero delle negoziazioni con le autorità del Tesoro per correggere lo squilibrio del tasso di cambio; se il Paese in questione non accettasse le modifiche, gli Stati Uniti prenderebbero delle misure, tra cui l’opposizione a nuovi prestiti da parte di istituzioni internazionali come il FMI, l’ineleggibilità per l’assicurazione dell’Overseas Provate Investment Corporation e la revoca dello status di economia di mercato. I due senatori affermano che l’atto non è rivolto contro la Cina, sebbene esso sia stato adottato anche per placare quell’opposizione dura che era arrivata a proporre, con i senatori Schumer e Graham, l’imposizione di dazi del 27,5%, in manifesta violazione delle regole del WTO, sui beni cinesi se la Cina non avesse sostanzialmente rivalutato la propria valuta.
Fortunatamente, tali misure sono state evitate per non causare ulteriori ripercussioni negative sulle economie in piena crisi economica, anche se gli Stati Uniti hanno preso unilateralmente decisioni per diminuire il valore della propria moneta ricorrendo a una politica monetaria espansiva attraverso ilquantitative easing. Le operazioni di quantitative easing comportano l’immissione di liquidità da parte delle Federal Reserve per il riacquisto di titoli di Stato che, sebbene gli Stati Uniti giustificano per incoraggiare gli investimenti produttivi e l’occupazione, hanno l’effetto di deprezzare il valore del dollaro e quindi di aumentare la competitività delle merci americane e di ridurre il valore reale del debito americano detenuto all’estero e in primo luogo in Cina.
Per dieci anni, dal 1995 al 2005, la Cina ha mantenuto un tasso di cambio fisso con il dollaro a 8.28 RMB/$. Nel luglio 2005, la Cina annunciava una nuova politica, consistente in una immediata rivalutazione del 2,1% seguita da un regime di fluttuazione manovrata ancorata a un paniere di monete non specificato, nel quale tuttavia il dollaro statunitense continuava ad essere il punto di riferimento principale. Da metà 2008 ad aprile 2010 la quotazione dello yuan è stata di 6.84 RMB/$, rivalutata del 20% rispetto al dollaro nel 2005. Gli sforzi cinesi non sono stati però apprezzati dagli Americani perché ritenuti ancora troppo limitati.
Nell’inverno 2010, la Cina è stata sottoposta a forti pressioni internazionali per far rivalutare la propria moneta, con in aggiunta le richieste del Congresso americano al Tesoro di sanzionare nel suo rapporto biennale l’avvenuta manipolazione della valuta cinese. La Cina ha dato però sempre prova di saper resistere alle pressioni internazionali ribadendo che qualsiasi Paese è libero di scegliere il regime di cambio che preferisce e che ogni variazione del suo tasso di cambio sarà coerente con gli obiettivi di politica economica nazionale. Infatti, la prima leggera rivalutazione dello yuan era dovuta anche alle difficoltà di sterilizzare l’afflusso eccessivo di dollari che cominciavano ad alimentare una sostenuta inflazione e bolle economiche.
I Cinesi non apprezzano le critiche e le pressioni americane e hanno, per contro, criticato a loro volta le azioni del governo statunitense ritenute incoerenti con il ruolo che il dollaro svolge come moneta internazionale e principale moneta di riserva. Il premier Wen nel 2099 ha manifestato le sue preoccupazioni per i timori di una perdita di valore dei titoli di Stato americano e perciò ha invitato Washington a perseguire politiche per riportate a un “appropriate size” il suo deficit per garantire la “basic stability” del dollaro. Sempre nel 2009, il governatore della banca centrale cinese Zhou Xiaochuan, aveva proposto la creazione di una nuova moneta composta da un paniere di monete più ampio – con l’inclusione anche dello yuan – di quello dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP) e gestita dal Fondo Monetario Internazionale.
Il governatore sostiene che la riforma del sistema monetario internazionale esistente verso una moneta di riserva internazionale “with a stable value, rule-based issuance and manageable supply” sia necessaria per salvaguardare la stabilità finanziaria ed economica globale. Sebbene nel suo discorso non faccia mai rifermento al dollaro, la sfiducia cinese nella possibilità che il dollaro continui a conservare intatto il suo ruolo di moneta di riserva internazionale è alquanto esplicita. Il discorso è stato accolto con diffidenza da Stati Uniti ed Europa, ed è stato messo rapidamente e superficialmente da parte. Nel novembre 2010, durante il summit del G20 a Seoul, la Cina ha apertamente criticato la politica monetaria della Federal Reserve (quantitative easing 2) come un esempio di guerra valutaria. Negli ultimi due anni, l’attenzione degli USA si è spostata verso crisi internazionali, come quella nordcoreana e siriana, e interne, come le difficoltà di raggiungere un accordo in seno al Congresso per aumentare il budget federale ed evitare il cosiddetto shutdown.
Nello stesso periodo Pechino sta ponendo le basi per un cambiamento che potrebbe essere epocale. La Cina sembra avere una visione più globale ed essere più consapevole delle potenze occidentali dei cambiamenti che stanno intercorrendo a livello mondiale e del nuovo peso che stanno assumendo le nuove economie emergenti. Infatti, nella strategia cinese di internazionalizzazione dello yuan, la Cina cerca di coinvolgere le altre economie “non Occidentali” imbastendo una serie di accordi per utilizzare le proprie monete, e quindi lo yuan, negli scambi commerciali reciproci e di conseguenza escludere il dollaro come moneta di intermediazione. Tra quelli che avranno un impatto più immediato, ricordiamo:
  1. L’accordo tra Cina e Giappone, la seconda e la terza economia più grande del mondo, per condurre il loro interscambio commerciale nelle loro rispettive valute. Questo accordo, a cui la stampa ha prestato poca attenzione, contribuirà a scardinare l’influenza del dollaro nella regione dell’Asia Orientale. È il primo accordo di questo tipo che la Cina conclude con un’altra maggiore moneta per commerciare direttamente in yuan. Per Pechino questo accordo costituisce un ulteriore tassello verso l’internazionalizzazione dello yuan mentre Tokyo potrebbe guadagnare da una possibile correzione del valore dello yuan dato che i futuri tassi di cambio verranno determinati direttamente tra le rispettive valute senza l’intermediazione del dollaro nel cross-rate system;
  2. L’accordo tra la Cina e l’ASEAN (Association of South East Asian Nations), che come blocco è il terzo partner commerciale cinese, mirerebbe a porre le fondamenta per rendere lo yuan una moneta regionale. Questo accordo ha anche favorito la presenza di istituzioni finanziarie cinesi nei Paesi ASEAN che non solo supportano le imprese cinesi, ancora poco note alle istituzioni locali, ma contribuiscono anche a sviluppare il mercato finanziario locale, come nel caso della Cambogia, dove le attività di Bank of China e di Industrial and Commercial Bank of China Ltd. hanno attirato investimenti cinesi nel Paese e rafforzato i legami tra le banche centrali dei due Paesi;
  3. L’accordo tra Cina e Russia per usare le loro valute nel loro interscambio commerciale che si inquadra nelle reiterate dichiarazioni a sostegno di una nuova valuta internazionale;
  4. L’accordo tra la Cina e i Paesi produttori di petrolio, Emirati Arabi Uniti e molto probabilmente anche con l’Arabia Saudita, per abbandonare il dollaro nel loro interscambio commerciale. Se, come probabile, anche l’Arabia Saudita dovesse acconsentire ciò aprirebbe nuovi scenari sul ruolo dei cosiddetti petrodollari.

Per aver un quadro completo degli sforzi cinesi per rafforzare lo yuan sulla scena internazionale, si deve anche prendere in considerazione il progetto dei BRIC – Brasile, Russia, India e Cina – di utilizzare le proprie valute nel loro commercio internazionale, i recenti accordi con Nuova Zelanda e Australia e il ruolo crescente della moneta cinese in Africa. Secondo Xinhuanet, nel 2011 più del 9% del commercio cinese è stato regolato direttamente in yuan contro il solo 0,7% del 2010. Questi nuovi accordi spingono dunque verso l’internazionalizzazione dello yuan, accelerando un uso maggiore di questa moneta.
Nonostante l’intenzione di rafforzare l’uso dello yuan e diminuire il ruolo del dollaro, la moneta cinese è tuttora ancorata alla valuta americana. Infatti, sebbene lo yuan non sia più ancorata esclusivamente al dollaro ma ad un paniere di valute internazionali, il biglietto verde ricopre un ruolo preponderante. Proprio per completare la propria strategia di affrancamento dal dollaro, la Cina sembra decisa ad agganciarsi a quel “barbaro relitto” tanto osteggiato da Keynes.
Pechino si è posto ormai l’obiettivo di trasformare lo yuan in una moneta internazionale e sebbene attualmente la sua moneta non possa competere né con il franco svizzero né con la sterlina inglese come presenza internazionale, la Cina sembra essere l’unico Paese ad avere un progetto sul lungo termine per stravolgere il sistema monetario internazionale. Oltre ai già citati accordi internazionali per la diffusione dello yuan, la Cina sta incrementando l’acquisto di oro a sostegno della sua moneta. Molti analisti, basandosi sull’assunto che le economie cinese e statunitense sono legate indissolubilmente, sostengono che alla Cina non convenga causare un indebolimento del dollaro perché diminuirebbe il valore delle sue riserve internazionali, che sono per la stragrande maggioranza costituite da dollari. In effetti, ciò ha un senso anche se si deve aggiungere che la Cina, più di ogni altro Paese, si è resa conto che sta già perdendo valore perché il dollaro sta perdendo potere di acquisto visto che dal 1980 al 2008 è diminuito del 62%.
L’assunto di base che sta spingendo i Cinesi verso l’acquisto di oro è che, in questo contesto economico che non si è ancora ripreso del tutto dall’ultima grande crisi finanziaria, dove le politiche economiche americane non garantiscono la stabilità del valore del dollaro, l’oro costituisce l’unica “moneta” che ha un valore reale, che non può essere stampata per volontà politiche nazionali.
Si deve considerare che la Cina è il più grande produttore mondiale di oro, il cui 60% proviene da sole cinque province: Shandong, Henan, Jiangxi, Yunnan and Fujian. Possiede anche notevoli riserve di oro, attualmente inferiori solo a quelle di Stati Uniti, Germania, Italia e Francia, sebbene pesino solamente per l’1,3% sulle sue riserve totali. Osservando i dati del World Gold Council, risulta che, dal 2000, tra i primi cinque Paesi detentori di oro, la Cina è stata l’unica ad incrementare le sue riserve di oro (+167%) mentre la Francia e la Germania le hanno ridotte (rispettivamente -19% e -2%) e gli Stati Uniti e l’Italia le hanno lasciate invariate. Tuttavia, queste stime cinesi devono essere prese con cautela perché dal 2009 i Cinesi hanno iniziato ad essere poco trasparenti sui dati. Le maggiori importazioni di oro cinese avvengono attraverso Hong Kong ed è stimato che nel marzo 2013 abbiano importato 223 tonnellate di oro, battendo il precedente record del dicembre 2012 di 114 tonnellate, facendo pensare che le riserve di oro cinesi siano molto maggiori di quanto comunicato. Queste considerazioni portano a ritenere che Pechino stia accumulando riserve in oro perché progetta di sganciare il tasso di cambio dello yuan dal dollaro per agganciarlo all’oro.
Se la Cina dovesse davvero agganciare lo yuan all’oro, ci sarebbero gravi conseguenze per l’ordine economico mondiale e soprattutto per l’economia statunitense. Innanzitutto, comparirebbe prepotentemente sulla scena internazionale una nuova moneta internazionale, lo yuan, che spiazzerebbe le altre, e in particolare il dollaro il cui valore calerebbe in picchiata. Per di più, visto che gli investitori ridurrebbero la domanda di titoli di Stato americani in dollari, gli interessi sui titoli andrebbero alle stelle, e con un debito già elevato, comporterebbe seri cambiamenti nello stile di vita americano. Di conseguenza, il mondo finanziario, che è basato sul sistema finanziario americano, verrebbe proiettato sull’orlo del baratro, o forse già al di là.
Anche Paesi come il Regno Unito e il Giappone si troverebbero dinnanzi a serie difficoltà. Il primo, che è stato uno dei venditori maggiori di riserve di oro nell’ultimo decennio, si troverebbe con una moneta priva di valore internazionale mentre il secondo, si troverebbe con il valore delle sue riserve internazionali drasticamente ridotto che non farebbe più da argine al suo forte debito. Anche la Cina vedrebbe ridurre il valore delle sue riserve internazionali, compensato però dal conseguente aumento del prezzo dell’oro, di cui, come detto è il maggior produttore e uno dei primi detentori a livello mondiale. Conseguenze rilevanti si avrebbero anche per il commercio internazionale. Il dollaro vedrebbe ridurre drasticamente il suo ruolo di intermediazione originando un’abbondanza di dollari che contribuirebbe a diminuirne il valore, rendendo impossibile agli Stati Uniti di continuare a svolgere il ruolo di mercato di assorbimento dei prodotti mondiali. L
a Cina si troverebbe perciò senza il suo principale mercato di sbocco che potrebbe comportare dei danni alla sua economia se non riuscisse a trovare mercati alternativi o a utilizzare il proprio mercato interno che però è ancora potenziale visto che numerose regioni della Cina hanno ancora un reddito medio troppo basso. Perciò l’affrettata conquista del ruolo di moneta principale a livello mondiale potrebbe causare danni al proprio motore produttivo. La sola presenza di una moneta legata all’oro renderebbe deboli o prive di valore le altre e quindi altri Paesi potrebbero seguire l’esempio cinese. Ricordiamo che gli Stati Uniti sono ancora il più grande Paese detentore di riserve aurifere (8.133,5 tonnellate), mentre l’UE nel suo insieme dispone di riserve superiori visto che solo quelle combinate delle prime tre economie dell’Eurozona, Germania (3.390,5 t), Francia (2.435,4 t) e Italia (2.451,8 t) sono superiori a quelle statunitensi. Si verrebbe a creare un nuovo ordine economico mondiale con tre valute principali, il dollaro, l’euro e lo yuan con tre regioni di riferimento, rispettivamente, l’America, l’Europa e l’Asia Orientale e Sudorientale.
I costi economico-sociali per assestare il mondo a questo nuovo ordine economico potrebbero essere eccessivi. La crescita cinese e la sua strategia di internazionalizzazione dello yuan attraverso accordi internazionali faranno normalmente il proprio corso facendo affermare inevitabilmente lo yuan come una delle principali monete di riserva. Una decisione “shock” cinese potrebbe causare più danni che vantaggi alla stessa economia cinese. Un proverbio cinese recita: “siediti sulla riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”. Esso può ben simboleggiare la pazienza dei Cinesi facendo ben pensare che prima di qualsiasi scelta avventata la Cina ci rifletta bene. Tuttavia, la pazienza cinese in questi ultimi anni è stata fiaccata dai continui attacchi statunitensi che considerano la sottovalutazione dello yuan uno dei mali che affligge la propria economia.
Guardando troppo al giardino del vicino, gli Stati Uniti non vedono che anche l’eccessiva deregolamentazione e finanziarizzazione dell’economia, il basso tasso di risparmio dei privati e un eccessivo ricorso al debito, politiche economiche di breve periodo e senza visione di insieme sono mali alla base dei loro problemi attuali. In fin dei conti, i comportamenti delle due parti possono essere inquadrate nella classica competizione tra potenza egemone e in declino e potenza in ascesa, tra cui i passaggi di consegna vengono sempre accelerati da contesti di rottura, come dimostra il ruolo svolto dalla II guerra mondiale di acceleratore del passaggio dal dominio della sterlina a quello del dollaro, che in ogni caso si sarebbe verificato lo stesso. Senza dimenticare il fondamentale ruolo del dollaro nell’immediato dopoguerra e nei decenni seguenti, esso finirà inevitabilmente col ridurre il proprio peso sulla scena internazionale, adattandosi naturalmente al nuovo contesto geopolitico che sta nascendo, conservando comunque un ruolo di prima piano. Prove di forza da parti di Stati Uniti o Cina, per, rispettivamente, conservare lo status quo o accelerare il cambiamento porterebbero solo caos in un sistema economico che richiede stabilità.

Massimiliano Porto è Direttore del programma "Estremo Oriente" dell'IsAG

1 Il Purchasing Managers Index (PMI), più noto come PMI, è l'indice composito dell'attività manifatturiera che si basa su un punteggio che risulta da una media ponderata calcolata su domande qualitative sullo stato di una economia poste ad alcune figure chiave all'interno delle aziende: i manager che si occupano degli acquisti per le società. Tiene conto di nuovi ordini, produzione, occupazione, consegne e scorte nel settore manifatturiero.

Bibliografia 

Alfieri L., La “sottovalutazione” dello Yuan e il Dagong Cinese, Eurobull.it, 26/01/2011
Arabian Money, Rumors that China is planning to move to a Gold Backed Yuan Currency, Arabian Money; 21/07/201
De Felice G., Euro o Dollaro? Lo sanno i Cinesi, Intervista su Economy, 24/03/2010.
Frankel J., China – US Currency Issues, Harvard Kennedy School, 2011.
Global research, Will China Make the Yuan a Gold-Backed Currency?, 21/05/2012
Groenewegen G., Chinese Gold Purchases, 2013
Marzovilla O., L’Euro e il Dollaro, Cacucci editore, 2009.
Snyder M., Does China Plan to Back the Yuan with Gold and Make it the Primary Reserve Currency?, The Economic Collapse, 4/06/2013
Wenzel R., Major Insider: Time to Buy Gold; The Chinese Want to Make the Yuan Gold Backed, Economic Policy Journal, 4/06/2013
World Gold Council, Central Bank Diversification Strategies: rebalancing from the dollar and euro, 2013.
World Gold Council, Quaterly Gold and FX Reserves, 2013.
World Gold Council, Recent Reported Changes in Central Bank Reserve Holdings, 2013.
World Gold Council, World Official Gold Holdings, International Financial Statistics, 2013.
Zhou Xiaochuan, Reform the International Monetary System, The

lunedì 21 ottobre 2013

Azerbaijan. Over 10 Years

Please find our new booklet called, "Azerbaijan Over 10 Years" - http://sam.gov.az/pdf/booklet_print_version.pdf

The booklet includes information about economic development, investment, infrastructure, social security, care about refugees in Azerbaijan and the results,
which have been achieved in the mentioned areas in the past ten years.

We hope you would find the information useful.

sabato 19 ottobre 2013

Iran: questione del nucleare

Nuovo equilibrio in Medio Oriente
Iran, l’ora del grande compromesso 
Maurizio Melani
30/09/2013
 più piccolopiù grande
Ancora pochi giorni fa era inimmaginabile una grande intesa per la stabilizzazione complessiva del Medio Oriente in grado di sciogliere l'intreccio dei conflitti della regione.

Oggi, pur fra incognite, insidie e sfiducie reciproche, la ripresa del negoziato israelo-palestinese, l'intesa sulle armi chimiche siriane e le manifestazioni di buona volontà scambiate alle Nazioni Unite tra Iran e Stati Uniti potrebbero indicare che qualcosa si muove nella direzione giusta.

Isolamento addio
Quali potrebbero essere le componenti di questo "grand bargain"?

Nodi centrali sono il ruolo di Teheran nella regione e quindi la questione nucleare e gli equilibri tra Iran, Turchia e monarchie del Golfo; la sicurezza di Israele; la stabilizzazione sostenibile dei paesi traversati dalle convulsioni del 2011-2012; la fine dei conflitti di diversa intensità in Siria, Iraq e Libano alimentati dalle rivalità tra attori esterni, dai jihadisti e dagli strumentalizzati conflitti religiosi.

Il presidente iraniano Hassan Rouhani persegue l'uscita dall'isolamento e dalle sue gravi conseguenze economiche. Ma l'obiettivo strategico dell'Iran resta immutato: assicurare la sua influenza fino al Mediterraneo e poter quindi contare su positivi rapporti con Iraq, Siria e Libano.

È una vocazione connaturata alla storia plurimillenaria della Persia che ha determinato nei secoli conflitti con i vicini occidentali. Una composizione tra gli interessi degli attori interni ed esterni alla regione può essere ora trovata? E come si profilano le posizioni di questi attori?

La Turchia potrebbe essere la più interessata a un compromesso, con le dovute garanzie e malgrado le radicate diffidenze verso il regime clericale sciita iraniano. Dovrebbero spingerla in questa direzione il capitale politico ed economico investito in questi anni nella regione, le esigenze di mantenimento della crescita economica e le aspettative di conseguenti effetti positivi anche sulla stabilità interna, scossa dalle proteste degli ultimi mesi, e sulla questione curda nei suoi risvolti interni e regionali.

Conservatori
Più critica è la lettura degli interessi dell'Arabia Saudita e delle altre monarchie del Golfo nelle cui strategie sembrano prevalere essenzialmente due aspetti. Da un lato il loro ruolo di esportatori di idrocarburi e grandi attori della finanza internazionale e dall’altro la conservazione degli assetti di potere interni.

Una prospettiva di pacificazione e quindi di totale agibilità di tutte le risorse energetiche della regione significherebbe accettare che l'Iraq diventi, come gli consentirebbero le sue riserve, grande esportatore di idrocarburi e quindi accumulatore e gestore di risorse finanziarie di peso comparabile a quello dell'Arabia Saudita.

Significherebbe anche accettare un ruolo analogo dell'Iran, amplificato dalle sue dimensioni, dallo spessore della sua statualità e dalla sua capacità di utilizzare lo strumento religioso. È una prospettiva che Riad ed in misura diversa altre capitali del Golfo hanno costantemente contrastato anche per le possibili conseguenze sui loro assetti interni.

Per Israele si tratterà di vedere quale visione dei suoi interessi di lungo periodo prevarrà: se considerare la propria sicurezza meglio garantita da tensioni e contrapposizioni che consentano di dividere i nemici e valorizzare al meglio una evidente supremazia militare, oppure puntare a riconciliazione, legittimazione reciproca e cooperazione a livello regionale con le necessarie garanzie di adeguate capacità di difesa, ma senza l'arma nucleare. L'apporto israeliano al disegno complessivo è quindi indispensabile, ma tutt'altro che scontato.

Attori esterni
Fondamentale sarà poi il concorso delle potenze fuori dalla regione.

Stati Uniti, Europa, Giappone, Cina e India hanno prevalenti interessi alla stabilizzazione e alla soluzione dei conflitti nell'area. La Russia, che dal complesso esercizio ricaverebbe un riaffermato ruolo di grande potenza con capacità e influenze determinanti nella regione, sarà tanto più interessata a portare positivamente a termine il processo assieme al resto della comunità internazionale quanto più la sua economia ora prevalentemente basata sulla esportazione di idrocarburi evolverà verso una realtà industriale moderna con interessi sempre maggiori in un sistema economico mondiale integrato.

Nucleo centrale di questo processo è l'accordo sulle capacità nucleari iraniane, basato sul riconoscimento del diritto al loro sviluppo per usi pacifici contenuto nel trattato di non proliferazione e sulla garanzia che non vi sia una sua possibile conversione militare, con una accettazione da parte dell'Iran di verifiche, ingerenze e misure tecniche tali da fugare ogni dubbio.

Affinché ciò si realizzi potrà però essere necessario che ai condizionamenti posti all'Iran si accompagni un rilancio dell'attuazione integrale del trattato di non proliferazione, inclusa la disposizione dell'art. 6 sull'impegno per il disarmo nucleare. Questa disposizione fu tra le condizioni poste dall'Italia, e da altri, al trattato del quale il nostro paese è sempre stata tra i maggiori sostenitori.

Saranno disponibili le potenze nucleari ad un effettivo, scadenzato e verificato processo di disarmo nucleare su cui il presidente Obama ha a più riprese espresso buone intenzioni?

Come si vede la strada verso l'auspicato "grand bargain" è tutt'altro che facile. Ma questo non significa che non si debba cercare di percorrerla con determinazione.

Maurizio Melani è Ambasciatore d’Italia.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2422#sthash.GcCUYOOK.dpuf

mercoledì 16 ottobre 2013

Kuwait. Nuova legge elettorale. Procedura Luglio 2013

Golfo
Kuwait, elezioni per lo status quo 
Pietro Longo
7/24/2013
 più piccolopiù grande
Parlamento dissolto per ordine della Corte costituzionale. È stato questo evento del 16 giugno scorso a dare il via alla campagna elettorale lampo che porta il Kuwait alle parlamentari del 27 luglio. Per la seconda volta negli ultimi sei mesi, i cittadini di questo emirato sono chiamati alle urne. Già a dicembre infatti, l’emiro Sheikh Sabah Ahmed Al-Sabah, presunto erede al trono, aveva emanato un decreto per cambiare le modalità di espressione del voto, spingendo l’opposizione al boicottaggio delle immediate elezioni.

Nuova legge elettorale 
In Kuwait, paese che vanta la tradizione parlamentare più antica dell’area del Golfo, i partiti politici sono illegali. I candidati, dunque, concorrono alle elezioni come indipendenti e a ciascun cittadino era data la possibilità di esprimere quattro preferenze. Questo almeno fino allo scorso dicembre, quando il nuovo decreto ha ridotto il numero di preferenze a una.

Le proteste sono scaturite non solo perché la riforma è stata adottata dall’emiro evitando la discussione in parlamento, ma anche perché il nuovo sistema impedisce la creazione di ampie coalizioni di opposizione al governo, dominato dalla famiglia reale. I membri dell’esecutivo avevano giustificato il provvedimento come un modo per allinearsi alla prassi delle altre monarchie dell’area, ma questa affermazione dimostra un’inversione di tendenza dato che il Kuwait si è sempre distinto per il proprio sistema politico e costituzionale.

Secondo la Costituzione adottata nel 1962, il parlamento possiede una vera potestà legislativa e funge da contropotere rispetto all’esecutivo, anche se questo non deve godere a priori della fiducia del parlamento. Il primo ministro è nominato dall’emiro e, a sua volta, sceglie i membri del governo. La gran parte delle decisioni politiche viene assunta dai membri dell’esecutivo che per tradizione hanno cercato il consenso dei deputati parlamentari.

50 seggi, 418 candidati e 8 donne
Anche il processo di selezione dei candidati alla nuova tornata elettorale, concluso alla fine di giugno, ha sollevato molte polemiche. Almeno 30 su 418 candidati totali sono stati estromessi dato che la nuova legislazione elettorale esclude quanti hanno commesso reati minori. Il dato è ancor più rilevante se si considera che il parlamento della piccola monarchia kuwaitiana è formato da appena 50 seggi. Inoltre soltanto otto donne sono riuscite ad avanzare la propria candidatura.

A seguito delle proteste, l’esecutivo si è accordato per convocare nuove elezioni, dando un segnale di distensione agli oppositori. Tra il 1994 e il 1999, diversi ministri si sono dimessi per evitare di ricevere una mozione di sfiducia. Ciò, oltre a creare un precedente, dimostra come in Kuwait esista una dialettica tra i poteri dello Stato, capaci di controllarsi vicendevolmente.

Il recente intervento della Corte costituzionale rappresenta quindi un rafforzamento del delicato equilibrio costituzionale del paese, nonostante il medesimo organo non abbia richiesto il ritiro della legge elettorale contestata. Questa decisione si può spiegare considerando che le sentenze della Corte non possono essere sovvertite dai decreti dell’emiro. L’eventuale annullamento della legge elettorale sarebbe apparso come un atto di sfida verso la massima autorità dello Stato.

Opposizione, tra boicottaggio e frammentazione
Inoltre, all’ordinanza di dissoluzione del parlamento rilasciata a giugno si aggiunge quella adottata all’inizio del 2012 e rischia di creare una prassi poco raccomandabile. Il mantenimento della legislazione elettorale serve quindi a mantenere lo status quo tra i poteri, ma vanifica le proteste dell’opposizione.

Una parte, infatti, ha annunciato che se la legge non sarà emendata, non concorrerà alle elezioni. Un’altra parte, invece, formata dall’Alleanza Nazionale Democratica e dalla tribù degli Awazim, la più numerosa del paese, ha accettato di concorrere. Non si è espressa la tribù degli al-Mutayri, la seconda più numerosa e radicata nelle varie provincie.

Alle elezioni anticipate dello scorso dicembre l’affluenza alle urne si è attestata sul 43%. Il boicottaggio non si è rivelato uno strumento di contestazione sufficiente e ha causato l’estromissione di una parte dell’opposizione dai luoghi del potere. Per le tribù, gli indipendenti islamisti, i liberali e i movimenti giovanili, la nuova tornata elettorale rappresenta l’occasione di rientrare in parlamento.

Tuttavia il maggiore ostacolo di questo fronte composito riguarda l’incapacità di formare una piattaforma comune. Un elemento condiviso potrebbe derivare proprio dalla richiesta di modificare l’assetto costituzionale, specie per quanto riguarda il rapporto tra il parlamento eletto e il governo nominato.

Pietro Longo è postdoctoral research fellow in Diritto musulmano e dei Paesi islamici all’Università di Napoli l’Orientale.
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lunedì 7 ottobre 2013

Yemen: situazione sempre difficile. Colpo di ano contro una base dell'Esercito

Yemen
Yemen 123Un gruppo di militanti appartenenti al movimento qaedista Ansar al-Sharia, il 30 settembre, ha attaccato il quartier generale della Seconda Divisione delle Forze Armate yemenite a Mukalla, città portuale della regione dell’Hadramaut. Giunti a bordo di mezzi dell’Esercito, i militanti, che indossavano divise dell’apparato Centrale di sicurezza, hanno colto di sorpresa il personale della base e sono riusciti a prendere in ostaggio alcuni militari. Solo in seguito alla massiccia offensiva delle forze speciali di Sanaa, le Forze Armate hanno messo in sicurezza l’area e ripreso possesso della base. L’attacco a Mukalla è l’ultimo episodio di violenza compiuto da AQAP (al-Qaeda nella Penisola Arabica) contro le Forze di sicurezza nel Paese. Sarebbero riconducibili alla rete qae! dista, infatti, anche i due attentanti, pressoché simultanei, che lo scorso 20 settembre hanno causato la morte di circa 40 soldati, nella regione meridionale di Shabwa.
A partire dalla rivolta del 2011, i territori nel sud del Paese, sono diventati una roccaforte per AQAP: in queste regioni, infatti, i membri delle cellule terroristiche spesso trovano rifugio e supporto all’interno di quei gruppi tribali che, fautori di rivendicazioni irredentiste nei confronti del governo centrale, vedono in essi l’opportunità per indebolire l’autorità di Sanaa. Fino ad ora, i successi delle Forze di sicurezza nel contrastare l’opera di destabilizzazione della rete qaedista non sono stati costanti: dopo l’offensiva del 2012, che aveva eradicato l’Emirato Islamico istituito nella provincia di Abyan, AQAP è ora particolarmente attivo nelle adiacenti regioni di Shabwah e Hadramaut. CESI Weekly 123

India, Pakistan: Colloqui in corso

India-Pakistan
India-Pakistan 123
I primi ministri di Pakistan e India, Nawaz Sharif e Manmohan Singh, si sono incontrati il 29 settembre a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Si è trattato del primo incontro fra Singh e il neo-eletto Sharif, entrambi leader estremamente favorevoli alla distensione fra i due storici rivali del Subcontinente. Tuttavia, le rinnovate tensioni lungo la LoC (Line of Control) in Kashmir e le consuete questioni afferenti ai gruppi militanti pakistani, hanno severamente pregiudicato il successo dell’incontro che si è concluso con sterili dichiarazioni sulla ripresa del cessate il fuoco. Seppur armati delle migliori intenzioni, per entrambi i leader il fronte interno presenta numerosi oppositori al dialogo, come dimostrato dalla recrudescenza di violenza in Kashmir che negli ultimi due mesi ha portato alla morte di almeno 18 soldati da ambedue i lati della LoC. Nell’incidente più grave, ad un giorno dall’incontro, un commando ! di militanti ha assaltato una stazione di Polizia e un campo militare nel Kashmir Indiano, uccidendo 10 persone, fra cui un Colonnello dell’Esercito. Altre considerazioni di carattere politico, a livello interno e regionale, limitano la capacità di Singh e Sharif di progredire nella difficile relazione bilaterale. Da parte pakistana, la politica della distensione di Sharif deve ancora passare al vaglio dell’Establishment militare, istituzione con cui il premier ha pessimi rapporti. Per Singh, invece, l’approssimarsi di elezioni (maggio 2014) che quasi certamente vedranno l’affermarsi degli induisti nazionalisti del BJP, rende ostico qualsiasi approccio nei confronti del Pakistan. A livello regionale, al ritiro NATO dall’Afghanistan nel 2014 potrebbe corrispondere un ritorno in massa dei militanti pakistani lì impegnati alla loro originaria occupazione di combattenti per il Kashmir, come recentemente annunciato da Syed Salahuddin, leader dell’influente gruppo kash! miro Hizbul Mujahideen (HM).
DA IAI Weely 123

giovedì 3 ottobre 2013

Cina: un orizzonte da scrutare

ANALISI DI PAOLO BORZATTA

SEGNALI INQUIETANTI

SEGNALI INQUIETANTI


di Paolo Borzatta
Twitter@BorzattaP


Milano, 2 ott.- In un precedente editoriale, cercavo di ipotizzare la possibile strategia di Xi Jinping per il suo mandato interpretando le sue mosse dei primi cento giorni, arrivavo così alla conclusione che avrebbe probabilmente oscillato, a seconda delle contingenze e delle necessità, tra spinte nazionalistiche e spinte di ‘democratizzazione’ (sia pure in una forte connotazione cinese).

L’evolversi della situazione lancia però segnali inquietanti. Vediamo alcune azioni che vale la pena – a mio parere – di considerare attentamente.

Il Sogno Cinese. Xi Jinping ha più volte citato il “sogno cinese” (misto di benessere e armonia sociale) per contrastare il “sogno americano” e per dare una motivazione anche ideale ai propri concittadini.

Tigri e mosche. Ha promesso una caccia spietata alle mosche (i piccoli corrotti e corruttori) e alle tigri (i grandi), toccando positivamente in questo modo uno dei tasti più dolenti della crescente insoddisfazione del popolo cinese. La caduta di alcune “tigri” molto importanti dimostra che Xi Jinping ha il potere per realizzare ciò che promette.

Fin qui tutto bene, si potrebbe dire. Ma …

Documento Numero Nove. E’ un documento riservato (detto anche “rapporto sull’attuale situazione ideologica”) che sta circolando all’interno del Partito per ‘comunicare ai quadri’ le direttive decise dai vertici in riunioni segrete. Queste direttive riguardano le misure per contrastare “la minaccia liberale che arriva dall’Occidente” che prevedono di considerare come “minacce pericolose e malvagie”: la “democrazia costituzionale occidentale”, la “tutela della società civile”, il sostegno del “neo-liberismo” e i “parametri dell’informazione occidentale” (si veda blog di Claudia Astarita).

Repressione di internet. Una nuova legge ad hoc per punire (fino a 3 anni di carcere) chi pubblica post che diffondono “dicerie false”. Uno studente è già finito in carcere, anche se scarcerato pochi giorni dopo.

Le 6 guerre che la Cina dovrà combattere nei prossimi 50 anni. Su Wenweipo, un importante giornale di Hong Kong molto vicino al partito comunista e con una larghissima distribuzione in mainland, è comparso l’8 luglio 2013 un articolo un po’ ingenuo e un po’ farneticante che elenca le 6 guerre che la Cina dovrà combattere entro i prossimi 50 anni. L’articolo è illustrato da fotografie “eroiche” di navi, aerei, battaglioni in parata, ecc. La prima guerra (prevista tra il 2020 e il 2035) sarà per l’unificazione di Taiwan; la seconda (tra il 2025 e il 2030) per la ‘riconquista’ delle Spratly; la terza (2035 – 2040) per la riconquista del Tibet del sud (oggi disputato con l’India); la quarta (2040 -2045) per la ‘riconquista’ delle isole Diaoyu e delle isole Ryukyu; la quinta (2045 – 2050) per l’unificazione (si potrebbe dire ‘annessione’) della Mongolia esterna; la sesta e ultima (2055 – 2060) per ‘prendersi indietro’ le isole perse  alla Russia.

Zone economiche speciali lungo la via della seta. Xi Jinping ha proposto all’inizio di settembre (nella sua visita di stato in Kazakistan) di costituire zone economiche speciali con trattamenti speciali per le aziende cinesi. Oltre a proporre questi “motori di sviluppo” per quelle spesso povere economie, ha anche chiesto il loro aiuto per mettere a tacere le minoranze uigure (di etnia turca) dello Xinjiang.

Internet libero nella zona economica speciale di Qianhai (vedi articolo di Sonia Montrella). Se da un lato si reprime internet, dall’altro si attraggono gli occidentali promettendo libertà di navigazione sul web nella nuova importante zona economica speciale vicino a Shenzhen (e Hong Kong). Si era parlato di una misura analoga nella nuova superzona economica speciale vicino a Shanghai (per ora però smentita).

Una lettura di questi segnali, con tutti i limiti del caso, sembra però tratteggiare una leadership (Xi Jinping e Li Keqiang) orientati a:
•    Reprimere corruzioni e privilegi perché sanno che la misura è colma e i cittadini sono/erano esasperati e vicini al punto di rottura.
•    Non concedere alcuna riforma politica, anzi si fanno passi indietro anche su internet probabilmente per paura del dissenso.
•    Si pensa di stimolare l’economia utilizzando il vecchio schema di attrazione degli investimenti stranieri o di quelli cinesi delle grandi “potenze economiche”: aziende di stato o tycoon cinesi di Hong Kong.

Difficile leggervi (tenendo però ben presente che sono un modo limitato di lettura della situazione) segnali di riforma politica, ma neppure di riforma economica intesa come liberalizzazione della parte “sana” del mercato: cioè le aziende veramente private e non quelle statali ricche perché beneficiate da innumerevoli benefit e avviluppate in una rete di interessi personali.

È questo solo un’oscillazione nella strategia di lungo termine di Xi Jinping per rinforzare il potere, affilare l’arma del partito e comunque rilanciare l’economia?

È questo un segno di forza? 

Non lo so. Ho ancora troppo pochi elementi per trarre conclusioni. Potrebbe però essere anche un segno di debolezza: Xi Jinping ha autorità forte (mandato dai suoi ‘stakeholder’) per fare “efficacemente” una politica tradizionale, ma sa di non avere forza sufficiente (per adesso) per poter cambiare. Oppure non ha il coraggio e le capacità strategiche per formulare politiche e strategie diverse.

Se così fosse si potrebbe leggere in una luce diversa la straordinaria difesa di Bo Xilai al proprio processo. Non solo una azione dettata dall’ “ego”. Certo è stato condannato. Ma la sua “faccia” è salva (anzi chi la persa è il Partito). E ha cominciato a costruirsi un aura di martire per una causa giusta: quella del “popolo”. 

Non è per caso che abbia annusato che la strategia dell’attuale dirigenza potrebbe non reggere sul lungo, e lui quindi potrebbe essere quasi un Mandela redivivo che uscirà dal carcere per salvare gli oppressi?

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