La Cina è la seconda economia più grande del mondo ed è ipotizzato che entro il 2016 superi quella degli Stati Uniti nella classifica della ricchezza del pianeta. È ormai la locomotiva del mondo e ciò è testimoniato dall’attenzione che il mondo dell’economia e della finanza presta all’indice della fiducia dei consumatori e del Pmi1 della Cina. Tuttavia, alla crescita esponenziale dell’economia reale cinese non è corrisposta una stessa crescita dell’importanza della sua moneta. Almeno finora.
La crescita cinese iniziata tra fine anni Ottanta e inizi anni Novanta si basava su fattori che la rendevano estremamente competitiva al mondo che si cominciava ad aprire alla globalizzazione, tra cui il costo del lavoro, la grandezza potenziale del mercato interno, politiche preferenziali, l’apertura e le riforme del governo cinese. Tutti questi elementi hanno favorito la delocalizzazione in Cina, contribuendo a trasformarla nella “fabbrica del mondo”. La Cina si inseriva così nella fitta rete del commercio internazionale con i suoi beni a basso costo che penetravano i mercati dei paesi industrializzati e soprattutto di quelli più consumistici e quindi in primo luogo quello statunitense.
I consumatori statunitensi erano ben disposti a pagare “un pugno di dollari” per i prodotti cinesi che altrimenti si sarebbero potuti permettere con più difficoltà. Parallelamente, il consistente afflusso di dollari in Cina chiedeva impieghi che andavano oltre le possibilità di un sistema bancario e finanziario del tutto inefficiente. Prendeva forma così quel legame che ancora oggi lega a doppio filo Cina e Stati Uniti: l’acquisto di merci cinesi da parte degli Stati Uniti in cambio dell’acquisto da parte cinese del debito pubblico americano, sintetizzabile con l’espressione I buy your goods, you buy my bonds.
Inizialmente questo sistema sembrava reciprocamente vantaggioso poiché gli Stati Uniti compravano merci a basso costo e la Cina aveva un impiego redditizio per i “suoi dollari”. Tuttavia, si erano poste le basi per uno squilibrio macroeconomico che, fondandosi su una carenza strutturale di risparmio negli Stati Uniti e su un modello di crescita cinese export-oriented, avrebbe portato l’economia mondiale verso la più grande crisi economica dalla Grande Depressione del 1929. Intanto, la Cina faceva segnare record su record e nel 2009, anno di piena crisi economica mondiale, diveniva ufficialmente la prima esportatrice mondiale davanti alla Germania, con un gigantesco avanzo commerciale di 198 miliardi di dollari ed un portafoglio di titoli americani di 755 miliardi di dollari, pari al 21% del totale del debito pubblico americano.
Di contro, nello stesso anno gli Stati Uniti facevano registrare un deficit commerciale di 536 miliardi di dollari, rendendo evidente che il loro modello di crescita non era più sostenibile. Il sistema messo in piedi dagli Stati Uniti si è infine rivelato soprattutto vantaggioso per la Cina. Visti i risultati raggiunti e le prospettive di crescita dell’economia cinese, in controtendenza rispetto a quelle del resto del mondo sviluppato, le autorità americane hanno iniziato a chiedere insistentemente alla Cina di svolgere la propria parte per supportare l’economia e il commercio internazionale, ovvero, in parole povere, di rivalutare lo yuan.
Gli Stati Uniti, infatti, imputano alla Cina di aumentare artificialmente la propria competitività mantenendo volutamente basso il tasso di cambio per favorire le proprie esportazioni e rendere i beni stranieri costosi per i cittadini cinesi. Parte dell’ambiente politico-economico statunitense ha invocato, e tuttora invoca, delle misure protezionistiche contro i prodotti cinesi. In effetti, l’Omnibus Trade & Competitiviness Act del 1988 conferisce al Tesoro americano l’autorità di relazionare ogni due anni al Congresso su se i partner commerciali manipolano le loro valute. Nel 2005, l’atto è stato modificato su proposta dei senatori Baucus e Grassley con la sostituzione della frase “unfair manipulation” con “currency misalignment” al fine di alleggerire l’onere della prova per le autorità del Tesoro.
In caso di scoperta della violazione, si avvierebbero delle negoziazioni con le autorità del Tesoro per correggere lo squilibrio del tasso di cambio; se il Paese in questione non accettasse le modifiche, gli Stati Uniti prenderebbero delle misure, tra cui l’opposizione a nuovi prestiti da parte di istituzioni internazionali come il FMI, l’ineleggibilità per l’assicurazione dell’Overseas Provate Investment Corporation e la revoca dello status di economia di mercato. I due senatori affermano che l’atto non è rivolto contro la Cina, sebbene esso sia stato adottato anche per placare quell’opposizione dura che era arrivata a proporre, con i senatori Schumer e Graham, l’imposizione di dazi del 27,5%, in manifesta violazione delle regole del WTO, sui beni cinesi se la Cina non avesse sostanzialmente rivalutato la propria valuta.
Fortunatamente, tali misure sono state evitate per non causare ulteriori ripercussioni negative sulle economie in piena crisi economica, anche se gli Stati Uniti hanno preso unilateralmente decisioni per diminuire il valore della propria moneta ricorrendo a una politica monetaria espansiva attraverso ilquantitative easing. Le operazioni di quantitative easing comportano l’immissione di liquidità da parte delle Federal Reserve per il riacquisto di titoli di Stato che, sebbene gli Stati Uniti giustificano per incoraggiare gli investimenti produttivi e l’occupazione, hanno l’effetto di deprezzare il valore del dollaro e quindi di aumentare la competitività delle merci americane e di ridurre il valore reale del debito americano detenuto all’estero e in primo luogo in Cina.
Per dieci anni, dal 1995 al 2005, la Cina ha mantenuto un tasso di cambio fisso con il dollaro a 8.28 RMB/$. Nel luglio 2005, la Cina annunciava una nuova politica, consistente in una immediata rivalutazione del 2,1% seguita da un regime di fluttuazione manovrata ancorata a un paniere di monete non specificato, nel quale tuttavia il dollaro statunitense continuava ad essere il punto di riferimento principale. Da metà 2008 ad aprile 2010 la quotazione dello yuan è stata di 6.84 RMB/$, rivalutata del 20% rispetto al dollaro nel 2005. Gli sforzi cinesi non sono stati però apprezzati dagli Americani perché ritenuti ancora troppo limitati.
Nell’inverno 2010, la Cina è stata sottoposta a forti pressioni internazionali per far rivalutare la propria moneta, con in aggiunta le richieste del Congresso americano al Tesoro di sanzionare nel suo rapporto biennale l’avvenuta manipolazione della valuta cinese. La Cina ha dato però sempre prova di saper resistere alle pressioni internazionali ribadendo che qualsiasi Paese è libero di scegliere il regime di cambio che preferisce e che ogni variazione del suo tasso di cambio sarà coerente con gli obiettivi di politica economica nazionale. Infatti, la prima leggera rivalutazione dello yuan era dovuta anche alle difficoltà di sterilizzare l’afflusso eccessivo di dollari che cominciavano ad alimentare una sostenuta inflazione e bolle economiche.
I Cinesi non apprezzano le critiche e le pressioni americane e hanno, per contro, criticato a loro volta le azioni del governo statunitense ritenute incoerenti con il ruolo che il dollaro svolge come moneta internazionale e principale moneta di riserva. Il premier Wen nel 2099 ha manifestato le sue preoccupazioni per i timori di una perdita di valore dei titoli di Stato americano e perciò ha invitato Washington a perseguire politiche per riportate a un “appropriate size” il suo deficit per garantire la “basic stability” del dollaro. Sempre nel 2009, il governatore della banca centrale cinese Zhou Xiaochuan, aveva proposto la creazione di una nuova moneta composta da un paniere di monete più ampio – con l’inclusione anche dello yuan – di quello dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP) e gestita dal Fondo Monetario Internazionale.
Il governatore sostiene che la riforma del sistema monetario internazionale esistente verso una moneta di riserva internazionale “with a stable value, rule-based issuance and manageable supply” sia necessaria per salvaguardare la stabilità finanziaria ed economica globale. Sebbene nel suo discorso non faccia mai rifermento al dollaro, la sfiducia cinese nella possibilità che il dollaro continui a conservare intatto il suo ruolo di moneta di riserva internazionale è alquanto esplicita. Il discorso è stato accolto con diffidenza da Stati Uniti ed Europa, ed è stato messo rapidamente e superficialmente da parte. Nel novembre 2010, durante il summit del G20 a Seoul, la Cina ha apertamente criticato la politica monetaria della Federal Reserve (quantitative easing 2) come un esempio di guerra valutaria. Negli ultimi due anni, l’attenzione degli USA si è spostata verso crisi internazionali, come quella nordcoreana e siriana, e interne, come le difficoltà di raggiungere un accordo in seno al Congresso per aumentare il budget federale ed evitare il cosiddetto shutdown.
Nello stesso periodo Pechino sta ponendo le basi per un cambiamento che potrebbe essere epocale. La Cina sembra avere una visione più globale ed essere più consapevole delle potenze occidentali dei cambiamenti che stanno intercorrendo a livello mondiale e del nuovo peso che stanno assumendo le nuove economie emergenti. Infatti, nella strategia cinese di internazionalizzazione dello yuan, la Cina cerca di coinvolgere le altre economie “non Occidentali” imbastendo una serie di accordi per utilizzare le proprie monete, e quindi lo yuan, negli scambi commerciali reciproci e di conseguenza escludere il dollaro come moneta di intermediazione. Tra quelli che avranno un impatto più immediato, ricordiamo:
- L’accordo tra Cina e Giappone, la seconda e la terza economia più grande del mondo, per condurre il loro interscambio commerciale nelle loro rispettive valute. Questo accordo, a cui la stampa ha prestato poca attenzione, contribuirà a scardinare l’influenza del dollaro nella regione dell’Asia Orientale. È il primo accordo di questo tipo che la Cina conclude con un’altra maggiore moneta per commerciare direttamente in yuan. Per Pechino questo accordo costituisce un ulteriore tassello verso l’internazionalizzazione dello yuan mentre Tokyo potrebbe guadagnare da una possibile correzione del valore dello yuan dato che i futuri tassi di cambio verranno determinati direttamente tra le rispettive valute senza l’intermediazione del dollaro nel cross-rate system;
- L’accordo tra la Cina e l’ASEAN (Association of South East Asian Nations), che come blocco è il terzo partner commerciale cinese, mirerebbe a porre le fondamenta per rendere lo yuan una moneta regionale. Questo accordo ha anche favorito la presenza di istituzioni finanziarie cinesi nei Paesi ASEAN che non solo supportano le imprese cinesi, ancora poco note alle istituzioni locali, ma contribuiscono anche a sviluppare il mercato finanziario locale, come nel caso della Cambogia, dove le attività di Bank of China e di Industrial and Commercial Bank of China Ltd. hanno attirato investimenti cinesi nel Paese e rafforzato i legami tra le banche centrali dei due Paesi;
- L’accordo tra Cina e Russia per usare le loro valute nel loro interscambio commerciale che si inquadra nelle reiterate dichiarazioni a sostegno di una nuova valuta internazionale;
- L’accordo tra la Cina e i Paesi produttori di petrolio, Emirati Arabi Uniti e molto probabilmente anche con l’Arabia Saudita, per abbandonare il dollaro nel loro interscambio commerciale. Se, come probabile, anche l’Arabia Saudita dovesse acconsentire ciò aprirebbe nuovi scenari sul ruolo dei cosiddetti petrodollari.
Per aver un quadro completo degli sforzi cinesi per rafforzare lo yuan sulla scena internazionale, si deve anche prendere in considerazione il progetto dei BRIC – Brasile, Russia, India e Cina – di utilizzare le proprie valute nel loro commercio internazionale, i recenti accordi con Nuova Zelanda e Australia e il ruolo crescente della moneta cinese in Africa. Secondo Xinhuanet, nel 2011 più del 9% del commercio cinese è stato regolato direttamente in yuan contro il solo 0,7% del 2010. Questi nuovi accordi spingono dunque verso l’internazionalizzazione dello yuan, accelerando un uso maggiore di questa moneta.
Nonostante l’intenzione di rafforzare l’uso dello yuan e diminuire il ruolo del dollaro, la moneta cinese è tuttora ancorata alla valuta americana. Infatti, sebbene lo yuan non sia più ancorata esclusivamente al dollaro ma ad un paniere di valute internazionali, il biglietto verde ricopre un ruolo preponderante. Proprio per completare la propria strategia di affrancamento dal dollaro, la Cina sembra decisa ad agganciarsi a quel “barbaro relitto” tanto osteggiato da Keynes.
Pechino si è posto ormai l’obiettivo di trasformare lo yuan in una moneta internazionale e sebbene attualmente la sua moneta non possa competere né con il franco svizzero né con la sterlina inglese come presenza internazionale, la Cina sembra essere l’unico Paese ad avere un progetto sul lungo termine per stravolgere il sistema monetario internazionale. Oltre ai già citati accordi internazionali per la diffusione dello yuan, la Cina sta incrementando l’acquisto di oro a sostegno della sua moneta. Molti analisti, basandosi sull’assunto che le economie cinese e statunitense sono legate indissolubilmente, sostengono che alla Cina non convenga causare un indebolimento del dollaro perché diminuirebbe il valore delle sue riserve internazionali, che sono per la stragrande maggioranza costituite da dollari. In effetti, ciò ha un senso anche se si deve aggiungere che la Cina, più di ogni altro Paese, si è resa conto che sta già perdendo valore perché il dollaro sta perdendo potere di acquisto visto che dal 1980 al 2008 è diminuito del 62%.
L’assunto di base che sta spingendo i Cinesi verso l’acquisto di oro è che, in questo contesto economico che non si è ancora ripreso del tutto dall’ultima grande crisi finanziaria, dove le politiche economiche americane non garantiscono la stabilità del valore del dollaro, l’oro costituisce l’unica “moneta” che ha un valore reale, che non può essere stampata per volontà politiche nazionali.
Si deve considerare che la Cina è il più grande produttore mondiale di oro, il cui 60% proviene da sole cinque province: Shandong, Henan, Jiangxi, Yunnan and Fujian. Possiede anche notevoli riserve di oro, attualmente inferiori solo a quelle di Stati Uniti, Germania, Italia e Francia, sebbene pesino solamente per l’1,3% sulle sue riserve totali. Osservando i dati del World Gold Council, risulta che, dal 2000, tra i primi cinque Paesi detentori di oro, la Cina è stata l’unica ad incrementare le sue riserve di oro (+167%) mentre la Francia e la Germania le hanno ridotte (rispettivamente -19% e -2%) e gli Stati Uniti e l’Italia le hanno lasciate invariate. Tuttavia, queste stime cinesi devono essere prese con cautela perché dal 2009 i Cinesi hanno iniziato ad essere poco trasparenti sui dati. Le maggiori importazioni di oro cinese avvengono attraverso Hong Kong ed è stimato che nel marzo 2013 abbiano importato 223 tonnellate di oro, battendo il precedente record del dicembre 2012 di 114 tonnellate, facendo pensare che le riserve di oro cinesi siano molto maggiori di quanto comunicato. Queste considerazioni portano a ritenere che Pechino stia accumulando riserve in oro perché progetta di sganciare il tasso di cambio dello yuan dal dollaro per agganciarlo all’oro.
Se la Cina dovesse davvero agganciare lo yuan all’oro, ci sarebbero gravi conseguenze per l’ordine economico mondiale e soprattutto per l’economia statunitense. Innanzitutto, comparirebbe prepotentemente sulla scena internazionale una nuova moneta internazionale, lo yuan, che spiazzerebbe le altre, e in particolare il dollaro il cui valore calerebbe in picchiata. Per di più, visto che gli investitori ridurrebbero la domanda di titoli di Stato americani in dollari, gli interessi sui titoli andrebbero alle stelle, e con un debito già elevato, comporterebbe seri cambiamenti nello stile di vita americano. Di conseguenza, il mondo finanziario, che è basato sul sistema finanziario americano, verrebbe proiettato sull’orlo del baratro, o forse già al di là.
Anche Paesi come il Regno Unito e il Giappone si troverebbero dinnanzi a serie difficoltà. Il primo, che è stato uno dei venditori maggiori di riserve di oro nell’ultimo decennio, si troverebbe con una moneta priva di valore internazionale mentre il secondo, si troverebbe con il valore delle sue riserve internazionali drasticamente ridotto che non farebbe più da argine al suo forte debito. Anche la Cina vedrebbe ridurre il valore delle sue riserve internazionali, compensato però dal conseguente aumento del prezzo dell’oro, di cui, come detto è il maggior produttore e uno dei primi detentori a livello mondiale. Conseguenze rilevanti si avrebbero anche per il commercio internazionale. Il dollaro vedrebbe ridurre drasticamente il suo ruolo di intermediazione originando un’abbondanza di dollari che contribuirebbe a diminuirne il valore, rendendo impossibile agli Stati Uniti di continuare a svolgere il ruolo di mercato di assorbimento dei prodotti mondiali. L
a Cina si troverebbe perciò senza il suo principale mercato di sbocco che potrebbe comportare dei danni alla sua economia se non riuscisse a trovare mercati alternativi o a utilizzare il proprio mercato interno che però è ancora potenziale visto che numerose regioni della Cina hanno ancora un reddito medio troppo basso. Perciò l’affrettata conquista del ruolo di moneta principale a livello mondiale potrebbe causare danni al proprio motore produttivo. La sola presenza di una moneta legata all’oro renderebbe deboli o prive di valore le altre e quindi altri Paesi potrebbero seguire l’esempio cinese. Ricordiamo che gli Stati Uniti sono ancora il più grande Paese detentore di riserve aurifere (8.133,5 tonnellate), mentre l’UE nel suo insieme dispone di riserve superiori visto che solo quelle combinate delle prime tre economie dell’Eurozona, Germania (3.390,5 t), Francia (2.435,4 t) e Italia (2.451,8 t) sono superiori a quelle statunitensi. Si verrebbe a creare un nuovo ordine economico mondiale con tre valute principali, il dollaro, l’euro e lo yuan con tre regioni di riferimento, rispettivamente, l’America, l’Europa e l’Asia Orientale e Sudorientale.
I costi economico-sociali per assestare il mondo a questo nuovo ordine economico potrebbero essere eccessivi. La crescita cinese e la sua strategia di internazionalizzazione dello yuan attraverso accordi internazionali faranno normalmente il proprio corso facendo affermare inevitabilmente lo yuan come una delle principali monete di riserva. Una decisione “shock” cinese potrebbe causare più danni che vantaggi alla stessa economia cinese. Un proverbio cinese recita: “siediti sulla riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”. Esso può ben simboleggiare la pazienza dei Cinesi facendo ben pensare che prima di qualsiasi scelta avventata la Cina ci rifletta bene. Tuttavia, la pazienza cinese in questi ultimi anni è stata fiaccata dai continui attacchi statunitensi che considerano la sottovalutazione dello yuan uno dei mali che affligge la propria economia.
Guardando troppo al giardino del vicino, gli Stati Uniti non vedono che anche l’eccessiva deregolamentazione e finanziarizzazione dell’economia, il basso tasso di risparmio dei privati e un eccessivo ricorso al debito, politiche economiche di breve periodo e senza visione di insieme sono mali alla base dei loro problemi attuali. In fin dei conti, i comportamenti delle due parti possono essere inquadrate nella classica competizione tra potenza egemone e in declino e potenza in ascesa, tra cui i passaggi di consegna vengono sempre accelerati da contesti di rottura, come dimostra il ruolo svolto dalla II guerra mondiale di acceleratore del passaggio dal dominio della sterlina a quello del dollaro, che in ogni caso si sarebbe verificato lo stesso. Senza dimenticare il fondamentale ruolo del dollaro nell’immediato dopoguerra e nei decenni seguenti, esso finirà inevitabilmente col ridurre il proprio peso sulla scena internazionale, adattandosi naturalmente al nuovo contesto geopolitico che sta nascendo, conservando comunque un ruolo di prima piano. Prove di forza da parti di Stati Uniti o Cina, per, rispettivamente, conservare lo status quo o accelerare il cambiamento porterebbero solo caos in un sistema economico che richiede stabilità.
Massimiliano Porto è Direttore del programma "Estremo Oriente" dell'IsAG
1 Il Purchasing Managers Index (PMI), più noto come PMI, è l'indice composito dell'attività manifatturiera che si basa su un punteggio che risulta da una media ponderata calcolata su domande qualitative sullo stato di una economia poste ad alcune figure chiave all'interno delle aziende: i manager che si occupano degli acquisti per le società. Tiene conto di nuovi ordini, produzione, occupazione, consegne e scorte nel settore manifatturiero.
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