Contraddizioni del postkemalismo Il corto circuito della strategia turca Andrea Fais 15/06/2013 |
Mentre i media internazionali stanno puntando i riflettori su Piazza Taksim e sulle sommosse di Istanbul, dando ormai per sconfitto il primo ministro Erdoğan, in Siria la situazione pare volgere, dopo due anni di guerra civile, a favore del presidente Assad. Per quanto apparentemente separati, i due scenari sono strettamente interdipendenti.
La posizione turca sulle “primavere arabe” ha segnato una chiara svolta nella politica estera di Ankara e dell’intero establishment dell’Akp. L’appoggio garantito alla rivolta siriana, al consiglio dei ribelli (Cns) e al governo provvisorio che ne era sorto avevano portato alla recente elezione di Ghassan Hitto, avvenuta proprio ad Istanbul il 18 marzo scorso.
Postkemalismo
Nell’idea del governo turco era palese lo scopo di sostenere sul piano logistico le forze ribelli nelle regioni dove l’esercito regolare siriano aveva perduto il controllo, al fine di frammentare il paese e costringere Assad alla resa, seguendo un atteggiamento analogo a quello francese durante la guerra in Libia che portò alla cattura di Gheddafi.
Il meccanismo si è però inceppato. Innanzitutto, l’improvviso raid di Israele su Damasco del 5 maggio scorso ha immediatamente cambiato la percezione della rivolta nel mondo islamico: la Lega araba, spesso critica nei confronti di Assad e propensa ad un’operazione di peacekeeping, e il presidente egiziano Mohammed Morsi, espressione della Fratellanza musulmana, hanno condannato il bombardamento in un coro unanime coi “rivali” sciiti dell’Iran e di Hezbollah.
Pochi giorni fa, inoltre, è arrivato l’avvertimento di Mosca che, per voce del presidente Putin, ha intimato all’Occidente di evitare qualsiasi intervento militare in Siria, ribadendo l’inviolabilità della base navale di Tartous e proponendo l’invio di forze speciali russe sulle alture del Golan per sostituire i reparti austriaci di stanza nell’area.
Lo stallo siriano potrebbe così segnare per Ankara la fine del piano di profondità strategica sul quale il ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu aveva investito moltissimi anni di ricerca universitaria e quattro anni di carriera politica governativa. L’opera forse più significativa di Davutoğlu, pubblicata nel 2001 ed intitolata Stratejik Derinlik. Turkiye’nin Uluslararasi Konumu è diventata negli ultimi anni una pietra angolare ineludibile per capire la politica estera del governo turco.
Impropriamente e riduttivamente definitiva con l’appellativo di “neo-ottomana”, in realtà l’idea postkemalista che ha mosso le principali iniziative strategiche di Ankara era quella di integrare il paese nel nuovo contesto internazionale in una posizione di maggior prestigio.
Porta girevole
Già dopo la fine della Guerra Fredda, Ankara aveva cominciato a ripensare il suo ruolo di bastione antisovietico provando a sperimentare sempre maggiori margini di autonomia, ma i tentativi dell’ex presidente Özal nei primi anni Novanta risultarono inefficaci. Più recentemente, invece, la Turchia ha senz’altro intravisto l’opportunità di approfittare della chiusura della fase interventista dell’era Bush jr, pesantemente influenzata dagli orientamenti neoconservatori e dalla logica huntingtoniana dello scontro di civiltà.
Con l’ingresso di Robert Gates al Pentagono, l’approccio maggiormente realista della Casa Bianca ha consentito l’avvio di una progressiva revisione dei rapporti col mondo islamico, auspicata anche dall’ex consigliere di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, offrendo alla Turchia la possibilità di sfruttare il suo ruolo di mediazione tra Occidente e Oriente, mondo cristiano e mondo musulmano, secolarismo e tradizionalismo.
In pochi anni, dunque, le fondamenta della profondità strategica turca riacquistarono potenzialmente ampi margini d’azione: riconsiderare, almeno in parte, le origini turco-mongole e il passato ottomano del paese senza regredire i processi di modernizzazione e laicizzazione avviati da Atatürk negli anni Venti del Novecento; ridefinire in senso multivettoriale le partnership strategiche con un occhio di riguardo a Russia, Cina, India e Iran; tornare ad identificare, laddove possibile, lo spazio geografico turco con la sfera d’influenza ottomana, investendo sul piano economico e infrastrutturale nelle realtà balcaniche, caucasiche e mediorientali dove più significativa rimane l’eredità dei Sultani; accreditare la Turchia come primo riferimento culturale, economico e politico per tutto il mondo islamico, dal Marocco all’Indonesia.
Le direttrici di questo ambizioso attivismo potevano essere sintetizzate in due ordini di azione strategica: una in senso panislamico e l’altra in senso panturco. Entrambe, tuttavia, dovevano guardarsi da qualsiasi compromesso con quelle tendenze integraliste che hanno minato più volte la pace e la sicurezza in diverse aree critiche del mondo. Basti soltanto pensare al movimento ultranazionalista dei Lupi Grigi o all’estremismo wahhabita di al-Qaeda.
Nodi al pettine
Ma gli equilibri da costruire e mantenere erano troppo delicati e le contraddizioni di un piano talmente vasto e precario alla fine sono emerse. Come salvaguardare i rapporti con Mosca, cercando al contempo di inserirsi in Siria e nei Balcani a scapito di Assad e delle comunità serbe del Kosovo? Come guadagnarsi le simpatie di Putin mantenendo rapporti ambigui col movimento “soft-islamista” di Fethullah Gülen, bandito qualche anno fa dal governo russo? Come aprirsi alla Cina promuovendo al contempo la causa del nazionalismo uiguro nello Xinjiang? Come restare credibile agli occhi degli Stati Uniti e della Nato, chiedendo l’ammissione alla Sco? Come proporsi quale ağabey, ossia “fratello maggiore”, dinnanzi ai popoli turcofoni dell’Asia centrale, regolarmente minacciati dal radicalismo religioso, e sostenere in modo acritico le “primavere arabe” anche di fronte all’evidenza delle infiltrazioni integraliste?
Se l’Unione europea ha cominciato a riconsiderare le sue posizioni iniziali, la Turchia ha invece ottusamente sostenuto l’Esercito libero siriano garantendogli un costante supporto logistico. Tuttavia Erdoğan si è dovuto arrendere dinnanzi ad una politica estera contraddittoria, che ha rischiato seriamente di portare il paese in guerra con la Siria e dunque con l’Iran e Hezbollah. Da “zero problemi” a “troppi problemi”.
Andrea Fais, giornalista e saggista, è collaboratore del quotidiano cinese “Global Times” e della rivista multimediale “Equilibri”, autore de L’Aquila della Steppa. Volti e Prospettive del Kazakistan (Parma, 2012) e coautore de Il Risveglio del Drago. Politica e Strategie della Rinascita Cinese (Parma, 2011) e La Grande Muraglia. Pensiero Politico, Territorio e Strategia della Cina Popolare (Cavriago, 2012).
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La posizione turca sulle “primavere arabe” ha segnato una chiara svolta nella politica estera di Ankara e dell’intero establishment dell’Akp. L’appoggio garantito alla rivolta siriana, al consiglio dei ribelli (Cns) e al governo provvisorio che ne era sorto avevano portato alla recente elezione di Ghassan Hitto, avvenuta proprio ad Istanbul il 18 marzo scorso.
Postkemalismo
Nell’idea del governo turco era palese lo scopo di sostenere sul piano logistico le forze ribelli nelle regioni dove l’esercito regolare siriano aveva perduto il controllo, al fine di frammentare il paese e costringere Assad alla resa, seguendo un atteggiamento analogo a quello francese durante la guerra in Libia che portò alla cattura di Gheddafi.
Il meccanismo si è però inceppato. Innanzitutto, l’improvviso raid di Israele su Damasco del 5 maggio scorso ha immediatamente cambiato la percezione della rivolta nel mondo islamico: la Lega araba, spesso critica nei confronti di Assad e propensa ad un’operazione di peacekeeping, e il presidente egiziano Mohammed Morsi, espressione della Fratellanza musulmana, hanno condannato il bombardamento in un coro unanime coi “rivali” sciiti dell’Iran e di Hezbollah.
Pochi giorni fa, inoltre, è arrivato l’avvertimento di Mosca che, per voce del presidente Putin, ha intimato all’Occidente di evitare qualsiasi intervento militare in Siria, ribadendo l’inviolabilità della base navale di Tartous e proponendo l’invio di forze speciali russe sulle alture del Golan per sostituire i reparti austriaci di stanza nell’area.
Lo stallo siriano potrebbe così segnare per Ankara la fine del piano di profondità strategica sul quale il ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu aveva investito moltissimi anni di ricerca universitaria e quattro anni di carriera politica governativa. L’opera forse più significativa di Davutoğlu, pubblicata nel 2001 ed intitolata Stratejik Derinlik. Turkiye’nin Uluslararasi Konumu è diventata negli ultimi anni una pietra angolare ineludibile per capire la politica estera del governo turco.
Impropriamente e riduttivamente definitiva con l’appellativo di “neo-ottomana”, in realtà l’idea postkemalista che ha mosso le principali iniziative strategiche di Ankara era quella di integrare il paese nel nuovo contesto internazionale in una posizione di maggior prestigio.
Porta girevole
Già dopo la fine della Guerra Fredda, Ankara aveva cominciato a ripensare il suo ruolo di bastione antisovietico provando a sperimentare sempre maggiori margini di autonomia, ma i tentativi dell’ex presidente Özal nei primi anni Novanta risultarono inefficaci. Più recentemente, invece, la Turchia ha senz’altro intravisto l’opportunità di approfittare della chiusura della fase interventista dell’era Bush jr, pesantemente influenzata dagli orientamenti neoconservatori e dalla logica huntingtoniana dello scontro di civiltà.
Con l’ingresso di Robert Gates al Pentagono, l’approccio maggiormente realista della Casa Bianca ha consentito l’avvio di una progressiva revisione dei rapporti col mondo islamico, auspicata anche dall’ex consigliere di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, offrendo alla Turchia la possibilità di sfruttare il suo ruolo di mediazione tra Occidente e Oriente, mondo cristiano e mondo musulmano, secolarismo e tradizionalismo.
In pochi anni, dunque, le fondamenta della profondità strategica turca riacquistarono potenzialmente ampi margini d’azione: riconsiderare, almeno in parte, le origini turco-mongole e il passato ottomano del paese senza regredire i processi di modernizzazione e laicizzazione avviati da Atatürk negli anni Venti del Novecento; ridefinire in senso multivettoriale le partnership strategiche con un occhio di riguardo a Russia, Cina, India e Iran; tornare ad identificare, laddove possibile, lo spazio geografico turco con la sfera d’influenza ottomana, investendo sul piano economico e infrastrutturale nelle realtà balcaniche, caucasiche e mediorientali dove più significativa rimane l’eredità dei Sultani; accreditare la Turchia come primo riferimento culturale, economico e politico per tutto il mondo islamico, dal Marocco all’Indonesia.
Le direttrici di questo ambizioso attivismo potevano essere sintetizzate in due ordini di azione strategica: una in senso panislamico e l’altra in senso panturco. Entrambe, tuttavia, dovevano guardarsi da qualsiasi compromesso con quelle tendenze integraliste che hanno minato più volte la pace e la sicurezza in diverse aree critiche del mondo. Basti soltanto pensare al movimento ultranazionalista dei Lupi Grigi o all’estremismo wahhabita di al-Qaeda.
Nodi al pettine
Ma gli equilibri da costruire e mantenere erano troppo delicati e le contraddizioni di un piano talmente vasto e precario alla fine sono emerse. Come salvaguardare i rapporti con Mosca, cercando al contempo di inserirsi in Siria e nei Balcani a scapito di Assad e delle comunità serbe del Kosovo? Come guadagnarsi le simpatie di Putin mantenendo rapporti ambigui col movimento “soft-islamista” di Fethullah Gülen, bandito qualche anno fa dal governo russo? Come aprirsi alla Cina promuovendo al contempo la causa del nazionalismo uiguro nello Xinjiang? Come restare credibile agli occhi degli Stati Uniti e della Nato, chiedendo l’ammissione alla Sco? Come proporsi quale ağabey, ossia “fratello maggiore”, dinnanzi ai popoli turcofoni dell’Asia centrale, regolarmente minacciati dal radicalismo religioso, e sostenere in modo acritico le “primavere arabe” anche di fronte all’evidenza delle infiltrazioni integraliste?
Se l’Unione europea ha cominciato a riconsiderare le sue posizioni iniziali, la Turchia ha invece ottusamente sostenuto l’Esercito libero siriano garantendogli un costante supporto logistico. Tuttavia Erdoğan si è dovuto arrendere dinnanzi ad una politica estera contraddittoria, che ha rischiato seriamente di portare il paese in guerra con la Siria e dunque con l’Iran e Hezbollah. Da “zero problemi” a “troppi problemi”.
Andrea Fais, giornalista e saggista, è collaboratore del quotidiano cinese “Global Times” e della rivista multimediale “Equilibri”, autore de L’Aquila della Steppa. Volti e Prospettive del Kazakistan (Parma, 2012) e coautore de Il Risveglio del Drago. Politica e Strategie della Rinascita Cinese (Parma, 2011) e La Grande Muraglia. Pensiero Politico, Territorio e Strategia della Cina Popolare (Cavriago, 2012).
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