Introduzione -Il contesto storico
Il 18 dicembre 2008 ha
segnato il trentesimo anniversario dell'inizio in Cina di riforme economiche
che hanno spinto il paese all'epicentro dell'economia mondiale dopo un'assenza
di diversi secoli. In quella stessa data di 30 anni prima, infatti, l’11°
Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (di seguito indicato con la
sigla PCC) aveva votato l’adozione di significative riforme economiche invocate
da Deng Xiaoping. L’attuale presidente cinese, Hu Jintao, ha definito
quella decisione come “un grande risveglio del partito comunista.”[1] Dopo il caos della rivoluzione culturale,
Deng ammise che se l’intento della Cina era quello di ristabilire l’economia,
costruire la propria potenza nazionale e riconquistare un legittimo posto al
sole, allora era necessario procedere ad importanti riforme. Egli
affermò che la Cina avrebbe dovuto seguire una strategia di “apertura verso il
mondo esterno”. [2] Deng sostenne che con le riforme e l’apertura,
la Cina avrebbe avuto accesso ai capitali internazionali, alle competenze di
gestione, alla tecnologia ed ai mercati. Questi furono i primi passi
che, trent'anni dopo, avrebbero portato la Cina a superare la Germania,
divenendo il primo esportatore al mondo, nonché a scalzare il Giappone dalla
seconda posizione nell’economia globale complessiva e, infine, a rilevare il
posto degli Stati Uniti quale maggiore consumatore mondiale di energia.
Durante i primi due
decenni di apertura economica della Cina, il focus è stato principalmente
incentrato sull’enorme crescita economica, sulla massiccia attrazione di
investimenti esteri diretti (di seguito indicati con la sigla ODI: Overseas
Direct Investment), l’enorme surplus commerciale con l'Occidente e l’emersione
di una classe media di grandi dimensioni. Negli ultimi 20 anni l'economia cinese
è cresciuta ad una velocità 7 volte maggiore rispetto a quella degli Stati Uniti
e del Giappone durante le fasi preliminari del loro sviluppo economico. Il
Giappone ebbe bisogno di 25 anni per crescere di 6 volte durante il periodo dal
‘60 all’85, mentre gli Stati Uniti dovettero attendere più di 60 anni per
crescere di 3,5 volte negli anni dal 1870 al 1930. Inoltre,
si prevede che il tasso annuale di crescita del
PIL cinese si manterrà ad almeno il 7% per tutto il prossimo decennio e anche
oltre.
Tuttavia, un fenomeno
relativamente nuovo ha assunto un ruolo centrale nello scorso decennio e in
particolare negli ultimi cinque anni: l’ODI cinese è divenuto uno dei più
grandi fenomeni economici del 21° secolo. In un
arco di tempo relativamente breve, la Cina è diventata il primo investitore tra
i paesi in via di sviluppo ed il sesto al mondo con 150 miliardi di dollari
investiti nei mercati esteri.[3]
Questa condizione segna uno sviluppo di rilevanza strategica, con implicazioni
che vanno ben oltre l’aspetto economico. In passato, l’ODI cinese è stato
irrisorio rispetto agli standard globali. Ancora nel 2004 la Cina si era
classificata solo al 28° posto in
termini di ODI nel mondo.[4] Negli anni 2003-2008 il tasso di crescita annuale
dell’ODI cinese è stato pero del 60%, ma probabilmente è più interessante notare
che, mentre la crisi finanziaria globale raggiungeva il suo culmine nel 2008 e l’ODI
mondiale si contraeva del 20%, il corrispettivo dato cinese arrivava
addirittura a raddoppiarsi.[5]
A similitudine
dell’iniziativa Deng, anche questa notevole enfasi strategica sull’ODI è stata
una decisione top-down assunta a Pechino. La strategia d’apertura, nota in mandarino
come qu chu zou, fu inaugurata a metà degli anni ‘90 dalla Commissione
Statale dell’Economia e del Commercio che selezionò 120 campioni nazionali da spedire fuori dai confini nazionali come punte
di diamante rappresentative dell’impegno commerciale cinese all'estero.[6] Nel 1997, il 15° Congresso del PCC spinse le imprese
statali (SOE: State Owned Enterprises) ad entrare nel mondo della concorrenza
investendo all'estero. L'allora presidente Jiang Zemin rese nota la
volontà del governo di “stabilire dei
gruppi di imprese di grandi dimensioni, altamente competitivi, trans-regionali
e inter-commerciali, mediante operazioni transnazionali e proprietà incrociate”
al fine di incoraggiare “gli investitori cinesi ad investire all'estero, in
aree che possano mettere in gioco il vantaggio competitivo cinese in modo da
utilizzare al meglio le risorse e i
mercati cinesi e stranieri.”[7] Con una mossa correlata, Jiang consigliò
alle aziende di Stato di andare all'estero in cerca di risorse naturali. Questa
spinta dall'alto verso scambi con paesi ricchi di risorse quali le regioni del
Sud-Est Asiatico, dell’America Latina e dell’Africa, portò l’economia cinese ad
un’incredibile crescita del 600% durante il periodo 2001-200[8].
Nel 2000, la politica di going global fu ufficialmente formulata dal Premier Zhu Rongji che,
nel suo discorso di policy annuale, incoraggiò le imprese cinesi ad investire
all'estero mentre era contemporaneamente in fase di definizione l’ingresso
della Cina nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o anche WTO: World
trade Organization). Zhu immaginava il going
global come una piattaforma riservata alle imprese cinesi desiderose di diventare
più competitive nell'economia mondiale. L’integrazione nell’OMC ha
rappresentato un passaggio fondamentale per la Cina. Sebbene, infatti,
comportasse una maggiore concorrenza straniera sul mercato interno, ha di
contro permesso alle aziende cinesi una maggiore possibilità di accesso al capitale
umano, gestionale e tecnologico introdotto da investitori stranieri e da
concorrenti che, a quel punto, erano in grado di operare nella Cina.
Il 10° piano quinquennale (2001-2006) cinese
indicò nella politica di going global
una delle aree chiavi necessarie per il percorso della Cina verso la
globalizzazione,
come espressamente dichiarato da un’autorità cinese, Andrew
Leung, che affermò: “Going global è
molto più che una strategia nazionale”.[9] L'obiettivo di questa politica era quello
di preparare il terreno per alcune società cinesi affinché potessero competere
con le migliori aziende straniere e affermarsi pienamente, entrando nel novero
delle aziende elencate da Fortune Global 500. Nel 1995, infatti, questa classifica elencava
soltanto due società cinesi, ma nel 2007 la cifra era gia’ aumentata a 22. Proprio
come il Giappone negli anni ‘80 e la Corea del Sud negli anni ‘90, il primo
decennio del 21° secolo ha visto le aziende cinesi trasformarsi da organismi
caratterizzati da un’elevata intensità di lavoro a sistemi operativi ad alto
valore aggiunto riverberatosi nel loro desiderio di investire all’estero, sospinto
da una miriade di ragioni.
L’enorme crescita economica
della Cina è stata rapidissima ed è stata descritta come “la crescita improvvisa
di ricchezza piu’ dinamica nella storia dell'umanità”.[10] Questa situazione rappresenta un ritorno
all’ordine mondiale pre-colombiano in cui la Cina era il centro del sistema
economico globale. E’ vero che gran parte di questa crescita si basa su una
strategia economica imperniata
sull’esportazione; tuttavia, gli ultimi anni hanno visto un cambiamento dettato
dall’aumento degli ODI particolarmente
focalizzato sulle fusioni e acquisizioni (M & A: Merge & Acquisitions) tra
aziende straniere e cinesi.
Questo vettore di
crescita è sostenuto da una solida teoria macroeconomica. La
Cina non può fare esclusivo affidamento sulle esportazioni per il tipo di
crescita che ha visto nel corso degli ultimi 30 anni. Con
il going
global, le imprese cinesi possono evitare le tariffe e le restrizioni
commerciali tipiche di altre economie e possono quindi penetrare nuovi mercati
con tutti i vantaggi che ne conseguono, ivi incluso l'accesso a nuove
tecnologie, a risorse naturali e al capitale umano. Inoltre,
lo tsunami finanziario globale del 2008, accoppiato con l’incredibile riserva di
dollari posseduta della Cina, ha permesso alle imprese cinesi di agire
aggressivamente all’estero acquistando attività a prezzi relativamente scontati.
Questa situazione ha attirato l'attenzione dei commentatori stranieri i quali
non sempre si sono espressi favorevolmente.
Il ritorno della Cina
alla ribalta della scena geopolitica è un corollario al suo ritorno economico
sulla scena mondiale. Sin dalle riforme di Deng, risalenti alla fine degli anni
’70, l'espansione del Prodotto Nazionale Lordo è stata una componente
principale della strategia tesa ad accrescere la potenza globale cinese e la
capacità di influenzare gli affari internazionali. Un
aumento della capacità economica è naturalmente accompagnato da un aumento del
potere complessivo nazionale. Eppure la Cina respinge con forza ogni
accusa di voler utilizzare aggressivamente il proprio potere e non perde occasione
per affermare che la sua ascesa nel mondo è del tutto pacifica e non ha alcuna
ambizione territoriale.[11] Tuttavia, è incontestabile che l’ODI si aggiunga
effettivamente all’influenza e al capitale politico che la Cina esercita direttamente
e indirettamente a scala globale. E’ significativo notare che le imprese
cinesi spesso investono in stati molto particolari quali la Birmania, l’Iran, il
Sudan e lo Zimbabwe, tutti paesi che l'Occidente avrebbe bollato come paria. Grazie al sostegno del governo, le
aziende cinesi sono in grado di prendere decisioni aziendali e commerciali che
nelle democrazie occidentali sarebbero considerate moralmente inaccettabili e
politicamente insostenibili. Ciò consente alle società cinesi di operare con quella
flessibilità e agilità che in determinati mercati consente loro di acquisire il vantaggio della
prima mossa.
E’ ragionevole collegare
la politica economica cinese alla politica estera, ma occorre prestare attenzione a non
enfatizzare eccessivamente questa correlazione. In un famoso articolo, il giornale The
Economist ha definito la Cina come un drago
famelico alla spasmodica ricerca di
energia e di altre risorse naturali per alimentare fabbriche e centrali
elettriche.[12] La Cina ha un bisogno
così forte di energia per sostenere la crescita economica e una popolazione
talmente grande che, inevitabilmente, giungerà a un punto in cui si troverà a
corto di risorse naturali. La continua ricerca di fonti di energia
all’estero per garantirsi la sicurezza energetica è quindi diventata uno dei
più pressanti obiettivi della politica estera cinese. Inoltre, un articolo di Foreign Affairs[13] ha sostenuto che,
attualmente, la politica estera cinese è guidata da un bisogno di risorse senza
precedenti nella storia. L’affermazione potrebbe apparire un po’ esagerata, ma
ciò non toglie che esista un’evidente connessione tra i due elementi. Le decisioni
di politica estera sono certamente indici di crescita del potere nazionale e
delle capacità della Cina dovute al suo sviluppo economico.[14]
Una delle fonti di
legittimazione del PCC è la crescita economica sostenuta che necessita di un
flusso regolare e affidabile di energia
e materie prime. Se venisse meno,
porterebbe ad un’inevitabile contrazione della crescita economica cinese e
quindi alla messa in discussione del ruolo stesso del PCC. Nel caso peggiore, quindi,
si potrebbero creare incertezze e sconvolgimenti interni capaci di minacciare proprio
quegli elementi che la leadership cinese ritiene da sempre indispensabili per
lo sviluppo armonico della società. Quanti conoscono la storia cinese sanno che
più di una dinastia è caduta a causa di vicende simili ed il PCC è profondamente
consapevole di essere esposto agli stessi rischi dei loro predecessori
dinastici.
In tale prospettiva, il presente lavoro si prefigge di
delineare la strategia economica cinese del going
global e le sue implicazioni geopolitiche, economiche e diplomatiche per la
sicurezza nazionale degli Stati Uniti e degli altri paesi. Il Capitolo 1 si
concentrerà sulla decisione cinese di diventare globale, ovvero la politica di going global, per poi procedere ad un
esame della teoria macroeconomica che sostiene la decisione della leadership
cinese di supportare le attività commerciali globali, guardando anche agli
imperativi politici. Nel Capitolo 2 saranno illustrate le principali giustificazioni
che hanno portato alla decisione di puntare alla globalizzazione, analizzandole
da varie prospettive, e si individuerà il ruolo delle imprese e degli enti
commerciali nella politica estera cinese. Il Capitolo 3 analizzerà più in
profondità questo tema, al fine di spiegare le ragioni economiche e commerciali
del forte attivismo cinese all'estero che poggia, fondamentalmente, sulla possibilità di accedere alle risorse, ai
mercati, alle tecnologie e al capitale umano, ivi compresa la proprietà
intellettuale. Il Capitolo 4 specificherà i settori industriali di particolare
interesse per le imprese cinesi all'estero e analizzerà i profili di importanti
operatori commerciali cinesi oltremare e le aree ove concentrano le loro
attività. Il Capitolo 5 esaminerà le implicazioni soft power delle aziende cinesi tese alla globalizzazione; il Capitolo
6 quelle hard power. Il Capitolo 7
tratterà le reazioni regionali alle attività commerciali cinesi nelle varie
aree geografiche, misurandone la presenza in Africa, Americhe, Asia, Europa e
Medio Oriente. Il Capitolo 8 valuterà le implicazioni per gli Stati Uniti conseguenti
alle aziende cinesi impegnate nel going global. Infine il Capitolo 9 concluderà
l’elaborato fornendo un’analisi del potere nazionale secondo il quadro dei
fattori DIME definiti dagli USA: diplomatico, informativo, militare ed
economico.
* Le opinioni espresse
in questo manoscritto sono quelle dell'autore
e non riflettono necessariamente le opinioni del Dipartimento della Difesa statunitense o
delle sue agenzie.
[1] Shi Jiangtao,
“Hu Hails Reforms, says Much More Still to Do,” China Daily, December 19, 2008, 1.
[2] Deng Xiaoping, “Why China has Opened Its Doors,” Foreign Broadcast Information Service, Daily
Report: China, February 12, 1980, LI-5.
[3] Peter Wood and Kerry Brown, “China ODI: Buying into
the Global Economy,” XRG C-ODI Report,
October 2009, 5.
[4] “World Investment Report,” United Nations Conference
on Trade and Development (UNCTAD), 2005.
[5] Yun Schueler-Zhou, Margot Schueller, and Magnus Brod,
“Chinas Going Global – Finanzmarktkrise bietet Chancen fuer chinesische
Investoren im Ausland,” GIGA Focus, August 2010, 2.
[6] David Zweig, “China and the World Economy: The Rise
of a New Trading Nation” (presentato alla World International Studies
Association, Ljubljana, Slovenia, il 24.7.2008) .
[7]
Jiang Zemin, discorso al 15° Congresso nazionale del Partito
Comunista Cinese, del 12.9.1997.
[8] Elizabeth Economy, “The Game Changer,” Foreign Affairs 89, no. 6
(November-December 2010): 145.
[11] Zeng Bijian, “China’s Peaceful Rise,” Foreign Affairs 84, n. 5, (September-October 2005): 18-24
[12] A Ravenous Dragon,” The Economist, March 15, 2008
[13] David Zweig and Bi Jianhai, “China’s Global
Hunt for Energy” Foraign Affairs 84, n.5, (Sept-Oct 2005):25.
[14] Michael Swaine
and Ashley Tellis, Interpreting China’s
Grand Strategy: Past, Present, and Future (Santa Monica: RAND, 2000),
97-98.
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