Asia

Per la traduzione in una lingua diversa dall'Italiano.For translation into a language other than.

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

Cerca nel blog

sabato 31 agosto 2019

Il ruolo delle imprese e degli enti commerciali nella politica estera cinese



Introduzione -Il contesto storico

Il 18 dicembre 2008 ha segnato il trentesimo anniversario dell'inizio in Cina di riforme economiche che hanno spinto il paese all'epicentro dell'economia mondiale dopo un'assenza di diversi secoli. In quella stessa data di 30 anni prima, infatti, l’11° Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (di seguito indicato con la sigla PCC) aveva votato l’adozione di significative riforme economiche invocate da Deng Xiaoping. L’attuale presidente cinese, Hu Jintao, ha definito quella decisione come “un grande risveglio del partito comunista.”[1] Dopo il caos della rivoluzione culturale, Deng ammise che se l’intento della Cina era quello di ristabilire l’economia, costruire la propria potenza nazionale e riconquistare un legittimo posto al sole, allora era necessario procedere ad importanti riforme. Egli affermò che la Cina avrebbe dovuto seguire una strategia di “apertura verso il mondo esterno”. [2]  Deng sostenne che con le riforme e l’apertura, la Cina avrebbe avuto accesso ai capitali internazionali, alle competenze di gestione, alla tecnologia ed ai mercati. Questi furono i primi passi che, trent'anni dopo, avrebbero portato la Cina a superare la Germania, divenendo il primo esportatore al mondo, nonché a scalzare il Giappone dalla seconda posizione nell’economia globale complessiva e, infine, a rilevare il posto degli Stati Uniti quale maggiore consumatore mondiale di energia.
Durante i primi due decenni di apertura economica della Cina, il focus è stato principalmente incentrato sull’enorme crescita economica, sulla massiccia attrazione di investimenti esteri diretti (di seguito indicati con la sigla ODI: Overseas Direct Investment), l’enorme surplus commerciale con l'Occidente e l’emersione di una classe media di grandi dimensioni. Negli ultimi 20 anni l'economia cinese è cresciuta ad una velocità 7 volte maggiore rispetto a quella degli Stati Uniti e del Giappone durante le fasi preliminari del loro sviluppo economico. Il Giappone ebbe bisogno di 25 anni per crescere di 6 volte durante il periodo dal ‘60 all’85, mentre gli Stati Uniti dovettero attendere più di 60 anni per crescere di 3,5 volte negli anni dal 1870 al 1930. Inoltre, si prevede che il tasso annuale di crescita del  PIL cinese si manterrà ad almeno il 7% per tutto il prossimo decennio e anche oltre.
Tuttavia, un fenomeno relativamente nuovo ha assunto un ruolo centrale nello scorso decennio e in particolare negli ultimi cinque anni: l’ODI cinese è divenuto uno dei più grandi fenomeni economici del 21° secolo. In un arco di tempo relativamente breve, la Cina è diventata il primo investitore tra i paesi in via di sviluppo ed il sesto al mondo con 150 miliardi di dollari investiti nei mercati esteri.[3] Questa condizione segna uno sviluppo di rilevanza strategica, con implicazioni che vanno ben oltre l’aspetto economico. In passato, l’ODI cinese è stato irrisorio rispetto agli standard globali. Ancora nel 2004 la Cina si era classificata solo al 28° posto in termini di ODI nel mondo.[4] Negli anni 2003-2008 il tasso di crescita annuale dell’ODI cinese è stato pero del 60%, ma probabilmente è più interessante notare che, mentre la crisi finanziaria globale raggiungeva il suo culmine nel 2008 e l’ODI mondiale si contraeva del 20%, il corrispettivo dato cinese arrivava addirittura a raddoppiarsi.[5]
A similitudine dell’iniziativa Deng, anche questa notevole enfasi strategica sull’ODI è stata una decisione top-down assunta a Pechino. La strategia d’apertura, nota in mandarino come qu chu zou, fu inaugurata a metà degli anni ‘90 dalla Commissione Statale dell’Economia e del Commercio che selezionò 120 campioni nazionali da spedire fuori dai confini nazionali come punte di diamante rappresentative dell’impegno commerciale cinese all'estero.[6] Nel 1997, il 15° Congresso del PCC spinse le imprese statali (SOE: State Owned Enterprises) ad entrare nel mondo della concorrenza investendo all'estero. L'allora presidente Jiang Zemin rese nota la volontà  del governo di “stabilire dei gruppi di imprese di grandi dimensioni, altamente competitivi, trans-regionali e inter-commerciali, mediante operazioni transnazionali e proprietà incrociate” al fine di incoraggiare “gli investitori cinesi ad investire all'estero, in aree che possano mettere in gioco il vantaggio competitivo cinese in modo da utilizzare al meglio  le risorse e i mercati cinesi e stranieri.”[7] Con una mossa correlata, Jiang consigliò alle aziende di Stato di andare all'estero in cerca di risorse naturali. Questa spinta dall'alto verso scambi con paesi ricchi di risorse quali le regioni del Sud-Est Asiatico, dell’America Latina e dell’Africa, portò l’economia cinese ad un’incredibile crescita del 600% durante il periodo 2001-200[8].
Nel 2000, la politica di going global fu ufficialmente formulata dal Premier Zhu Rongji che, nel suo discorso di policy annuale, incoraggiò le imprese cinesi ad investire all'estero mentre era contemporaneamente in fase di definizione l’ingresso della Cina nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o anche WTO: World trade Organization). Zhu immaginava il going global come una piattaforma riservata alle imprese cinesi desiderose di diventare più competitive nell'economia mondiale. L’integrazione nell’OMC ha rappresentato un passaggio fondamentale per la Cina. Sebbene, infatti, comportasse una maggiore concorrenza straniera sul mercato interno, ha di contro permesso alle aziende cinesi una maggiore possibilità di accesso al capitale umano, gestionale e tecnologico introdotto da investitori stranieri e da concorrenti che, a quel punto, erano in grado di operare nella Cina.
Il 10°  piano quinquennale (2001-2006) cinese indicò nella politica di going global una delle aree chiavi necessarie per il percorso della Cina verso la globalizzazione, come espressamente dichiarato da un’autorità cinese, Andrew Leung, che affermò: “Going global è molto più che una strategia nazionale”.[9] L'obiettivo di questa politica era quello di preparare il terreno per alcune società cinesi affinché potessero competere con le migliori aziende straniere e affermarsi pienamente, entrando nel novero delle aziende elencate da Fortune Global 500. Nel 1995, infatti, questa classifica elencava soltanto due società cinesi, ma nel 2007 la cifra era gia’ aumentata a 22. Proprio come il Giappone negli anni ‘80 e la Corea del Sud negli anni ‘90, il primo decennio del 21° secolo ha visto le aziende cinesi trasformarsi da organismi caratterizzati da un’elevata intensità di lavoro a sistemi operativi ad alto valore aggiunto riverberatosi nel loro desiderio di investire all’estero, sospinto da una miriade di ragioni.
L’enorme crescita economica della Cina è stata rapidissima ed è stata descritta come “la crescita improvvisa di ricchezza piu’ dinamica nella storia dell'umanità”.[10]  Questa situazione rappresenta un ritorno all’ordine mondiale pre-colombiano in cui la Cina era il centro del sistema economico globale. E’ vero che gran parte di questa crescita si basa su una  strategia economica imperniata sull’esportazione; tuttavia, gli ultimi anni hanno visto un cambiamento dettato dall’aumento degli ODI  particolarmente focalizzato sulle fusioni e acquisizioni (M & A: Merge & Acquisitions) tra aziende straniere e cinesi.
Questo vettore di crescita è sostenuto da una solida teoria macroeconomica. La Cina non può fare esclusivo affidamento sulle esportazioni per il tipo di crescita che ha visto nel corso degli ultimi 30 anni. Con il  going global, le imprese cinesi possono evitare le tariffe e le restrizioni commerciali tipiche di altre economie e possono quindi penetrare nuovi mercati con tutti i vantaggi che ne conseguono, ivi incluso l'accesso a nuove tecnologie, a risorse naturali e al capitale umano. Inoltre, lo tsunami finanziario globale del 2008, accoppiato con l’incredibile riserva di dollari posseduta della Cina, ha permesso alle imprese cinesi di agire aggressivamente all’estero acquistando attività a prezzi relativamente scontati. Questa situazione ha attirato l'attenzione dei commentatori stranieri i quali non sempre si sono espressi favorevolmente.
Il ritorno della Cina alla ribalta della scena geopolitica è un corollario al suo ritorno economico sulla scena mondiale. Sin dalle riforme di Deng, risalenti alla fine degli anni ’70, l'espansione del Prodotto Nazionale Lordo è stata una componente principale della strategia tesa ad accrescere la potenza globale cinese e la capacità di influenzare gli affari internazionali. Un aumento della capacità economica è naturalmente accompagnato da un aumento del potere complessivo nazionale. Eppure la Cina respinge con forza ogni accusa di voler utilizzare aggressivamente il proprio potere e non perde occasione per affermare che la sua ascesa nel mondo è del tutto pacifica e non ha alcuna ambizione territoriale.[11] Tuttavia, è incontestabile che l’ODI si aggiunga effettivamente all’influenza e al capitale politico che la Cina esercita direttamente e indirettamente a scala globale. E’ significativo notare che le imprese cinesi spesso investono in stati molto particolari quali la Birmania, l’Iran, il Sudan e lo Zimbabwe, tutti paesi che l'Occidente avrebbe bollato come paria. Grazie al sostegno del governo, le aziende cinesi sono in grado di prendere decisioni aziendali e commerciali che nelle democrazie occidentali sarebbero considerate moralmente inaccettabili e politicamente insostenibili. Ciò consente alle società cinesi di operare con quella flessibilità e agilità che in determinati mercati  consente loro di acquisire il vantaggio della prima mossa.
E’ ragionevole collegare la politica economica cinese alla politica estera,  ma occorre prestare attenzione a non enfatizzare eccessivamente questa correlazione. In un famoso articolo, il giornale The Economist ha definito la Cina come un drago famelico  alla spasmodica ricerca di energia e di altre risorse naturali per alimentare fabbriche e centrali elettriche.[12] La Cina ha un bisogno così forte di energia per sostenere la crescita economica e una popolazione talmente grande che, inevitabilmente, giungerà a un punto in cui si troverà a corto di risorse naturali. La continua ricerca di fonti di energia all’estero per garantirsi la sicurezza energetica è quindi diventata uno dei più pressanti obiettivi della politica estera cinese. Inoltre, un articolo di Foreign Affairs[13] ha sostenuto che, attualmente, la politica estera cinese è guidata da un bisogno di risorse senza precedenti nella storia. L’affermazione potrebbe apparire un po’ esagerata, ma ciò non toglie che esista un’evidente connessione tra i due elementi. Le decisioni di politica estera sono certamente indici di crescita del potere nazionale e delle capacità della Cina dovute al suo sviluppo economico.[14]
Una delle fonti di legittimazione del PCC è la crescita economica sostenuta che necessita di un flusso regolare e affidabile  di energia e materie prime.  Se venisse meno, porterebbe ad un’inevitabile contrazione della crescita economica cinese e quindi alla messa in discussione del ruolo stesso del PCC. Nel caso peggiore, quindi, si potrebbero creare incertezze e sconvolgimenti interni capaci di minacciare proprio quegli elementi che la leadership cinese ritiene da sempre indispensabili per lo sviluppo armonico della società. Quanti conoscono la storia cinese sanno che più di una dinastia è caduta a causa di vicende simili ed il PCC è profondamente consapevole di essere esposto agli stessi rischi dei loro predecessori dinastici.
In tale prospettiva, il presente lavoro si prefigge di delineare la strategia economica cinese del going global e le sue implicazioni geopolitiche, economiche e diplomatiche per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e degli altri paesi. Il Capitolo 1 si concentrerà sulla decisione cinese di diventare globale, ovvero la politica di going global, per poi procedere ad un esame della teoria macroeconomica che sostiene la decisione della leadership cinese di supportare le attività commerciali globali, guardando anche agli imperativi politici. Nel Capitolo 2 saranno illustrate le principali giustificazioni che hanno portato alla decisione di puntare alla globalizzazione, analizzandole da varie prospettive, e si individuerà il ruolo delle imprese e degli enti commerciali nella politica estera cinese. Il Capitolo 3 analizzerà più in profondità questo tema, al fine di spiegare le ragioni economiche e commerciali del forte attivismo cinese all'estero che poggia, fondamentalmente,  sulla possibilità di accedere alle risorse, ai mercati, alle tecnologie e al capitale umano, ivi compresa la proprietà intellettuale. Il Capitolo 4 specificherà i settori industriali di particolare interesse per le imprese cinesi all'estero e analizzerà i profili di importanti operatori commerciali cinesi oltremare e le aree ove concentrano le loro attività. Il Capitolo 5 esaminerà le implicazioni soft power delle aziende cinesi tese alla globalizzazione; il Capitolo 6 quelle hard power. Il Capitolo 7 tratterà le reazioni regionali alle attività commerciali cinesi nelle varie aree geografiche, misurandone la presenza in Africa, Americhe, Asia, Europa e Medio Oriente. Il Capitolo 8 valuterà le implicazioni per gli Stati Uniti conseguenti alle  aziende cinesi impegnate nel going global. Infine il Capitolo 9 concluderà l’elaborato fornendo un’analisi del potere nazionale secondo il quadro dei fattori DIME definiti dagli USA: diplomatico, informativo, militare ed economico.


* Le opinioni espresse in questo manoscritto sono quelle dell'autore e non riflettono necessariamente le opinioni del Dipartimento della Difesa statunitense o delle sue agenzie.
[1]  Shi Jiangtao, “Hu Hails Reforms, says Much More Still to Do,” China Daily, December 19, 2008, 1.
[2] Deng Xiaoping, “Why China has Opened Its Doors,” Foreign Broadcast Information Service, Daily Report: China, February 12, 1980, LI-5.
[3] Peter Wood and Kerry Brown, “China ODI: Buying into the Global Economy,” XRG C-ODI  Report, October 2009, 5.
[4] “World Investment Report,” United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD), 2005. 
[5] Yun Schueler-Zhou, Margot Schueller, and Magnus Brod, “Chinas Going Global – Finanzmarktkrise bietet Chancen fuer chinesische Investoren im Ausland,” GIGA Focus, August 2010, 2.
[6] David Zweig, “China and the World Economy: The Rise of a New Trading Nation” (presentato alla World International Studies Association, Ljubljana, Slovenia, il 24.7.2008) .
[7]  Jiang Zemin, discorso al 15° Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese, del 12.9.1997.
[8] Elizabeth Economy, “The Game Changer,” Foreign Affairs 89, no. 6 (November-December 2010): 145.
[9]   BBC World, December 29, 2007.
[10]  “China’s Growing Pains,” The Economist, August 19, 2004.
[11] Zeng Bijian, “China’s Peaceful Rise,” Foreign Affairs 84, n. 5, (September-October 2005): 18-24
[12] A Ravenous Dragon,” The Economist, March 15, 2008
[13] David Zweig and Bi Jianhai, “China’s Global Hunt for Energy” Foraign Affairs 84, n.5, (Sept-Oct 2005):25.
[14]  Michael Swaine and Ashley Tellis, Interpreting China’s Grand Strategy: Past, Present, and Future (Santa Monica: RAND, 2000), 97-98.


Nessun commento:

Posta un commento