Da quando, nell’ottobre del 2006, la Corea del Nord ha compiuto il primo test atomico, la tensione lungo il 38° parallelo sperimenta periodiche escalation. Non di rado nel corso dell’ultimo decennio un gruppo da battaglia della US Navy s’è avvicinato alla penisola coreana e anche i movimenti di truppe lungo il confine sino-coreano sono stati piuttosto frequenti.
Il riposizionamento della USS Carl Vinson e il rafforzamento del dispositivo di sicurezza sul fronte cinese del confine tra le due Repubbliche popolari si potrebbero quindi interpretare come un ennesimo momento di una crisi politico-diplomatica decennale a intensità intermittente.
Tuttavia, comparando gli eventi odierni con il passato e contestualizzandoli alla luce dei profondi mutamenti che stanno sconvolgendo lo scenario internazionale, emerge un quadro assai più inquietante. L’escalation militare per la prima volta appare reale e addirittura imminente, mentre i contrappesi strategici a un intervento unilaterale Usa si dimostrano improvvisamente fragili e aleatori.
Il quadro tattico Non è la prima volta che la USS Carl Vinson solca le acque limitrofe alla penisola coreana. Nel corso degli ultimi anniil Pacifico occidentale, il Mar Cinese e il Mar Giallo hanno ricevuto periodicamente la visita di super-portaerei classe Nimitz: la USS Nimitz, la USS George Washington o la USS Ronald Reagan, che con il suo gruppo da battaglia è di stanza presso la base navale di Yokosuka, lungo le coste sud-occidentali del Giappone.
Una complessa catena di eventi, però, assegna al riposizionamento del Carrier Strike Group One una valenza del tutto nuova. A partire da gennaio 2016 gli F-22 Raptor di stanza a Elmendorf, Alaska, hanno iniziato a fare la spola tra la base Usa, quella giapponese di Yokota e quella australiana di Tindal.
Il Raptor è l’unico velivolo al mondo con capacità stealth di V generazione ed è stato appena testato in Siria, dove il Pentagono ha messo alla prova il suo ‘pupillo’, ancora digiuno di un vero e proprio battesimo del fuoco, contro sistemi antiaerei che potrebbero avere caratteristiche molto simili, se non superiori, a quelli nordcoreani. Le straordinarie capacità del Raptor si aggiungono a quelle dei B-1 e B-2, altre due punte di diamante dell’arsenale Usa, che sovente decollano dalla base di Guam per sorvolare la regione.
Mentre la capacità di proiezione degli Usa nell’area si è andata progressivamente rafforzando, una serie di esercitazioni congiunte tra la US Navy, le forze armate giapponesi e quelle sudcoreane hanno testato, con successo, la capacità dei rispettivi dispositivi antimissile di intercettare missili a corto e medio raggio, minacciando di incrinare il meccanismo di deterrenza che garantisce, almeno teoricamente, il fragile equilibrio regionale.
All’inizio del mese mese scorso il Governo statunitense ha annunciato di aver inviato le prime componenti del Thaad (Terminal High Altitude Area Defense) in Corea del Sud, aggiungendo così l’ultimo tassello all’ombrello antimissile che copre tutte le principali basi americane nella regione e completando inoltre l’accerchiamento del regime nordcoreano.
Il quadro strategico L’argine naturale a un’escalation individuato, talvolta aprioristicamente e fideisticamente, dalla letteratura specializzata non è però di natura militare e di ordine tattico, ma di natura politica e di ordine strategico. Per lungo tempo, infatti, la gran parte degli esperti internazionali ha identificano nella Cina di Xi Jinping il convitato di pietra al tavolo della crisi, nonché l’adeguato contraltare alle tentazioni interventiste statunitense.
Improvvisamente, la Cina si scopre troppo debole o troppo poco interessata per contenere la pressione Usa. Mettere a confronto le parole con cui a novembre del 2013 il presidente cinese promulgò unilateralmente l’Adiz (Air Defense Identification Zone) con le dichiarazioni odierne risulta, infatti, impietoso.
L’approccio assertivo e muscolare che ha contraddistinto sin dall’inizio la presidenza di Xi si stempera improvvisamente in quelle che, con una certa malizia, potrebbero essere interpretate come docili suppliche agli Usa perché “rimangano calmi ed esercitino moderazione”, mentre contemporaneamente il governo cinese cerca di fare pressione su Pyongyang sospendendo la cooperazione economica.
Gli unici movimenti militari significativi si hanno lungo il confine sino-coreano, dove Pechino ha rischierato circa 175.000 uomini in pochi giorni. Evidentemente senza alcun intento minaccioso. Ma un rafforzamento che non ha precedenti nella storia recente, fatta di rischieramenti tempestivi ma dal valore simbolico.
La svolta protezionistica paventata dal nuovo presidente statunitense ha messo a nudo contraddizioni della globalizzazione a lungo sottaciute, imponendo una rapida reinterpretazione della struttura del commercio globale e dei conseguenti rapporti di forza internazionali. Venuto meno il contrappeso cinese, sempre che vi sia mai stato, l’opzione militare appare improvvisamente reale; e le dichiarazionidi Trump suonano drammaticamente come un ultimatum al regime nordcoreano.
Lo stile di Trump Da molte parti nel corso dei suoi due mandati si erano levate critiche alla politica estera di Obama, accusato di debolezza. Trump vuole affermare la differenza del suo approccio rispetto a quello del predecessore e lo fa nella maniera più semplice e teatrale possibile, senza alcun senso di responsabilità nei confronti del contesto internazionale, fedele al suo credo isolazionista ed eccezionalista.
L’intervento in Siria è stato il primo atto, ma la piece trumpiana si nutre di continui rilanci, di un simbolismo dissacrante e iconoclasta. La Corea del Nord appare quindi il teatro ideale su cui mettere in scena il coupe de theatre che potrebbe segnare così precocemente il suo mandato.
Uno dei gruppi da battaglia più potenti di tutta la US Navy, composto dalla USS Carl Vinson, che imbarca i temibili F-18 Super Hornet e dispone del primo centro di controllo per Uav imbarcato, da due incrociatori classe Ticonderoga e dal Destroyer Squadron 1, che dispone di cacciatorpediniere classe Arleigh Burke, incrocia al largo della penisola coreana. Sia gli incrociatori che le cacciatorpediniere sono equipaggiate con il sistema di combattimento integrato Aegis, che garantisce loro la possibilità di intercettare missili balistici a corto e medio raggio, oltre a integrare le capacità di attacco.
Cacciatorpediniere giapponesi classe Kongo, anch’esse equipaggiate con sistema di attacco integrato Aegis, sono in procinto di unirsi alla squadra navale statunitense. Complessivamente, il gruppo da battaglia Usa dispone di quasi 300 celle per missili da crociera. È altamente probabile, inoltre, che anche sottomarini nucleari e bombardieri strategici pattuglino le acque e i cieli della regione. Difficile interpretarla come una parata.
Improvvisamente, la Corea del Nord si scopre nuda. O quasi. Oltre al basso profilo le rimangono solo poche opzioni. Folli, fatalmente controproducenti e dall’esito incerto. Le voci su un test nucleare programmato per il fine settimana, in coincidenza con i festeggiamenti per il 105° anniversario della nascita di Kim Il-sung, si rincorrevano oramai da giorni: il tempismo dell’exploit statunitense non è casuale. Se i preparativi erano già in corso, infatti, la mossa Usa mette Kim Jong-un in una posizione molto difficile. Tutto è pronto. Ma non è detto che il ‘gran finale’ vada in scena.
Enrico Mariutti, laureato in storia antica presso la Sapienza, ha conseguito un Master di II livello in Geopolitica e Sicurezza Globale; attualmente collabora con l’Istituto Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).
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