Edizioni a Stampa Catalogo 2014 2024
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6 giorni fa
Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note. Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato. Parametrazione a 100 riferito agli Stati dell'Asia. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:istitutobastroazzurro@istitutonastroazzurro.org)
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![]() Il riposizionamento della USS Carl Vinson e il rafforzamento del dispositivo di sicurezza sul fronte cinese del confine tra le due Repubbliche popolari si potrebbero quindi interpretare come un ennesimo momento di una crisi politico-diplomatica decennale a intensità intermittente. Tuttavia, comparando gli eventi odierni con il passato e contestualizzandoli alla luce dei profondi mutamenti che stanno sconvolgendo lo scenario internazionale, emerge un quadro assai più inquietante. L’escalation militare per la prima volta appare reale e addirittura imminente, mentre i contrappesi strategici a un intervento unilaterale Usa si dimostrano improvvisamente fragili e aleatori. Il quadro tattico Non è la prima volta che la USS Carl Vinson solca le acque limitrofe alla penisola coreana. Nel corso degli ultimi anniil Pacifico occidentale, il Mar Cinese e il Mar Giallo hanno ricevuto periodicamente la visita di super-portaerei classe Nimitz: la USS Nimitz, la USS George Washington o la USS Ronald Reagan, che con il suo gruppo da battaglia è di stanza presso la base navale di Yokosuka, lungo le coste sud-occidentali del Giappone. Una complessa catena di eventi, però, assegna al riposizionamento del Carrier Strike Group One una valenza del tutto nuova. A partire da gennaio 2016 gli F-22 Raptor di stanza a Elmendorf, Alaska, hanno iniziato a fare la spola tra la base Usa, quella giapponese di Yokota e quella australiana di Tindal. Il Raptor è l’unico velivolo al mondo con capacità stealth di V generazione ed è stato appena testato in Siria, dove il Pentagono ha messo alla prova il suo ‘pupillo’, ancora digiuno di un vero e proprio battesimo del fuoco, contro sistemi antiaerei che potrebbero avere caratteristiche molto simili, se non superiori, a quelli nordcoreani. Le straordinarie capacità del Raptor si aggiungono a quelle dei B-1 e B-2, altre due punte di diamante dell’arsenale Usa, che sovente decollano dalla base di Guam per sorvolare la regione. Mentre la capacità di proiezione degli Usa nell’area si è andata progressivamente rafforzando, una serie di esercitazioni congiunte tra la US Navy, le forze armate giapponesi e quelle sudcoreane hanno testato, con successo, la capacità dei rispettivi dispositivi antimissile di intercettare missili a corto e medio raggio, minacciando di incrinare il meccanismo di deterrenza che garantisce, almeno teoricamente, il fragile equilibrio regionale. All’inizio del mese mese scorso il Governo statunitense ha annunciato di aver inviato le prime componenti del Thaad (Terminal High Altitude Area Defense) in Corea del Sud, aggiungendo così l’ultimo tassello all’ombrello antimissile che copre tutte le principali basi americane nella regione e completando inoltre l’accerchiamento del regime nordcoreano. Il quadro strategico L’argine naturale a un’escalation individuato, talvolta aprioristicamente e fideisticamente, dalla letteratura specializzata non è però di natura militare e di ordine tattico, ma di natura politica e di ordine strategico. Per lungo tempo, infatti, la gran parte degli esperti internazionali ha identificano nella Cina di Xi Jinping il convitato di pietra al tavolo della crisi, nonché l’adeguato contraltare alle tentazioni interventiste statunitense. Improvvisamente, la Cina si scopre troppo debole o troppo poco interessata per contenere la pressione Usa. Mettere a confronto le parole con cui a novembre del 2013 il presidente cinese promulgò unilateralmente l’Adiz (Air Defense Identification Zone) con le dichiarazioni odierne risulta, infatti, impietoso. L’approccio assertivo e muscolare che ha contraddistinto sin dall’inizio la presidenza di Xi si stempera improvvisamente in quelle che, con una certa malizia, potrebbero essere interpretate come docili suppliche agli Usa perché “rimangano calmi ed esercitino moderazione”, mentre contemporaneamente il governo cinese cerca di fare pressione su Pyongyang sospendendo la cooperazione economica. Gli unici movimenti militari significativi si hanno lungo il confine sino-coreano, dove Pechino ha rischierato circa 175.000 uomini in pochi giorni. Evidentemente senza alcun intento minaccioso. Ma un rafforzamento che non ha precedenti nella storia recente, fatta di rischieramenti tempestivi ma dal valore simbolico. La svolta protezionistica paventata dal nuovo presidente statunitense ha messo a nudo contraddizioni della globalizzazione a lungo sottaciute, imponendo una rapida reinterpretazione della struttura del commercio globale e dei conseguenti rapporti di forza internazionali. Venuto meno il contrappeso cinese, sempre che vi sia mai stato, l’opzione militare appare improvvisamente reale; e le dichiarazionidi Trump suonano drammaticamente come un ultimatum al regime nordcoreano. Lo stile di Trump Da molte parti nel corso dei suoi due mandati si erano levate critiche alla politica estera di Obama, accusato di debolezza. Trump vuole affermare la differenza del suo approccio rispetto a quello del predecessore e lo fa nella maniera più semplice e teatrale possibile, senza alcun senso di responsabilità nei confronti del contesto internazionale, fedele al suo credo isolazionista ed eccezionalista. L’intervento in Siria è stato il primo atto, ma la piece trumpiana si nutre di continui rilanci, di un simbolismo dissacrante e iconoclasta. La Corea del Nord appare quindi il teatro ideale su cui mettere in scena il coupe de theatre che potrebbe segnare così precocemente il suo mandato. Uno dei gruppi da battaglia più potenti di tutta la US Navy, composto dalla USS Carl Vinson, che imbarca i temibili F-18 Super Hornet e dispone del primo centro di controllo per Uav imbarcato, da due incrociatori classe Ticonderoga e dal Destroyer Squadron 1, che dispone di cacciatorpediniere classe Arleigh Burke, incrocia al largo della penisola coreana. Sia gli incrociatori che le cacciatorpediniere sono equipaggiate con il sistema di combattimento integrato Aegis, che garantisce loro la possibilità di intercettare missili balistici a corto e medio raggio, oltre a integrare le capacità di attacco. Cacciatorpediniere giapponesi classe Kongo, anch’esse equipaggiate con sistema di attacco integrato Aegis, sono in procinto di unirsi alla squadra navale statunitense. Complessivamente, il gruppo da battaglia Usa dispone di quasi 300 celle per missili da crociera. È altamente probabile, inoltre, che anche sottomarini nucleari e bombardieri strategici pattuglino le acque e i cieli della regione. Difficile interpretarla come una parata. Improvvisamente, la Corea del Nord si scopre nuda. O quasi. Oltre al basso profilo le rimangono solo poche opzioni. Folli, fatalmente controproducenti e dall’esito incerto. Le voci su un test nucleare programmato per il fine settimana, in coincidenza con i festeggiamenti per il 105° anniversario della nascita di Kim Il-sung, si rincorrevano oramai da giorni: il tempismo dell’exploit statunitense non è casuale. Se i preparativi erano già in corso, infatti, la mossa Usa mette Kim Jong-un in una posizione molto difficile. Tutto è pronto. Ma non è detto che il ‘gran finale’ vada in scena. Enrico Mariutti, laureato in storia antica presso la Sapienza, ha conseguito un Master di II livello in Geopolitica e Sicurezza Globale; attualmente collabora con l’Istituto Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). | ||||||||
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![]() Il nuovo regolamento si aggiunge alle misure di antiterrorismo adottate fino ad ora e mostra che Pechino è ancora in cerca di una strategia efficace contro la radicalizzazione della minoranza uigura, composta da 10 milioni di musulmani turcofoni. Nel complesso, può sembrare che la Cina stia tentando un approccio multilivello, associando all’intervento statale la partecipazione popolare, in una sinergia fondata sulla “guerra del popolo”. La Repubblica popolare avrebbe dunque capito che la mera repressione coercitiva non sia la strategia migliore da applicare nella regione, visti gli scarsi risultati ottenuti. Un’analisi accurata, infatti, rivela che le cause di radicalizzazione derivano in primis da problemi economici e di integrazione. Il ritorno dello Stato e la guerra del popolo Le norme rivelano chiaramente l’intenzione di salvaguardare il carattere secolare della società cinese. Il nuovo provvedimento proibisce un elenco di comportamenti che potrebbero diffondere il “fanatismo”, tra i quali indossare il niqabo barba di lunghezza “anormale”. Sono quindi vietate pratiche ritenute “pericolose”: si ribadisce, ad esempio, l’esigenza di permettere ai bambini la frequenza delle scuole pubbliche, accanto all’obbligo di conformarsi alle politiche di pianificazione familiare, in combinazione con il divieto di contrarre matrimonio unicamente tramite cerimonie religiose. Sebbene a prima vista il provvedimento sembri mirato a contenere l’Islam radicale, tra le righe compare la chiara intenzione del governo di riportare la regione dello Xinjiang sotto l’influenza della capitale, così da combatterne le tendenze separatiste. La pervasività del regolamento, motivata come conseguenza necessaria di fronte a un estremismo radicale lesivo per la popolazione, vuole in realtà riaffermare la presenza dello Stato e l’unità statale, in particolare tra i 56 gruppi etnici, principio fondamentale anche nella Costituzione. Nell’ottica di Pechino, tuttavia, l’intervento della legge si dovrà combinare con la partecipazione attiva dei cittadini. Il regolamento regionale richiama la legge nazionale sul terrorismo, che sancisce il principio della “guerra del popolo” e dispone per organizzazioni e individui l’obbligo di assistenza e cooperazione con le autorità. L’efficacia di tale strategia, infatti, dipende dal coordinamento tra potere pubblico e organizzazioni civiche: l’adesione volontaria di civili nelle varie comunità e minoranze etniche incoraggerebbe l’intera popolazione a collaborare nella prevenzione di attività terroristiche. Il principio della “guerra del popolo” fu utilizzato con risultati positivi già nell’agosto 2014, quando più di 30 mila residenti nella prefettura di Hotan, nello Xinjiang, furono mobilitati per individuare dieci sospetti terroristi. Questo principio e la strategia derivata si basano sull’idea che la popolazione, qualora stimolata a farlo, partecipa volontariamente alla lotta al terrorismo perché può trarvi un beneficio impareggiabile, dato che vi convive in stretto contatto e ne riceve danni duraturi nel tempo. Incentivi economici e sconti di pena Nel febbraio scorso, le autorità dello Xinjiang hanno incrementato le ricompense pecuniarie in cambio di informazioni, per un totale di 100 milioni di yuan. A marzo, invece, sono stati promessi sconti o esenzioni di pena a chi confessa determinati crimini, dalla pianificazione di attacchi terroristici all’incitazione al terrorismo o separatismo. Inoltre, chi consegna spontaneamente armi, esplosivo o munizioni alle autorità, può ricevere somme di denaro proporzionali. Questi provvedimentifanno seguito ad altri interventi da parte del governo centrale, che dopo gli episodi del 2009 ha adottato diverse misure per stabilizzare la regione e combattere il separatismo, non solo per mezzo di misure punitive ma anche con aiuti economici ed investimenti (soprattutto nel settore tessile) volti a diminuire lo scontento della popolazione uigura. Tra le cause remote degli attriti tra l’etnia degli uiguri e quella degli han (la più diffusa in Cina) non devono annoverarsi solo il sostanzioso aumento di cinesi Han negli ultimi 60 anni e le diversità tra le identità culturali. Studi recenti mostrano infatti come le forti disparità - non solo di reddito o standard di vita, ma anche di livello di istruzione e accessibilità ai servizi sanitari - abbiano ampliato il divario tra uiguri e han, strettamente legato a fattori socio-economici. I primi, autoctoni della regione, cercano quindi una soluzione nella rottura con Pechino. La centralità della regione Lo Xinjiang ricopre tuttavia un ruolo centrale per la Cina dal punto di vista energetico, economico e strategico, soprattutto in una prospettiva di lungo periodo; la Repubblica popolare è quindi intenzionata a mantenere un controllo stabile e duraturo sulla regione. La strategia repressiva adottata dopo il 2009 non ha però prodotto risultati, incrementando invece la radicalizzazione tra gli uiguri. Le nuove modalità, soprattutto quelle che cercano il contributo attivo della popolazione, non paiono inserite in un piano di lungo periodo che possa affrontare le cause reali del malcontento diffuso tra la popolazione. Sembra piuttosto che le autorità abbiano rinunciato ad elaborare una vera e propria tattica, e stiano invece tornando a misure di tipo punitivo e coercitivo. Le possibilità di riuscita di una strategia frammentata e di breve periodo sono molto basse; certo è che le autorità, per ottenere risultati positivi e duraturi, dovrebbero tenere conto delle peculiarità dello Xinjiang e delle cause profonde delle frizioni tra le due comunità. Paolo Recaldini è studente della laurea magistrale congiunta in International Security Studies presso la Scuola Superiore Sant'Anna e l'Università degli Studi di Trento. |