Negoziato sul nucleare Virata della Francia sull’Iran Jean-Pierre Darnis 15/11/2013 |
L’intervento a gamba tesa con cui il ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, è entrato nelle trattative sul nucleare iraniano ha creato scompiglio in un negoziato dominato fino allora dagli americani.
Rendendo esplicite alcune riserve occidentali sul reattore ad acqua pesante di Arak, Fabius ha di fatto vanificato il clima di compromesso delle ultime settimane. I sostenitori della linea dura, Israele o falchi americani in testa, si sono congratulati con Parigi, apparsa come baluardo dell’intransigenza occidentale e molti commentatori non hanno esitato a parlare di una virata neo-con dei socialisti francesi.
Alleato riluttante
Fa sorridere pensare che nel 2003 la stessa Francia era la bestia nera degli Stati Uniti per la sua opposizione all’intervento in Iraq. Certo, all’epoca alla guida della diplomazia transalpina c’era Dominique de Villepin, oggi c’è Laurent Fabius.
Lo stile si sarà evoluto, non abbiamo più il lirismo del ministro-scrittore, ma la visione è rimasta la stessa. La Francia rivendica la sua autonomia di giudizio, confermandosi un “alleato riluttante” (reluctant ally), come la definiscono gli analisti statunitensi. A muoverla è, in realtà, un calcolo razionale.
È da mesi che Parigi difende il campo sunnita nell’ambito del conflitto siriano. La Francia aveva maturato la determinazione ad intervenire in Siria sia per motivi interni - la volontà di aiutare i siriani ad autodeterminarsi - che per motivi esterni - la volontà di apparire come un “security provider” affidabile per le petro-monarchie del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa.
Lezione
La Francia ha vissuto come un tradimento lo stop statunitense all’intervento nel conflitto siriano, ma, incapace di agire da sola, ha dovuto ingoiare il rospo e oggi non è disposta a fare sconti alla diplomazia statunitense. Sentendosi esclusa dalle trattative in corso, ha scelto di smuovere le acque anche per far sentire la propria voce.
È anche un’ottima occasione per mostrare agli amici del Golfo, economicamente strategici, che Parigi rimane il loro campione nella zona, Fra gli effetti collaterali, questo stop è gradito anche a Israele. Non che questo sia un obiettivo centrale della politica estera francese, ma può tornare sempre utile.
Fornitrice di tecnologia ai tempi dello Shah, la Francia vanta una buona conoscenza tecnica del dossier nucleare iraniano. Il suo parere in materia è certamente fondato. Ma, al di là dell’expertise, c’è un problema di posizionamento a medio e lungo termine. Nel corso della storia, la Francia è stata spesso vicina all’Iran, come dimostra l’alleanza franco-persiana del 1807.
Certamente il rapporto con l’Iran risponde a una dinamica culturale e politica più complessa rispetto a quella con i regimi arabi sunniti della regione. Oggi, la Francia sceglie di puntare tutto sul Golfo ma, mettendo a repentaglio il negoziato con l’Iran, rischia di ripetere l’errore commesso recentemente quando ha chiuso la porta dell’Unione Europea alla Turchia.
Limiti
Ci si potrebbe chiedere se la politica estera francese non stia raggiungendo un pericoloso limite. Certamente la missione Serval in Mali è stata un successo militare: concludendo il ciclo interventista Sarkozy-Hollande, ha illustrato le capacità del paese di svolgere in modo quasi autonomo un’operazione limitata, ma anche ad alta intensità di combattimenti in Africa.
La credibilità militare francese si è molto rafforzata: in assenza del Regno Unito, Parigi sembra l’unica capitale occidentale, dopo gli Stati Uniti, capace di proiettare forze. Se ne giovano sia la sua posizione in Africa sia il suo rapporto con Washington. La normalizzazione della politica africana francese attuata da Hollande sta avendo tra l’altro effetti positivi, facendo uscire Parigi dal cono d’ombra di una politica neo-coloniale di lunga data.
Pericolosi segnali vengono però dal fronte interno. Il bilancio della difesa è sotto tiro e il ministero del Tesoro si oppone a fare nuovi debiti per finanziare le missioni estere. La Francia potrebbe quindi essere costretta a ripiegare le ali a causa delle ristrettezze finanziare. Il generale De Gaulle, amava dire “l’intendance suivra!”, ovvero la politica andrà avanti senza preoccuparsi delle risorse, ma ciò è oggi difficilmente concepibile.
Hollande in crisi
Siamo davanti a una grave crisi economica e politica e la presidenza Hollande sta annegando in un profondo marasma. Il presidente della Repubblica non riesce, o non vuole, imporre un riformismo interno che possa far recuperare alla Francia margini economici in Europa, mettendola in condizione di esercitare nuovamente un ruolo propositivo con la Germania.
Parigi oggi è tenuta sotto schiaffo da Berlino. Anzi, Berlino sta trattenendo gli schiaffi per non indebolire la zona euro, il che è quasi peggio. Il modello presidenziale francese ha raggiunto limiti fisiologici. L’idea gollista che un uomo solo possa reggere le sorti della nazione, è oggi largamente superata dalle nuove forme di governance europea e mondiale.
È in questo contesto che il qualunquismo dell’estrema destra sta guadagnando terreno. Uno spauracchio per le prossime elezioni al parlamento europeo. La Francia rischia l‘involuzione.
L’attivismo internazionale francese non deve pertanto trarre in inganno. Non siamo davanti a un’affermazione di rinnovata potenza, ma a una partita a scacchi nella quale si possono muovere ancora pedine, almeno fino a quando potranno sostenersi i costi di queste mosse.
Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e responsabile di ricerca dell’Area sicurezza e difesa dello IAI (@jpdarnis).
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Rendendo esplicite alcune riserve occidentali sul reattore ad acqua pesante di Arak, Fabius ha di fatto vanificato il clima di compromesso delle ultime settimane. I sostenitori della linea dura, Israele o falchi americani in testa, si sono congratulati con Parigi, apparsa come baluardo dell’intransigenza occidentale e molti commentatori non hanno esitato a parlare di una virata neo-con dei socialisti francesi.
Alleato riluttante
Fa sorridere pensare che nel 2003 la stessa Francia era la bestia nera degli Stati Uniti per la sua opposizione all’intervento in Iraq. Certo, all’epoca alla guida della diplomazia transalpina c’era Dominique de Villepin, oggi c’è Laurent Fabius.
Lo stile si sarà evoluto, non abbiamo più il lirismo del ministro-scrittore, ma la visione è rimasta la stessa. La Francia rivendica la sua autonomia di giudizio, confermandosi un “alleato riluttante” (reluctant ally), come la definiscono gli analisti statunitensi. A muoverla è, in realtà, un calcolo razionale.
È da mesi che Parigi difende il campo sunnita nell’ambito del conflitto siriano. La Francia aveva maturato la determinazione ad intervenire in Siria sia per motivi interni - la volontà di aiutare i siriani ad autodeterminarsi - che per motivi esterni - la volontà di apparire come un “security provider” affidabile per le petro-monarchie del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa.
Lezione
La Francia ha vissuto come un tradimento lo stop statunitense all’intervento nel conflitto siriano, ma, incapace di agire da sola, ha dovuto ingoiare il rospo e oggi non è disposta a fare sconti alla diplomazia statunitense. Sentendosi esclusa dalle trattative in corso, ha scelto di smuovere le acque anche per far sentire la propria voce.
È anche un’ottima occasione per mostrare agli amici del Golfo, economicamente strategici, che Parigi rimane il loro campione nella zona, Fra gli effetti collaterali, questo stop è gradito anche a Israele. Non che questo sia un obiettivo centrale della politica estera francese, ma può tornare sempre utile.
Fornitrice di tecnologia ai tempi dello Shah, la Francia vanta una buona conoscenza tecnica del dossier nucleare iraniano. Il suo parere in materia è certamente fondato. Ma, al di là dell’expertise, c’è un problema di posizionamento a medio e lungo termine. Nel corso della storia, la Francia è stata spesso vicina all’Iran, come dimostra l’alleanza franco-persiana del 1807.
Certamente il rapporto con l’Iran risponde a una dinamica culturale e politica più complessa rispetto a quella con i regimi arabi sunniti della regione. Oggi, la Francia sceglie di puntare tutto sul Golfo ma, mettendo a repentaglio il negoziato con l’Iran, rischia di ripetere l’errore commesso recentemente quando ha chiuso la porta dell’Unione Europea alla Turchia.
Limiti
Ci si potrebbe chiedere se la politica estera francese non stia raggiungendo un pericoloso limite. Certamente la missione Serval in Mali è stata un successo militare: concludendo il ciclo interventista Sarkozy-Hollande, ha illustrato le capacità del paese di svolgere in modo quasi autonomo un’operazione limitata, ma anche ad alta intensità di combattimenti in Africa.
La credibilità militare francese si è molto rafforzata: in assenza del Regno Unito, Parigi sembra l’unica capitale occidentale, dopo gli Stati Uniti, capace di proiettare forze. Se ne giovano sia la sua posizione in Africa sia il suo rapporto con Washington. La normalizzazione della politica africana francese attuata da Hollande sta avendo tra l’altro effetti positivi, facendo uscire Parigi dal cono d’ombra di una politica neo-coloniale di lunga data.
Pericolosi segnali vengono però dal fronte interno. Il bilancio della difesa è sotto tiro e il ministero del Tesoro si oppone a fare nuovi debiti per finanziare le missioni estere. La Francia potrebbe quindi essere costretta a ripiegare le ali a causa delle ristrettezze finanziare. Il generale De Gaulle, amava dire “l’intendance suivra!”, ovvero la politica andrà avanti senza preoccuparsi delle risorse, ma ciò è oggi difficilmente concepibile.
Hollande in crisi
Siamo davanti a una grave crisi economica e politica e la presidenza Hollande sta annegando in un profondo marasma. Il presidente della Repubblica non riesce, o non vuole, imporre un riformismo interno che possa far recuperare alla Francia margini economici in Europa, mettendola in condizione di esercitare nuovamente un ruolo propositivo con la Germania.
Parigi oggi è tenuta sotto schiaffo da Berlino. Anzi, Berlino sta trattenendo gli schiaffi per non indebolire la zona euro, il che è quasi peggio. Il modello presidenziale francese ha raggiunto limiti fisiologici. L’idea gollista che un uomo solo possa reggere le sorti della nazione, è oggi largamente superata dalle nuove forme di governance europea e mondiale.
È in questo contesto che il qualunquismo dell’estrema destra sta guadagnando terreno. Uno spauracchio per le prossime elezioni al parlamento europeo. La Francia rischia l‘involuzione.
L’attivismo internazionale francese non deve pertanto trarre in inganno. Non siamo davanti a un’affermazione di rinnovata potenza, ma a una partita a scacchi nella quale si possono muovere ancora pedine, almeno fino a quando potranno sostenersi i costi di queste mosse.
Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e responsabile di ricerca dell’Area sicurezza e difesa dello IAI (@jpdarnis).
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