Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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lunedì 20 febbraio 2017

TURCHIA: sempre più lontana dall'Europa

Modifica Costituzione
Turchia: verso il referendum presidenziale
Bianca Benvenuti
22/02/2017
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La data è stata fissata: il 16 aprile il popolo turco andrà alle urne per decidere con un referendum se approvare la modifica costituzionale proposta dal governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) per trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale, legittimando il già effettivo potere del presidente Recep Tayyip Erdoğan.

Un momento di svolta per Erdoğan
La riforma costituzionale cambierà la forma di governo del Paese, ampliando considerevolmente i poteri del presidente della Repubblica. La carica così riformata sarà rinnovabile per due mandati, di cinque anni l’uno; inoltre, al nuovo presidente sarà consentito di dichiarare lo stato d’emergenza, sciogliere le Camere, nominare ministri e funzionari del governo.

Secondo il nuovo assetto costituzionale, il presidente potrà mantenere il legame con un partito politico: una clausola essenziale per Erdoğan, che potrebbe così riassumere la guida dell’Akp, abbandonata dopo la sua elezione a presidente della Repubblica nel 2014.

Il partito di governo sostiene che la proposta darà al Paese un leader forte che potrà riportare stabilità in una Turchia martoriata da attacchi terroristici e da una guerra civile nel sud-est. Erdoğan si confermerebbe così uomo forte della Turchia, istituzionalizzando quello strapotere che ha costruito negli ultimi dieci anni.

In effetti, la proposta di riforma costituzionale è la cima della vetta nella scalata politica di Erdoğan, una proposta che ha il sentore di una riforma ad personam più che di un tentativo di riformare e dare maggiore stabilità al Paese. La riforma eliminerebbe in maniera definitiva il sistema di controllo politico, consegnando definitivamente la Turchia alla guida di una sola persona. A quel punto sarebbe difficile non utilizzare la parola dittatura.

Il fronte del Sì non è compatto
I diciotto emendamenti della riforma, approvati a dicembre dalla Commissione costituzionale, hanno ottenuto i voti necessari per essere sottoposti a parere popolare. Il partito di governo, che alle scorse elezioni ha ottenuto 317 seggi, ha potuto contare sull’appoggio del Partito del Movimento nazionalista (Mhp) per raggiungere i tre quinti del Parlamento necessari per far passare la riforma. Il Mhp, storicamente un partito ultranazionalista e lontano dagli ideali dell’Akp, è divenuto sin dalle ultime elezioni politiche il maggiore sostenitore del partito di governo in Parlamento.

Ma se la decisione di allearsi col più forte sembra politicamente accettata dai vertici di partito, non si può dire lo stesso della sua base. Molti sostenitori del Mhp sono, infatti, contrari alla riforma e potrebbero votare per il no: una frangia di deputati dissidenti si sono fatti portavoce di questo malcontento, lanciando la campagna “I nazionalisti votano No” lo scorso 18 febbraio. Anche tra i ranghi dell’Akp non c’è totale compattezza: alcuni conservatori non sono conviti della riforma, in particolare perché la considerano troppo personalizzata e su misura del presidente Erdoğan.

Molto più compatto il fronte del No, che vede schierati il Partito Popolare Repubblicano (Chp) e il filo kurdo Partito Democratico dei Popoli (Hdp), che ha boicottato le votazioni per la riforma come forma di protesta contro l’arresto dei suoi due co-leader. Secolaristi, kurdi, alcuni ultra-nazionalisti e (pochi) conservatori: se il fronte del No sarà in grado di fare delle proprie differenze interne la sua forza, questa potrebbe essere la sua carta vincente.

Una difficile campagna per il No
Il clima nel Paese è estremamente polarizzato e le pressioni da parte del governo sono molte. Il primo ministro Binali Yıldırım ha in più occasioni dichiarato che il fronte del No è composto da terroristi che non vogliono l’unità del Paese. A poco sono valse le successive maldestre smentite per riportare l’attenzione sull’importanza di un voto popolare non condizionato.

Il messaggio di Ankara è chiaro: o con noi o contro di noi. Mentre continuano le purghe iniziate a seguito del tentato colpo di stato dello scorso luglio, gli arresti di giornalisti, accademici e funzionari pubblici ricordano ogni giorno quello che può succedere a schierarsi dalla parte “sbagliata”.

Il campo del No non avrà una campagna elettorale semplice. Mentre Erdoğan ha mobilitato tutte le risorse a sua disposizione, è anche chiaro che le purghe degli ultimi mesi lasciano pochi strumenti all’opposizione. Con la stampa e i media appiattiti sulle posizioni del governo, sarà difficile che la campagna si svolga in un clima di par condicio. Inoltre, uno dei protagonisti della campagna per il No, il filo kurdo Hdp, con i suoi leader e molti membri in prigione, non riuscirà ad esprimere a pieno la sua capacità di fare campagna contro la riforma.

Già sono stati registrati numerosi attacchi contro chi faceva campagna per il No: per citarne uno, il 12 febbraio Fahrettin Yokuş, presidente della Confederazione dei Sindacati turchi è stato attaccato ad Ankara con colpi di arma da fuoco dopo aver dichiarato di essere contro la riforma costituzionale. Il 25 febbraio il partito di governo Akp annuncerà pubblicamente gli eventi e iniziative a supporto del Sì, in un clima intimidatorio che suggerisce che il voto del 16 aprile sarà difficilmente un voto democratico.

Bianca Benvenuti è stata visiting researcher, Istanbul Policy Centre (IPC). Durante il suo periodo di ricerca presso lo IAI, si è occupata di relazioni Ue-Turchia e di crisi migratorie.

lunedì 13 febbraio 2017

Pacifico: verso la instabilità

Asia-Pacifico
Trump, TPP e frammentazione dell’economia
Stefano Pelaggi
23/02/2017
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La prima grande mossa di politica estera economico-commerciale del neo-presidente Usa Donald Trump è stata la decisione di formalizzare il ritiro dal Trattato di libero scambio per le economie del Pacifico.

Il Trans-Pacific Partnership era il principale strumento commerciale della politica obamiana nel Pacifico e rappresentava un tassello centrale nella cosiddetta strategia del Pivot to Asia. La scelta di Trump, quindi, conferma la volontà del presidente di adottare una nuova strategia di contenimento per la crescente espansione dell’economia cinese.

Trump ha finora fornito pochi elementi concreti per capire come intende promuovere il commercio nell’area del Pacifico. La scelta di favorire gli accordi bilaterali, più volte menzionata nei giorni immediatamente successivi alla decisione del ritiro dal TPP, è legata alla volontà di aumentare la produzione in territorio americano su cui in il neo presidente ha incentrato la sua campagna elettorale. Una dinamica non inedita: da decenni gli Stati Uniti usano di fatto la leva delle restrizioni all’import per aumentare gli investimenti giapponesi, coreani e taiwanesi sul proprio territorio.

Alcuni analisti hanno sottolineato come eventuali accordi inter statali potrebbero costituire una modalità proficua, almeno nel breve termine. Gli Stati Uniti restano il principale importatore mondiale, con un deficit che nel 2016 ha superato 600 miliardi di dollari. In queste condizioni Washington si trova in una ovvia posizione privilegiata in qualsiasi trattativa bilaterale con le varie nazioni della regione.

Xi Jinping paladino della globalizzazione a Davos 
La volontà di Trump di proteggere i prodotti e le merci statunitensi potrebbe passare per una legge, già al vaglio dei legislatori repubblicani, per tassare le importazioni. Una soluzione che costituirebbe un enorme problema per Pechino: la sola ipotesi di una “border tax” ha già generato importanti reazioni nella regione del Pacifico.

Il recente intervento di Xi Jinping al 47° Forum economico di Davos, primo leader cinese a intervenire al WEF, è la diretta conseguenza dei primi passi dell’amministrazione di Trump: il presidente cinese, nell’inedito ruolo di profeta della globalizzazione, ha ripetutamente sottolineato la necessità di scambi economici sempre più aperti.

Gli analisti concordano sulla possibilità che la minaccia delle sanzioni nei confronti dell’import di prodotti finiti negli Stati Uniti potrebbe essere un modo per il presidente Usa di resettare le relazioni con Pechino da una posizione di vantaggio.

Il futuro del TPP: Australia e Nuova Zelanda
Tuttavia, il futuro del TPP senza Washington appare molto complesso: il ritiro del principale partner economico ha compromesso seriamente le prospettive dell’accordo. Da parte messicana e neozelandese la volontà di procedere all’attuazione del trattato senza gli Stati Uniti è stata espressa in maniera molto chiara.

In particolare la Nuova Zelanda, vera e propria promotrice dell’accordo prima che Washington se ne appropriasse, vuole continuare nella procedura di formalizzazione e implementazione del TPP.

La posizione australiana è più complessa, i media hanno espresso ripetutamente l’idea che un TPP 12 Minus One costituirebbe un totale impoverimento dell’accordo stesso, in quanto gli Stati Uniti restano il principale mercato dove si collocano i beni dei Paesi aderenti all’accordo.

Il supporto di Canberra nel medio termine a un TPP senza gli Stati Uniti non è certo: il sostegno australiano è strettamente legato all’appoggio dell’attuale premier, mentre entrambi i principali schieramenti politici hanno espresso forti perplessità sul Trans Pacific Partnership.

Il Giappone e l’incognita Abe
Il ruolo del Giappone, che rappresenta la principale economia dei paesi che sostengono il TPP, sarà fondamentale per il futuro dell’accordo. Nel mese di febbraio Shinzo Abe è stato ricevuto da Trump nel primo incontro ufficiale del neopresidente con un premier straniero; e il segretario alla Difesa statunitense James Mattis si è recato in Giappone.

A riprova della necessità sia di Tokyo sia di Washington di creare un nuovo canale comunicativo all’indomani della campagna elettorale in cui Trump ha rivolto numerose accuse al Giappone, di fatto riportando la competizione economica tra i due Paesi indietro di trenta anni.

Un TPP senza la partecipazione degli Stati Uniti rappresenta, agli occhi di Tokyo, uno strumento senza valore che può fortemente danneggiare gli scambi commerciali nipponici sia con la Cina che con la Corea del Sud, grande assente dal Trans-Pacific Partnership.

Il Giappone ha chiaramente dichiarato, attraverso vari membri dell’esecutivo, che il TPP svuotato dalla presenza statunitense non può essere considerato un’opzione plausibile. L’eventuale ritiro di Tokyo segnerebbe in maniera definitiva il fallimento dell’accordo: quindi, le esigue possibilità di sopravvivenza del TPP sono legate a un allargamento degli Stati membri.

L’allargamento degli Stati membri
Le opzioni sono una inclusione della Cina e della Corea del Sud nell’accordo o addirittura un’ipotesi che prevede l’ulteriore ingresso dell’India, soluzioni fortemente appoggiate dai membri latino americani e dalla Nuova Zelanda.

L’idea di un TPP che includa la Repubblica Popolare Cinese, che si configurerebbe come una vera e propria eterogenesi dei fini del progetto obamiano, presenta un elevato grado di complessità ed è stata evocata da vari attori in maniera provocatoria rispetto al ritiro statunitense.

La composizione del parlamento giapponese e la recente svolta in politica estera di Abe non sono compatibili con una accettazione dell’ingresso di Pechino nel TPP: l’attuale esecutivo di Tokyo ha mostrato forti segnali di intolleranza verso qualsiasi tipo di accordo formale con la Cina.

Gli obblighi e le regole legate all’ingresso nel TPP, particolarmente in materia di proprietà intellettuale, diritti dei lavoratori e interventi statali sui mercati, costituiscono degli elementi difficilmente superabili da Pechino.

La Cina ha sinora dimostrato uno scarso interesse nella gestione economica e politica con le organizzazioni e gli organismi internazionali: esemplare in questo senso il rapporto con l’Unione europea, ma anche la funzione sporadica e strumentale che Pechino adotta sia nei confronti dell’Asia-Pacific Trade Agreement sia dell’Asia-Pacific Economic Cooperation, preferendo sistematicamente il canale della trattiva bilaterale.

L’estrema fragilità politica coreana non permetterebbe a Seul una mossa così radicale, in particolare per un accordo che è sempre stato giudicato come una cornice inutile e ridondante per l’economia della Corea del Sud.

Una eventuale adesione indiana sarebbe ostacolata dagli obblighi in materia di diritti umani e regolamentazione del mercato del lavoro, che sussistono anche per la Cina, e dalla possibile contestazione di molti Paesi membri che interpretano l’ulteriore allargamento come un indebolimento della capacità operativa del TPP.

Possibili scenari futuri
La decisione di Trump ha creato una frammentazione nella direzione dell’economia del Pacifico e la Cina non è interessata a prendere il posto lasciato vacante dal suo principale competitor economico e strategico.

Piuttosto potrebbe voler creare una cornice legislativa per organizzare gli scambi commerciali nel Pacifico, diretta principalmente alle economie emergenti, in cui si troverebbe ad agire in un ruolo apicale, e lasciare agli accordi bilaterali la gestione degli scambi con le nazioni sviluppate.

In maniera da un lato di evitare una normativa eccessivamente rigida, incompatibile con le esigenze politiche e industriali di Pechino, e dall’altro di potere negoziare con le principali economie della regione in posizione di forza grazie all’enorme attrattività del mercato cinese. Una dinamica che sembra essere molto simile alla strategia economica e politica del presidente Trump.

Stefano Pelaggi è Docente a Sapienza Università di Roma e Research Fellow presso il Centre for Chinese Studies a Taipei.

venerdì 10 febbraio 2017

Un Triangolo da studiare: Malesa-Cina Coree

Asia
Tutte le schermaglie fra Coree, Malesia e Cina
Serena Console
23/02/2017
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Da poco più di un mese, nel triangolo Pyongyang/Pechino/Kuala Lumpur è in scena quello che potrebbe essere un nuovo copione della serie “Games of Thrones”. I riflettori, però, sono tutti puntati sulla famiglia al timone della Corea del Nord.

La morte di Kim Jong-nam, fratellastro del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, lascia aperti numerosi interrogativi per le autorità malesi e l’opinione pubblica internazionale.

Proprio nella capitale della Malesia, infatti, Kim Jong-nam è stato avvelenato da due donne mentre era in procinto di imbarcarsi per Macao, città in cui abitava da oltre cinque anni con la seconda moglie. Al momento del decesso, avvenuto durante il trasporto in ospedale, aveva con sé un passaporto a nome di Kim Chol. Il fratellastro dell’uomo più potente della Corea del Nord pare fosse abituato a usare documenti falsi.

La protezione di Pechino
Il 2001 è un anno infausto per Kim Jong-nam, fino a quel momento considerato il probabile successore di Kim Jong-il, il leader supremo della Repubblica popolare democratica di Corea. Le sorti della sua ascesa politica subiscono tuttavia una brusca battuta d’arresto quando viene fermato in Giappone in possesso di un falso passaporto dominicano.

Da allora, Kim Jong-nam ha trascorso una vita da esule tra Macao, Hong Kong, Singapore e Malesia, sfuggendo a numerosi tentativi di omicidio. Dal 2012 - pochi mesi dopo il passaggio di potere nelle mani del fratellastro, il più giovane Capo di Stato al mondo - pare fosse sotto la lente dei servizi segreti nordcoreani, a causa di alcune dichiarazioni rilasciate al quotidiano giapponese Tokyo Shimbun, in cui esprimeva le sue critiche rispetto al salto dinastico alla terza generazione.

Stando ad alcune dichiarazioni di Lee Byung-ho, capo dell’intelligence della Corea del Sud, il fratellastro di Kim Jong-un era da anni sotto la protezione di Pechino. Si tratta di affermazioni che, però, devono essere analizzate nell’ottica delle tensioni in corso da decenni fra le due Coree, e che non ricevono conferma da parte del governo cinese.

Il Global Times, tabloid del Quotidiano del Popolo, il principale organo di stampa cinese, difende a spada tratta l’alleato nordcoreano e stigmatizza quelle che considera speculazioni del governo di Seul per rovesciare il regime di Kim. Ma i servizi di intelligence sudcoreani incalzano e definiscono l’omicidio dell’esule nordcoreano un “attacco terroristico” progettato dal leader di Pyongyang.

La Cina mantiene invece un atteggiamento ambivalente: da un lato “segue con attenzione la vicenda”, secondo quanto dichiarato dal portavoce del ministro degli Esteri; dall’altro, ha sospeso tutte le importazioni di carbone dalla Corea del Nord fino alla fine del 2017, nel rispetto dell'ultima tornata di sanzioni approvata dalle Nazioni Unite lo scorso novembre.

Secondo i dati rilasciati dal Palazzo di Vetro, le esportazioni della Corea del Nord verso la Cina hanno rappresentato oltre l’85% nel 2015: di questa fetta, più della metà riguarda l’esportazione di antracite, una varietà di carbone.

La misura decisa da Pechino mette senza dubbio in crisi l’economia del Regno eremita, per cui il Paese del Dragone è il primo partner commerciale, e minaccia di incrinare i già deboli rapporti tra Corea del Nord e Cina.

Lo spionaggio in rosa di Pyongyang
Molti particolari attorno alla morte di Kim restano ancora da confermare. Ad oggi, sono state arrestate quattro persone, tra cui due donne, mentre continuano le ricerche di altri sette, la maggior parte nordcoreani.

Secondo quanto riportato dalla China Press, l’agenzia di stampa malese in lingua cinese, una delle due arrestate, Siti Aishah, avrebbe creduto di partecipare ad un programma televisivo: durante l’interrogatorio, infatti, avrebbe ribadito l’estraneità al piano omicida.

Ma c’è da domandarsi che ruolo ha svolto l’altra donna in manette, la vietnamita Doan Thi Huong. Forse le indiscrezioni dei servizi segreti sudcoreani non sono così poi assurde se si considerano le numerose donne che hanno fatto la storia dello spionaggio nordcoreano: da Kim Hyon-hui, che nel novembre 1987 piazzò una bomba ad orologeria su un aereo di linea sudcoreano in volo da Baghdad a Seul, a Won Jeong-Hwa, la Mata Hari della Corea del Nord, abile a carpire informazioni militari dagli ufficiali sudcoreani.

Senza dimenticare Lee Sun-sil: attualmente sepolta nel cimitero dedicato ai patrioti del Paese, creò e guidò nella Corea del Sud un ramo segreto del Partito del Lavoro di Corea, la forza dominante nel nord della penisola.

Le mediazioni di Kuala Lumpur
Il coinvolgimento delle autorità malesi nelle attività investigative, giudiziarie ed autoptiche stanno incrinando i rapporti tra Corea del Nord e Malesia. In un annuncio, Pyongyang ha rifiutato gli esiti dell’autopsia disposta dal governo malese e ha sollecitato l’immediato rientro della salma nel Paese per avviare investigazioni congiunte. L'identità del deceduto, infatti, non è ancora tecnicamente certificata.

Il richiamo a Kuala Lumpur dell’ambasciatore malese in Corea del Nord profila un ulteriore punto di collisione, anticipando quelli che sono i presupposti di uno scontro diplomatico, temibile per l’economica dello Stato eremita, per cui la Malesia è uno dei pochi partner nella regione.

Le relazioni economiche bilaterali, che ammontano ad appena 5 milioni di dollari, hanno avuto il merito di consolidare il potere della compagnia aerea nordcoreana, la Air Koryo, e hanno garantito la formazione a Kuala Lumpur di una piccola comunità di nordcoreani impegnati nella ristorazione, nell’edilizia e nel turismo: quest’ultimo settore è favorito dall’esenzione dei visti per i malesi che vogliono visitare il Paese di Kim.

Nell’analisi dello scacchiere geopolitico internazionale, inoltre, la Malesia svolge un ruolo di mediatore rilevante, perché intrattiene relazioni bilaterali sia con gli Stati Uniti sia con la Corea del Nord; una condizione che rende Kuala Lumpur zona franca per gli incontri diplomatici delle due controparti, soprattutto considerati i mancati rapporti di Kim Jong-un con le amministrazioni americane di qualsiasi colore.

Le reali motivazioni dietro l’omicidio di Kim Jong-nam sono ancora un mistero, ma non è difficile pensare alla fobica volontà del dittatore nordcoreano di consolidare il potere nel Paese eremita, eliminando le “mele marce” nel giardino di casa e di lanciare un monito di narcisismo politico agli occhi di Washington e Pechino.

Serena Console è stata stagista per la comunicazione dello IAI.

Cina: appesi a Twitter

Usa-Cina-Taiwan
Trump scaglia i repubblicani contro Pechino
Serena Console
05/02/2017
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Stando all’uso che ne fanno suoi autorevoli esponenti, Twitter è considerato un indicatore diplomatico affidabile nelle file del partito repubblicano statunitense. A gennaio, il senatore texano Ted Cruz, già battagliero sfidante di Donald Trump alle primarie repubblicane, ha cinguettato: “Sono onorato di aver incontrato la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen”.

L’incontro è avvenuto dopo che la leader taiwanese ha effettuato uno scalo tecnico a Houston, Texas, sulla via per il Centro America, dove l’attendevano gli incontri con i quattro alleati regionali di Taiwan: Honduras, Nicaragua, Guatemala ed El Salvador.

Il meeting di Tsai con il senatore Cruz e con il governatore del Texas Greg Abbott, anch’egli repubblicano, ha fatto però infuriare Pechino, che aveva precedentemente chiesto alle autorità statunitensi di negare il sorvolo alla leader di Taipei. La risposta di Cruz non si è fatta attendere: “La Repubblica popolare cinese deve capire che negli Stati Uniti decidiamo autonomamente chi incontrare. Questo non riguarda Pechino, ma la nostra relazione con l’alleato Taiwan”.

Nella città texana si è quindi discusso dell’opportunità di migliorare le relazioni bilaterali fra i due Paesi, a cominciare dagli scambi commerciali e dalla cooperaizone economica, specialmente nel settore agricolo.

La politica dell’“Unica Cina”
Pechino è il nuovo bersaglio della politica estera americana. A colpi di tweet, il neopresidente Trump si rivolge ai membri del Politburo accusandoli di aver approfittato dell’ultima fase della globalizzazione economica ai danni degli Stati Uniti. La minaccia dell’introduzione di una tassa sull’importazione di prodotti cinesi aumenta il risentimento della leadership cinese nei confronti della leadership repubblicana per il continuo affronto sulla questione taiwanese.

Il caso non si limita solo alla telefonata che Trump ha avuto con la presidente taiwanese lo scorso dicembre, ma anche all’intervista rilasciata all’emittente americana Fox News, in cui il tycoon aveva espresso la sua contrarietà alla politica dell’“Unica Cina”, pilastro su cui si sostengono le relazioni sino-americane.

È dal 1979 che gli Stati Uniti riconoscono infatti la Cina nel solo governo di Pechino. Da quel momento, Washington ha negato il riconoscimento diplomatico formale a Taiwan, che la Cina considera invece una provincia ribelle che tornerà, prima o poi, sotto l’ombrello politico di Pechino.

Eppure, un ulteriore segnale è stato inviato all’altra sponda del Pacifico in occasione dell’insediamento di Trump a Capitol Hill: a partecipare all’Inauguration Day c’era infatti anche una delegazione di undici politici taiwanesi, capeggiati dall'ex primo ministro dell'isola, Yu Shyi-kun.

Timori di guerra commerciale? 
Con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca si configura un nuovo assetto globale: il tycoon newyorkese cerca di consolidare il rapporto diplomatico con Vladimir Putin, mentre la Cina si presenta come leader della globalizzazione. Ne è stato un esempio il discorso di apertura del presidente cinese Xi Jinping al forum economico di Davos: per circa un’ora, il portavoce del “socialismo con caratteristiche cinesi” si è presentato al mondo come alfiere della globalizzazione e avversario di protezionismo e populismo.

Le metafore, tipiche della dialettica di Xi Jinping, hanno lasciato minimi margini di fraintendimento: il discorso era rivolto al 45° presidente Usa, sebbene il leader di Pechino non lo abbia mai menzionato.

In Svizzera, a difendere la posizione già critica di Trump, c’era il consigliere Anthony Scaramucci che ha assicurato: “Né gli Stati Uniti né la Cina vogliono una guerra commerciale”. L’amministrazione americana ha di certo ben presente l’ultimo dato rilasciato dall'Ufficio nazionale di statistica cinese: Pechino è ormai entrata nella cosiddetta epoca economica del “new normal”, dove la crescita del Pil non conosce più i numeri a doppie cifre del decennio d’oro, ma - nel penultimo trimestre del 2016 - si assesta a un 6,7%.

Un successo che è il risultato di accordi bilaterali con diversi Paesi, dell’incredibile progetto della Nuova Via della Seta per il miglioramento dei collegamenti e della cooperazione nella sfera eurasiatica, e dell’atteggiamento della leadership nella gestione delle crisi internazionali. Proprio in questo senso si comprende la condotta di non ingerenza negli affari interni degli altri Stati: Pechino pone poche prerogative di natura politica e mira a stabilire rapporti di natura economica, tralasciando la visione della democrazia dei vari Paesi.

Il futuro dell’Asia
Ma con Trump a Washington, cosa può succedere sull’altra sponda del Pacifico? L’imprevedibilità del nuovo presidente preoccupa Pechino, tanto che il Global Times - spin-off inglese del Quotidiano del Popolo - ha giudicato il nuovo inquilino della Casa Bianca “immaturo” in diplomazia e “molto superficiale” nella conoscenza delle relazioni tra Cina e Stati Uniti.

I delicati equilibri nell’area orientale si incrinano sotto lo sguardo di Taipei e Pechino. Dal giorno della vittoria di Trump, la Cina ha dimostrato fermezza davanti a ogni provocazione americana, ostentando la necessità di costruire una stabilità economica e politica dentro e fuori la Grande Muraglia.

Taipei non si vuole far cogliere impreparata, e nello stretto di Taiwan si tiene militarmente pronta a una possibile invasione cinese: a metà gennaio, per due giorni, sono state infatti condotte esercitazioni di simulazione di un possibile attacco da parte dell’esercito di Pechino.

Taipei è pronta a fronteggiarele minacce della seconda potenza economica mondiale, forte anche delle dichiarazioni rilasciate da John Bolton, ex ambasciatore di Bush all’Onu e oggi consigliere di Trump per la politica estera, secondo cui i militari statunitensi potrebbero essere spostati da Okinawa, in Giappone, a Taiwan in risposta a possibili incursioni di Pechino.

È difficile prevedere come si evolveranno i rapporti tra Cina, Stati Uniti e Taiwan: qualche indizio, però, potrebbe arrivare dai prossimi tweet. Stavolta, rispetto al passato, lanciati dall’account presidenziale, @POTUS.

Serena Console è stata stagista per la comunicazione dello IAI.