Mentre il presidente cinese Xi Jinping era impegnato ad Hangzhou a dimostrare il valore politico e il ruolo che Pechino vuole acquisire nel mondo, l’establishment cinese riceveva un sonoro ceffone da Hong Kong.
Nelle elezioni dell’ex colonia britannica, che servivano a disegnare il nuovo parlamentino (Legislative Council of Hong Kong, LegCo), non solo si è registrata la più grande affluenza al voto nella storia elettorale locale iniziata del 1998 (58%) , ma gli hongkonghini hanno fatto chiaramente sapere che non vogliono perdere il loro status, arrendendosi a diventare una filiale della madre patria.
L’ex colonia britannica ancora assetata d’indipendenza I leader della protesta del 2014, poi ribattezzata la rivoluzione degli ombrelli dopo essere stata Occupy central, sono entrati in parlamento, cavalcando lo slogan dell’indipendenza. E questo crea non pochi problemi a Pechino.
Il parlamento di Hong Kong conta 70 seggi, 35 dei quali vengono assegnati dal verdetto delle urne e il resto su scelta (diciamo cooptazione) anche di aziende, ma sempre dietro pressioni di Pechino. Questo perché il governo centrale cinese, quando nel 1997 ha preso in mano dagli inglesi Hong Kong, voleva assicurarsi una base su cui poteva contare per far passare idee e leggi.
Mai il legislatore cinese dell’epoca avrebbe potuto pensare che l’ex colonia un giorno si sarebbe rivoltata contro come è successo dal 2014 ad oggi. Gli indipendentisti e gli oppositori a Pechino hanno conquistato, infatti, più dei 24 seggi necessari per bloccare riforme costituzionali. E qui il mal di testa di Pechino che avrà vita non facile per imporre propri cambiamenti in vista del 2047, quando Hong Kong tornerà completamente sotto controllo cinese.
Fino ad allora, dovrebbe vigere il principio di “un paese due sistemi” che dovrebbe garantire una certa autonomia a Hong Kong. Da qualche anno a questa parte però, la pressione di Pechino sull’ex colonia britannica si è fatta sempre più forte, complici soprattutto gli ultimi due leader del governo locale (uno dei quali, Leung Chun-ying, derogando alla tradizione, ha addirittura giurato alla sua nomina in mandarino, lingua della capitale cinese e non i cantonese, parlato a Hong Kong), che non hanno perso occasione per ribadire la filiazione dell’ex colonia dalla “madre patria”.
Suffragio universale, non alla cinese Proprio sulla figura del capo del governo locale si sono accesi gli animi che hanno portato agli scontri nel 2014. Pechino aveva promesso che le prossime elezioni del 2017 sarebbero state le prime nelle quali la Cina avrebbe concesso il suffragio universale per la scelta del capo del governo locale (chief executive), come stipulato nella Legge Fondamentale, la mini-costituzione di Hong Kong.
Il progetto di riforma di Pechino prevedeva un suffragio universale “alla cinese”: i cittadini di Hong Kong avrebbero sì potuto eleggere il loro candidato preferito alla carica di capo dell’esecutivo locale, ma tra una rosa di due o tre nomi, scelti da un gruppo di 1200 persone per la quasi totalità vicine a Pechino.
Ad agosto 2014, l’annuncio di questa riforma (poi respinta), scatenò le proteste di larga parte dell’opinione pubblica hongkonghina, che sfociarono nell’autunno successivo in settimane di manifestazioni. Una Occupy Hong Kong che chiedendo un vero e proprio suffragio universale, catapultò l’ex colonia britannica sui media internazionali per il grande numero di partecipanti, soprattutto giovani universitari, che si battevano contro il potere di Pechino.
Un vento di cambiamento pericoloso per Pechino I leader di quella rivolta, tutti giovanissimi, siedono ora in parlamento, uno di loro è il più giovane deputato mai eletto e un altro il più votato in assoluto. Bisogna ora vedere se avranno la capacità politica di non restare fossilizzati sulle loro posizioni (ultimamente parlano solo di indipendenza da Pechino) o saranno in grado di riuscire a stringere alleanze con gli altri partiti anti Pechino, per portare a casa, passo dopo passo, risultati che allontanino la Cina da Hong Kong.
Qui, infatti, si potrebbe davvero realizzare quella piena autonomia che Pechino ha sempre promesso in altre regioni, come Tibet e Xinjiang, ma che non è mai stata realizzata. Per ora Pechino tace, segno che sta pensando a una soluzione.
La Nuova Cina, l’agenzia ufficiale Xinhua, ha riportato il comunicato dell’ufficio del Consiglio di Stato per gli affari di Hong Kong e Macao, nel quale si ribadisce la ferma opposizione a qualsiasi forma di indipendenza contraria alla costituzione cinese e alle altre leggi.
Ma i mal di testa restano e i vertici di Pechino dovranno dimostrare le capacità diplomatiche e di statisti che Xi Jinping ha voluto mettere in mostra ad Hangzhou per accreditarsi con il mondo. Altrimenti, da Hong Kong può spirare (ma è davvero una ipotesi remota) un vento di cambiamento in tutto il Paese. Ed è forse questo il timore maggiore per Pechino.
Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo (Twitter: @nellocats).
|
Nessun commento:
Posta un commento