Ue-Cina 40 anni di relazioni, tappe e risultati Nicola Casarini 06/05/2015 |
Sono passati 40 anni da quando, il 6 maggio 1975, la Comunità europea riconobbe ufficialmente la Repubblica popolare cinese a seguito del disgelo delle relazioni tra Washington e Pechino avvenuto qualche anno prima con il viaggio del presidente americano Richard Nixon in Cina.
All’epoca, la notizia del riconoscimento diplomatico tra Bruxelles e Pechino non fece le prime pagine dei giornali. La Comunità europea stava muovendo i primi passi e la politica estera era ancora di esclusiva competenza dei Paesi membri.
La Cina, a sua volta, era un Paese povero e in preda alle lotte di potere per la successione a Mao che, già malato, morira’ nel settembre del 1976. Quante cose sono cambiate da allora.
Oggi, le relazioni tra Europa e Cina sono tra le più importanti al mondo, avendo acquisito un significato strategico tale da renderle oggetto di attenta osservazione – e talvolta apprensione – da parte degli Stati Uniti.
Basti pensare alle recenti critiche di Washington verso i quattro grandi Paesi Ue - Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia - per aver aderito in qualità di soci fondatori alla nuova banca di sviluppo della Cina, la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib).
2003: la grande intesa
Il vero punto di svolta nelle relazioni tra Bruxelles e Pechino s’è verificato nel 2003, quando venne siglato il partenariato strategico e vennero adottate una serie di iniziative dal forte contenuto politico. Innanzitutto, le due parti si accordarono sui termini dello sviluppo congiunto di Galileo, il sistema di navigazione satellitare europeo alternativo al Gps americano.
A fianco di una maggiore cooperazione nel settore aerospaziale, vennero gettate le basi per il miglioramento delle relazioni nel campo della sicurezza e dell’industria della difesa. A tal fine, alcuni grandi Paesi europei - Germania e Francia in testa, ma anche Italia e Spagna - proposero di iniziare le discussioni sulla levata dell’embargo sulla vendita di armi alla Cina.
Secondo i sostenitori della levata dell’embargo, una tale iniziativa avrebbe dato significato strategico a un interscambio commerciale in continua crescita. Fu infatti in quegli anni - in concomitanza con l’allargamento della Ue ai Paesi dell’Europa centro-orientale - che Bruxelles divenne il più importante partner commerciale di Pechino, mentre la Cina divenne il secondo più importante partner commerciale della Ue, subito dopo gli Stati Uniti.
Gli europei furono, comunque, incapaci di trovare l’unità sulla questione dell’embargo e il Consiglio europeo del giugno 2005 decise di rimandarne sine die la sua soluzione, cosa che lasciò con l’amaro in bocca i dirigenti di Pechino.
L’elemento strategico del partenariato Ue-Cina non s’è però limitato alle questioni tecnologiche e della difesa - seppur importanti - ma ha coinvolto anche l’euro.
Nell’autunno del 2003 ci fu, infatti, un accordo tra gli europei e la Banca centrale cinese che portò Pechino a diversificare il suo paniere di riserve, aumentando in maniera graduale ma costante, negli anni a venire, la sua esposizione sulla moneta comune europea, diminuendo allo stesso tempo la sua esposizione verso il dollaro. Un processo che ha avuto importanti risvolti politici durante la recente crisi dei debiti sovrani.
Le relazioni Ue-Cina durante la crisi
Al contrario di alcuni settori dell’establishment finanziario americano che durante la recente crisi hanno speculato su una possibile disintegrazione della zona euro, la Cina ha continuato a sostenere - anche tramite interventi massicci sui mercati - la moneta comune europea.
Da agosto 2011, quando Standard & Poor’s ha declassato il rating sovrano degli Stati Uniti, la Cina ha accelerato il suo disinvestimento dal dollaro aumentando al contempo la sua esposizione sull’euro, portando la quota delle sue riserve detenute nella moneta comune europea dal 26% circa nel 2011, a circa un terzo agli inizi del 2015.
La Cina sembra riporre una sostanziale fiducia nella capacità di ripresa della zona euro e dei tentativi di riforma portati avanti da alcuni governi, in particolare quello italiano e francese.
Su questi paesi - in particolare l’Italia - si sono appuntati gli occhi di Pechino negli ultimi mesi. La Cina sta infatti investendo massicciamente nelle aziende europee con lo scopo di acquisire quel know-how e quelle tecnologie necessarie all’ammodernamento dell’industria cinese.
Focus sugli investimenti
Alla fine del 2014, la Cina aveva investito circa 54 miliardi di dollari in aziende quotate nelle borse europee, piazzandosi al quinto posto per entità degli investimenti, subito dietro al Giappone.
La Banca centrale cinese attraverso il suo braccio operativo - la State Administration of Foreign Exchange (Safe) - ha acquistato circa il 2% in otto tra le più importanti aziende italiane quotate in Borsa, tra le quali si annoverano:Fiat Chrysler Automobiles, Telecom Italia, Prysmian, Generali, Mediobanca, Saipem, Eni e Enel.
Il totale investito in Italia ammonta oggi a più di 6 miliardi di euro, corrispondente al 7% degli investimenti totali cinesi in Europa.
Il recente interesse per l’Italia e, più in generale, il sud Europa rientra nel più ampio progetto di Pechino di sviluppo della Via della Seta terrestre e della Via della Seta marittima del XXI secolo lanciato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013.
La Ue è oggi il primo partner commerciale di Pechino e il Mediterraneo, con al centro l’Italia, è considerato il naturale punto di arrivo della Via della Seta marittima.
L’Italia ha, pertanto la possibilità di diventare un’interlocutrice importante di Pechino. In questo, un ruolo lo gioca sicuramente la nomina a capo della diplomazia europea di Federica Mogherini. C’è inoltre un crescente interesse per il governo Renzi e i suoi progetti di riforma del Paese.
Il quarantennale che la vice-presidente della Ue ha festeggiato nella capitale cinese coincide con uno snodo importante dell’Agenda strategica di cooperazione tra Unione europea e Cina valida fino al 2020 siglata a Pechino nel novembre 2013: la possibile chiusura del negoziato bilaterale Ue-Cina sugli investimenti giunto oramai al settimo round.
Una svolta che potrebbe aprire la via, come richiesto da Xi Jinping espressamente durante la sua prima visita in Europa e alle istituzioni europee l’anno scorso, a un Fta che introdurrebbe una dinamica nuova nelle relazioni sino-europee. Si creerebbe un asse euroasiatico altrettanto significativo, sul piano economico-commerciale, di quello Atlantico e dell’area del Pacifico.
Quarant’anni dopo, è la Ue a far da apripista nel dialogo con la Cina.
Nicola Casarini è responsabile di ricerca Asia allo IAI.
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La Cina, a sua volta, era un Paese povero e in preda alle lotte di potere per la successione a Mao che, già malato, morira’ nel settembre del 1976. Quante cose sono cambiate da allora.
Oggi, le relazioni tra Europa e Cina sono tra le più importanti al mondo, avendo acquisito un significato strategico tale da renderle oggetto di attenta osservazione – e talvolta apprensione – da parte degli Stati Uniti.
Basti pensare alle recenti critiche di Washington verso i quattro grandi Paesi Ue - Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia - per aver aderito in qualità di soci fondatori alla nuova banca di sviluppo della Cina, la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib).
2003: la grande intesa
Il vero punto di svolta nelle relazioni tra Bruxelles e Pechino s’è verificato nel 2003, quando venne siglato il partenariato strategico e vennero adottate una serie di iniziative dal forte contenuto politico. Innanzitutto, le due parti si accordarono sui termini dello sviluppo congiunto di Galileo, il sistema di navigazione satellitare europeo alternativo al Gps americano.
A fianco di una maggiore cooperazione nel settore aerospaziale, vennero gettate le basi per il miglioramento delle relazioni nel campo della sicurezza e dell’industria della difesa. A tal fine, alcuni grandi Paesi europei - Germania e Francia in testa, ma anche Italia e Spagna - proposero di iniziare le discussioni sulla levata dell’embargo sulla vendita di armi alla Cina.
Secondo i sostenitori della levata dell’embargo, una tale iniziativa avrebbe dato significato strategico a un interscambio commerciale in continua crescita. Fu infatti in quegli anni - in concomitanza con l’allargamento della Ue ai Paesi dell’Europa centro-orientale - che Bruxelles divenne il più importante partner commerciale di Pechino, mentre la Cina divenne il secondo più importante partner commerciale della Ue, subito dopo gli Stati Uniti.
Gli europei furono, comunque, incapaci di trovare l’unità sulla questione dell’embargo e il Consiglio europeo del giugno 2005 decise di rimandarne sine die la sua soluzione, cosa che lasciò con l’amaro in bocca i dirigenti di Pechino.
L’elemento strategico del partenariato Ue-Cina non s’è però limitato alle questioni tecnologiche e della difesa - seppur importanti - ma ha coinvolto anche l’euro.
Nell’autunno del 2003 ci fu, infatti, un accordo tra gli europei e la Banca centrale cinese che portò Pechino a diversificare il suo paniere di riserve, aumentando in maniera graduale ma costante, negli anni a venire, la sua esposizione sulla moneta comune europea, diminuendo allo stesso tempo la sua esposizione verso il dollaro. Un processo che ha avuto importanti risvolti politici durante la recente crisi dei debiti sovrani.
Le relazioni Ue-Cina durante la crisi
Al contrario di alcuni settori dell’establishment finanziario americano che durante la recente crisi hanno speculato su una possibile disintegrazione della zona euro, la Cina ha continuato a sostenere - anche tramite interventi massicci sui mercati - la moneta comune europea.
Da agosto 2011, quando Standard & Poor’s ha declassato il rating sovrano degli Stati Uniti, la Cina ha accelerato il suo disinvestimento dal dollaro aumentando al contempo la sua esposizione sull’euro, portando la quota delle sue riserve detenute nella moneta comune europea dal 26% circa nel 2011, a circa un terzo agli inizi del 2015.
La Cina sembra riporre una sostanziale fiducia nella capacità di ripresa della zona euro e dei tentativi di riforma portati avanti da alcuni governi, in particolare quello italiano e francese.
Su questi paesi - in particolare l’Italia - si sono appuntati gli occhi di Pechino negli ultimi mesi. La Cina sta infatti investendo massicciamente nelle aziende europee con lo scopo di acquisire quel know-how e quelle tecnologie necessarie all’ammodernamento dell’industria cinese.
Focus sugli investimenti
Alla fine del 2014, la Cina aveva investito circa 54 miliardi di dollari in aziende quotate nelle borse europee, piazzandosi al quinto posto per entità degli investimenti, subito dietro al Giappone.
La Banca centrale cinese attraverso il suo braccio operativo - la State Administration of Foreign Exchange (Safe) - ha acquistato circa il 2% in otto tra le più importanti aziende italiane quotate in Borsa, tra le quali si annoverano:Fiat Chrysler Automobiles, Telecom Italia, Prysmian, Generali, Mediobanca, Saipem, Eni e Enel.
Il totale investito in Italia ammonta oggi a più di 6 miliardi di euro, corrispondente al 7% degli investimenti totali cinesi in Europa.
Il recente interesse per l’Italia e, più in generale, il sud Europa rientra nel più ampio progetto di Pechino di sviluppo della Via della Seta terrestre e della Via della Seta marittima del XXI secolo lanciato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013.
La Ue è oggi il primo partner commerciale di Pechino e il Mediterraneo, con al centro l’Italia, è considerato il naturale punto di arrivo della Via della Seta marittima.
L’Italia ha, pertanto la possibilità di diventare un’interlocutrice importante di Pechino. In questo, un ruolo lo gioca sicuramente la nomina a capo della diplomazia europea di Federica Mogherini. C’è inoltre un crescente interesse per il governo Renzi e i suoi progetti di riforma del Paese.
Il quarantennale che la vice-presidente della Ue ha festeggiato nella capitale cinese coincide con uno snodo importante dell’Agenda strategica di cooperazione tra Unione europea e Cina valida fino al 2020 siglata a Pechino nel novembre 2013: la possibile chiusura del negoziato bilaterale Ue-Cina sugli investimenti giunto oramai al settimo round.
Una svolta che potrebbe aprire la via, come richiesto da Xi Jinping espressamente durante la sua prima visita in Europa e alle istituzioni europee l’anno scorso, a un Fta che introdurrebbe una dinamica nuova nelle relazioni sino-europee. Si creerebbe un asse euroasiatico altrettanto significativo, sul piano economico-commerciale, di quello Atlantico e dell’area del Pacifico.
Quarant’anni dopo, è la Ue a far da apripista nel dialogo con la Cina.
Nicola Casarini è responsabile di ricerca Asia allo IAI.
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