La Cina non intende fermarsi. Anzi, vuole continuare a ritagliarsi il ruolo di leader mondiale, soprattutto in termini finanziari e commerciali.
A dimostrarlo è anche l’annuncio della creazione dell’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), la banca di sviluppo che avrà sede a Shanghai. Che ha attirato le adesioni di molti alleati storici degli Stati Uniti - Gran Bretagna in testa -, dando un vero e proprio smacco al duopolio bancario Stati Uniti-Giappone.
Le frasi di circostanza ripetono che in Asia c’è spazio per tutti, forse anche per una terza entità oltre alla banca a guida cinese e alla Asian Development Bank (Adb) a guida giapponese.
Secondo le stime, tra il 2010 e il 2020 c’è necessità in Asia, in termini d’investimenti infrastrutturali, di 8 mila miliardi di dollari, circa 800 miliardi all’anno. Tanti soldi, che possono sicuramente essere gestiti da più di una struttura bancaria.
La nascita della banca cinese dice però altro. Il messaggio è chiaro: gli Stati Uniti stanno perdendo sempre più la loro egemonia finanziaria. La dimostrazione arriva dalla rapidità con la quale alleati storici - oltre la Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e non ultima l’Australia - hanno appoggiato il progetto cinese.
Anzi: in Europa, l’Aiib avrà sede proprio a Londra. Di fianco agli Usa, resta solo il Giappone, che non ha chiesto di aderire.
Intransigenza statunitense In commenti ufficiali, Pechino ha detto che la nascita della nuova banca di sviluppo asiatico deve essere vista come il completamento delle strutture già esistenti (leggasi Banca mondiale a guida Usa e Adb a guida giapponese).
Jim-yong Kim, presidente americano di origini sud coreane della Banca mondiale, ha dichiarato che l’istituzione da lui presieduta accoglie favorevolmente la nascita dell’Aiib a causa del bisogno straordinario di infrastrutture.
Sulla stessa linea anche Takehiko Nakao, presidente della Adb, che si è detto pronto a collaborare, spiegando che le due banche si completano a vicenda.
Ramoscelli d’ulivo arrivati dopo che gli stessi Stati Uniti hanno fatto una parziale retromarcia rispetto alle loro posizioni iniziali d’intransigenza, quando hanno visto il successo che la banca cinese ha avuto sin dall’inizio.
Quando era stata annunciata la nascita del nuovo istituto, Washington aveva espresso forti dubbi su standard di finanziamento (gli americani temono siano troppo bassi), trasparenza, sostenibilità del debito, protezioni ambientali e sociali.
Il vero timore di Washington è in realtà il potere sempre più esteso che Pechino sta assumendo non solo nell’area asiatica e in Africa, ma in Europa, antico bacino di consenso americano.
Non c’è né da stupirsi né da preoccuparsi per la decisione cinese. Oramai l’ago della bussola della governance mondiale finanziaria punta ad est, non più ad ovest.
Pechino avrà mille difetti e porta mille incognite, ma sicuramente ha quello che manca a molti: i soldi. E se l’adagio latino dell’homo sine pecunia est imago mortis o quello più prosaico del sine pecunia ne cantantur missae sono ancora validi, allora…
Sotto l’ala protettiva cinese Senza poi considerare che, nonostante sia un enorme paese in sviluppo maggiore rispetto a tutti gli altri, Pechino conta poco nelle altre istituzioni: appena il 6,47% di voto nell’Adb, il 5,17% nella Banca Mondiale e il 3,81% nel Fondo Monetario Internazionale, Fmi (dove gli Usa, contribuendo con 65 miliardi di dollari, sono gli unici ad avere diritto di veto).
L’Aiib è quindi una alternativa notevole per Pechino. Negli ultimi anni, soprattutto grazie alla sua potenza economica, la Cina è riuscita a tessere una serie di relazioni internazionali che l’hanno portata a primeggiare. Chiara l’intenzione dei paesi aderenti della prima e della seconda ora: occupare posizioni e stare sotto l’ala protettiva della Cina, vista sempre più come punto di riferimento.
Invece dei continui scontri, Pechino preme ora sul desiderio di relazioni economiche solide nella speranza di persuadere i paesi (asiatici e non) a unirsi alla sua iniziativa e trarne guadagni in crescita.
Ai 25 paesi asiatici della prima ora (tutto il blocco del sud Est Asiatico e l’India e Singapore tra gli altri), si sono aggiunti sei europei (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Svizzera) oltre alla Nuova Zelanda, tutti con l’adesione già approvata.
Entro la scadenza dei termini dello scorso 31 marzo, hanno fatto richiesta di adesione, che deve essere vagliata, altri 21 paesi, tra i quali Taiwan. L’adesione dell’isola ribelle è stata accolta con favore da Pechino che chiederà di usare il nome “politicamente corretto” usato da Taiwan nelle manifestazioni sportive, e cioè Chinese Taipei.
Ma anche Turchia, Russia, Spagna, Corea del Sud, Israele, Brasile e Australia. La Cina guiderà il tutto con uno stanziamento iniziale di 50 miliardi di dollari che sarà portato a 100 con i versamenti dei paesi membri. Il tutto, partirà entro l’anno.
Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo.
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