Europa orientale Balcani in salsa turca Matteo Garnero 25/05/2016
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Un'alta personalità turca in Bosnia. Ufficialmente per fede, ma in realtà per un giro di affari fatto di soft power. Il 7 maggio, il dimissionario Primo Ministro turco Ahmet Davutoğlu ha presenziato all’inaugurazione della moschea di Ferhat Pasha a Banja Luka, la seconda città della Bosnia-Erzegovina. Un gesto che oltre a scrivere una pagina della storia dei Balcani, si inserisce nel più ampio obiettivo della politica estera di Ankara di consolidare la propria presenza nella parte occidentale di questa regione.
L’inaugurazione della moschea di Ferhat Pasha
La moschea di Ferhat Pasha, risalente al XVI secolo, era stata rasa al suolo nel 1993 dalle milizie serbo-bosniache, un destino condiviso con altre 15 moschee di Banja Luka distrutte fra il 1993 ed il 1995. E per tenere a memoria quanto accaduto in questi anni alle comunità islamiche in Bosnia, il 7 maggio, viene celebrato il Giorno delle Moschee.
I lavori di ricostruzione della moschea, allora parte del patrimonio Unesco, erano stati inaugurati proprio il 7 maggio del 2001, data segnata da violente contestazioni ad opera di nazionalisti serbi, causando un morto.
Il costo complessivo dei lavori è stato di 5 milioni di dollari, di cui oltre 1 è stato fornito dalla Tika, l’agenzia di cooperazione turca. Consultando i canali ufficiali dell’agenzia si nota l’evidente impegno della cooperazione turca nei Balcani occidentali che non è concentrato solo nei Paesi in cui Ankara detiene i principali interessi economici (Serbia, Macedonia e Bosnia).
I progetti finanziati dalla Tika riflettono una strategia multidimensionale che comprende forme di sostegno alla popolazione in situazioni di emergenza come in caso di alluvioni, programmi educativi nel settore agro-alimentare e il rafforzamento dei legami culturali fra la Turchia ed i Balcani che passa attraverso la costruzione o il rinnovamento di biblioteche, monumenti e, per l’appunto, moschee.
Il ritorno della Turchia nei Balcani
Il ritorno nei Balcani della Turchia si è proprio registrato nel corso degli anni Novanta, durante i quali il processo di disgregazione della Jugoslavia ha alimentato processi di frammentazione e drammatiche guerre civili in un’area prossima ai confini turchi.
Nel corposo volume di geopolitica “Profondità strategica” pubblicato nel 2001 quand’era direttore del dipartimento di Relazioni internazionali dell’Università Beykent di Istanbul, Ahmet Davutoğlu aveva individuato nei Balcani uno dei “bacini geo-culturali di prossimità” della Turchia, status determinato non solo dall’ovvio legame geografico di connessione fra l’Anatolia e l’Europa centrale, bensì anche dall’eredità storica rappresentata dall’Impero Ottomano nella regione.
Commentando nel merito della presenza turca nei Balcani, il sito del Ministero degli Affari Esteri turco definisce la Turchia “un Paese balcanico”, in continuità con la visione di Davutoğlu, aggiungendo che “le relazioni bilaterali con questi Paesi sono basate sui principi di indipendenza, sovranità e integrità territoriale, non interferenza negli affari interni e ulteriormente sanciti dei legami storici che ci legano, nonché alla luce del principio di buon vicinato”.
Soft power turco
Durante l’era del partito di Giustizia e Sviluppo, Akp (Adalet ve Kalkınma Partisi), l’azione esterna della Turchia ha adoperato sempre più strumenti di soft power, attraverso il finanziamento di progetti per il tramite dell’agenzia Tika ed il consolidamento delle relazioni commerciali con i Paesi della regione.
Consultando i dati riportati dall’istituto statistico turco Tuik, è possibile rilevare come, nel periodo 2012-2015, si sia registrato un notevole incremento degli scambi con quasi tutti i Balcani occidentali: Montenegro (+31%), Serbia (+29%), Macedonia (+19%), Bosnia-Erzegovina (+16%), Albania (+12%) e Kosovo (-6%). Il dato relativo a Pristina, tuttavia, riporta una diminuzione degli scambi rispetto al 2012 solo nel corso del 2015.
Un fenomeno interessante di queste relazioni è rappresentato dal successo delle soap turche, particolarmente seguite in Bosnia, Macedonia, Kosovo e Serbia. Negli ultimi anni, il settore in questione ha registrato una crescita significativa, rendendo la Turchia il secondo Paese esportatore al mondo, dopo gli Stati Uniti, di serie tv.
Il successo nei Balcani, in particolare, è determinato non solo dalla facile accessibilità che l’intreccio delle soap offre, bensì anche da riferimenti culturali simili, quale la rappresentazione che viene fatta della famiglia o i richiami al passato ottomano, come viene fatto in Muhteşem Yüzyıl incentrato sulla vita di Solimano I il Magnifico.
L’importanza economica della Turchia registra quindi un trend positivo ed è diventato un mezzo efficace per migliorare le relazioni bilaterali con i Paesi della regione e per offrire un’immagine positiva alla popolazione.
Oltre il neo-ottomanesimo
Nonostante le accuse di “neo-ottomanesimo” mosse dai nazionalisti della regione e alcuni esponenti dell’accademia, la politica estera di Ankara nei confronti dei Balcani è stata, in larga parte, a sostegno del processo di adesione all’Ue, nonché nel quadro Nato.
La Turchia è stata infatti fra i membri fondatori del South-East European Cooperation Process, il quale si pone l’obiettivo di facilitare l’integrazione con le piattaforme comunitarie e del patto atlantico. Ankara ha avviato inoltre delle iniziative politiche di natura più indipendente, quali gli incontri trilaterali con Bosnia e Serbia, i quali hanno facilitato il dialogo fra i due Paesi, pur sempre i linea con le aspirazioni dell’Ue.
Ciò non toglie che sia possibile rilevare numerosi elementi culturali di riferimento alle minoranze turche nei Balcani, all’eredità ottomana e alla religione islamica. Proprio durante il discorso in occasione della cerimonia di inaugurazione della moschea, infatti, Davutoğlu ha ricordato i legami culturali che accomunano i due Paesi, esprimendo un forte senso di solidarietà e di supporto. Ha inoltre sottolineato l’importanza dell’unità territoriale della Bosnia, nonché la necessità di coesistenza pacifica fra le diverse fedi.
In quest’ottica, dunque, l’attivismo turco della regione non rappresenta una novità e i commenti di un “ritorno” di Ankara nei Balcani sembrano ignorare la continuità, al contrario, dell’ovvio interesse e coinvolgimento della Turchia nell’immediato vicinato.
È pur vero che questa stessa presenza ha modificato i propri strumenti e approcci, ma ciò va interpretato piuttosto alla luce di una serie di fattori di natura sistemica, più che di un strutturale ripensamento della politica estera turca. Con la fine della Guerra Fredda, la disgregazione della Jugoslavia e il processo di integrazione europeo, la Turchia ha semplicemente preso atto dei nuovi elementi che hanno dato forma al quadro regionale.
Matteo Garnero è stagista dell’area Europa dello IAI.
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