Asia

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Metodo di ricerca ed analisi adottato

Per il medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com
seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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giovedì 3 luglio 2014

Iraq: sunniti nel mirino

Iraq
Puzzle mediorientale su Baghdad
Murat Özçelik
02/07/2014
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La situazione medio orientale è in tumultuosa evoluzione. È difficile articolare una politica regionale coerente, di medio periodo, che possa sperare di abbassare il livello della conflittualità, se prima non si comprendono le cause profonde di ciò che sta avvenendo in questi giorni e in qual modo vengono coinvolti i maggiori attori internazionali.

Rivalsa del Kurdistan iracheno
Gli Stati Uniti non sembrano essere in grado, né avere l’intenzione, di farsi coinvolgere direttamente nelle dinamiche interne dell’Iraq o della Siria. L’ Unione europea è solo marginalmente e poco impegnata negli sforzi per ridurre la crisi umanitaria in corso in questa regione.

Il governo regione del Kurdistan (Krg) è ad oggi l’unico attore apparentemente disponibile ad assistere le vittime dalla violenza, anche se in realtà sta sfruttando questa opportunità per allargare il suo controllo sui territori contestati, cominciando da Kirkuk, ma tenendo d’occhio anche Telafar, come via d’accesso a Sinjar.

La Turchia, che tradizionalmente si opponeva alle intenzioni curde su Kirkuk, sembra ora più disponibile a mantenersi fuori della mischia, forse anche perché il petrolio controllato dai curdi iracheni viene esportato attraverso il terminale turco di Ceyhan, sul Mediterraneo.

Ankara inoltre è in qualche difficoltà a causa del sequestro di 49 membri del suo staff consolare a Mosul e di circa 30 autotrasportatori, da parte dell’ Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante), malgrado i rapporti ufficiosi mantenuti con questa organizzazione. In altri termini, sembra che la politica turca in Siria le si sia ritorta contro in Iraq.

Sostegno iraniano a Maliki
L’Iran, d’altra parte, sta proponendo agli Stati Uniti di unire le forze contro i terroristi, come se il gruppo terrorista Al-Quds non fosse coinvolto negli scontri in Iraq. L’Iran sta anche chiedendo all’Iraq di ricercare un rinforzo militare, così da riuscire a coinvolgere il proprio esercito in aggiunta alle forze armate di Qasim Suleimani.

L’Ayatollah sciita Ali-Sistani, che ha sempre mantenuto le distanze dagli sviluppi politici, ha invocato una politica jihadista. Moqtada Al-Sadr ha dichiarato di essere pronto a combattere l’Isil. Il primo ministro sciita Nuri Al-Maliki, in un attimo di disperazione, ha sollecitato tutti i cittadini iracheni a imbracciare le armi contro l’Isil, come se lui non avesse niente a che vedere con l’insurrezione sunnita in Iraq.

Samarra, dove la guerra partigiana ebbe inizio nel 2005, dopo il bombardamento della moschea di Al-Askariya, è di nuovo sotto attacco, questa volta dell’Isil. Qualora l’Isil ravviasse un conflitto settario a Samarra, questo significherebbe l’inizio della fine della nostra concezione attuale dell’Iraq.

Quando Iraqyye vinse le elezioni del 2010, la popolazione irachena indicò con chiarezza quanto fosse forte il desiderio di un cambiamento politico. Essa dimostrò di esser stanca dell’atteggiamento ipocrita con cui i mullah si atteggiavano a difensori dei suoi diritti, senza peraltro far seguire i fatti alle parole, e sperò in un cambiamento di governo che riuscisse d assicurare al paese quei servizi di cui ha un bisogno disperato.

Dopo quasi dieci mesi di battibecchi post-elettorali, nulla è cambiato. L’Iran ha fatto sì che si finisse per tornare esattamente allo stesso punto di partenza. Gli Stati Uniti hanno assecondato questa situazione. Dopo aver assunto la carica per la seconda volta, Maliki si è impegnato a fondo nel tentativo di ottenere un controllo personale sia delle forze armate del paese sia del sistema di sicurezza. Inoltre ha eliminato dall’Intelligence coloro che reputava a lui infedeli e ha assunto il controllo delle Forze Speciali.

Sunniti nel mirino
L’uso politico del sistema di sicurezza e del sistema giudiziario ha raggiunto vertici preoccupanti già dalla fine del 2012. Non solo i politici sunniti, ma anche popolazione sunnita in generale si è trovata nel mirino delle forze sciite di Maliki. Ciò ha coinciso con l’inizio delle proteste sunnite dopo la preghiera del venerdì. La prima principale repressione di queste proteste ha avuto luogo a Hawice, nell’aprile del 2013, quando 300 protestanti furono barbaramente uccisi.

Chi conosce il successo della “politica di impatto” del generale usa David Petreaus si ricorderà di quando Al-Qaeda si ritrovò isolato dalle tribù sunnite grazie all’impegno del Movimento per il risveglio sunnita.

In quella occasione Al-Qaeda venne sopraffatta dalle forze armate statunitensi in cooperazione con le tribù sunnite. I membri del Movimento furono disponibili per tale collaborazione poiché erano state procurate loro concrete opportunità di lavoro nel settore della pubblica amministrazione ed era stato promesso un loro maggiore coinvolgimento a livello politico regionale.

Tuttavia, anche in quel caso, Al-Qaeda non mise mai fine al tentativo di arruolare nuove reclute, puntando specialmente sui disoccupati e su persone senza sussidi economici.

Da Al-Qaeda all’Isil
Al-Qaeda ha avuto nuovamente la meglio quando Maliki ha sviluppato una politica di progressivo strangolamento della comunità sunnita. Maliki è arrivato al punto di affermare che la punizione inflitta ai militanti sunniti avrebbe rappresentato un buon esempio per evitare nuove sfide contro la sua autorità. L’Iran lo ha appoggiato insieme alle forze di Al-Quds.

In risposta, il Consiglio sunnita degli ulema (il Consiglio dei Dotti Islamici) nonché la Commissione delle tribù sunnite hanno finito per stringere un rapporto di collaborazione con l’Isil, nel presupposto che quest’ultimo fosse comunque un male minore rispetto al governo attuale a Baghdad.

L’Isil ha assunto il comando negli scontri recenti, ma le fondamenta erano già state stese dalle tribù sunnite. È probabile che queste stesse tribù capiranno presto che l’ Isil non costituisce affatto un male minore, ma un’altra minaccia esistenziale. A quel punto, potremmo vedere un’altra collisione all’interno della comunità sunnita.

Al momento nessuno sa dove o quando questi scontri avverranno e se finiranno per trasformarsi in una guerra settaria generalizzata. Alcuni parlano della opportunità di sviluppare una vera politica regionale, ma in realtà non sembra esistere una forza in grado di delineare tale politica, né tantomeno di metterla in pratica.

Murat Özçelik, Ambasciatore, Direttore NIFA Investment and Consultancy Services. Già Sottosegretario all’ordine pubblico e alla sicurezza, Ambasciatore a Baghdad, Inviato speciale del governo turco per
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martedì 1 luglio 2014

Iraq: il Kurdistan in costruzione

Conflitto in Iraq
La terza via dei curdi
Emanuela Pergolizzi
26/06/2014
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A poco più di dieci giorni dalla presa di Mosul da parte dei militanti dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isil), l'avanzata verso Baghdad delle truppe jihadiste prospetta scenari imprevedibili per l'Iraq.

Undici anni dopo l'intervento statunitense e la fine del regime baathista, nuovi giochi di forza sembrano ridisegnare la geografia irachena e l'insieme degli equilibri regionali.

Mentre le forze dell'Isil spazzavano via con relativa facilità le truppe del presidente iracheno Nouri Al-Maliki a Mosul, Tikrit e nella provincia di Diyala, una forza minore ma veloce ed efficiente non retrocede sulle proprie postazioni e guadagna lentamente terreno sul campo.

I curdi-iracheni, a cui dal 2005 è riconosciuta costituzionalmente un'entità federale e autonoma ai confini tra Iran, Turchia e Siria (Governo regionale del Kurdistan, Krg), si apprestano a giocare il ruolo di ago della bilancia dei nuovi equilibri del paese e delle delicate geometrie mediorientali.

Termopili curde
Oppressi dal regime baathista e in costante tensione con il governo centrale di Baghdad, i curdi-iracheni hanno un lungo passato di guerriglia e di addestramento sulle cime delle montagne di Qandil, ai confini con i territori turchi.

I peshmerga, i combattenti curdi, sin dalla caduta dell'impero ottomano e quello qajaro si sono battuti per la definizione di uno stato curdo indipendente, promessa-recepita dal Trattato di Sèvres del 1920, che però non entrò mai in vigore (mancando la ratifica dell’Impero Ottomano) e venne sostanzialmente superato dal successivo Trattato di Losanna (1923) con la nuova Turchia.

Numericamente inferiori all'esercito di Baghdad, ma veloci e ben addestrati, i peshmerga curdi rappresentano un efficace contro-potere nella battaglia contro l'Isil, una forza sempre più indispensabile per lo stesso governo centrale iracheno.

Uniti nel comune obiettivo di difendere i territori del Krg, i peshmerga hanno mostrato capacità di resistenza e offesa sorprendenti, guadagnando il controllo della città-simbolo di Kirkuk, "Gerusalemme curda" e capitale del petrolio a lungo reclamata al governo centrale di Baghdad.

Equilibri invertiti e "Pre" e "Post-Mosul"
La situazione in campo di un Iraq spaccato tra sciiti e sunniti, curdi, turkmeni e iracheni, non appare che la fotografia di contrasti latenti, un mosaico spaccato e impossibile da ricomporre.

Il presidente della regione autonoma irachena, Massoud Barzani, ha parlato di un "pre" e "post-Mosul", una cesura incolmabile. Se così fosse, i curdi-iracheni sarebbero i primi a beneficiare dei nuovi equilibri di fatto, espressione di uno sviluppo in atto da anni.

Da regione povera e arretrata, il Kurdistan iracheno ha vissuto nell'ultimo decennio una nuova primavera di crescita, favorita dai legami con Ankara - primo partner commerciale - e dalle promesse delle nuove esportazioni di petrolio curdo, attraverso la Turchia, verso i mercati internazionali.

Erbil, capitale del Krg, è divenuta rifugio sicuro per i civili iracheni in fuga dagli scontri con i militanti jihadisti e si afferma come unico porto franco nei turbolenti confini siriano-iracheni.

Sebbene i futuri scenari siano ancora imprevedibili, è probabile che Barzani ne esca rafforzato, con un nuovo potere di contrattazione sulle richieste da tempo sollevate nei confronti di Baghdad: la possibilità di beneficiare direttamente dei contratti di estrazione del petrolio conclusi con le imprese straniere e la disponibilità di un maggior margine di manovra sul budget federale.

Fratelli divisi e Barriere regionali
Il pericolo-Isil sembrava aver risvegliato, per un momento, un senso di identità e di unione tra le popolazioni curde sorelle al confine tra Siria e Iraq. Anche in Siria, infatti, dal novembre 2013, le forze siriane guidate dal Partito dell'Unione democratica (Pyd) avevano dichiarato la formazione di un governo autonomo animato da aspirazioni federaliste - come in Iraq - nella regione settentrionale di Rojava.

Sebbene una cooperazione a cavallo tra i due confini potrebbe rafforzare ulteriormente la resistenza contro le forze jihadiste, tra i curdi-iracheni di Barzani e quelli siriani non scorre buon sangue. I curdi-iracheni si rifiutano infatti di riconoscere le nuove amministrazioni del Pyd, continuando a preferire un braccio di ferro per il controllo regionale al posto di un'alleanza comune.

Mentre l'Isil non sembra retrocedere nelle sue posizioni, è ancora incerto cosa il "post-Mosul" prospettato da Barzani possa implicare. Nel mosaico siriano-iracheno, fratelli ancora divisi, i curdi rappresenteranno sicuramente un importante tassello nei nuovi equilibri regionali.

Emanuela Pergolizzi è stata stagista IAI nel quadro del programma Global Turkey in Europe (twitter: @empergolizzi).
 
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Vedi anche
L’esercito di terracotta di Baghdad, Mario Arpino
L’onda d’urto dell’Isil in Medio Oriente, Ludovico Carlino
Le vere dinamiche dell’avanzata dell’Isil su Baghdad, Roberto Iannuzzi


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Cina: relazioni con gli Usa. Problemi

Asia
Relazioni Ue-Cina senza reciprocità
Edoardo Agamennone
22/06/2014
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Negli scorsi mesi due importanti notizie sono state pressoché ignorate dai media italiani, concentrati sulle elezioni europee e sulle promesse di future riforme: il superamento della soglia del 2% nella compagine azionaria sia di Enel che di Eni da parte della Banca centrale cinese e l’acquisizione ad opera di Shanghai Electric di una quota pari al 40% del capitale di Ansaldo Energia.

Concentrando l’attenzione sulla seconda vicenda, occorre segnalare come la stessa società - quotata a Hong Kong e Shanghai, ma facente parte del gruppo State Grid Corporation of China - sia già stata molto attiva sul mercato europeo negli ultimi mesi: è del marzo scorso l’acquisizione di una quota del 33% di Enemalta.

Shangai Electric entra in Ansaldo energia
L’ingresso di Shanghai Electric nel capitale di Ansaldo Energia è stata l’ennesima occasione persa per fare una seria riflessione sul principio di reciprocità nei rapporti tra Cina ed Italia nonché, più in generale, tra Cina ed Unione europea.

Il principio di reciprocità prevede, tra le sue diverse declinazioni, che un paese A riconosca un determinato diritto ad una persona fisica o giuridica di un paese B a condizione che il paese B riconosca il medesimo diritto ad una persona fisica o giuridica del paese A.

Generalmente considerato come principio fondamentale del diritto internazionale, il principio di reciprocità è espressamente riconosciuto dal diritto italiano (articolo 16 delle disposizioni preliminari al codice civile).

Ove questo basilare principio venisse effettivamente applicato dalle autorità italiane/europee la libertà di investimento delle imprese cinesi nel vecchio continente sarebbe fortemente limitata, cosi come del resto lo è per le imprese italiane/europee che intendono operare ed operano in Cina.

Dal momento che la Cina limita fortemente gli investimenti stranieri attraverso un dettagliato catalogo, ove il principio di reciprocità fosse applicato alla lettera gli investimenti cinesi in Italia sarebbero soggetti alle medesime limitazioni.

Banche occidentali e mercato cinese
Lo stesso può dirsi di altri segmenti dell’economia, il settore bancario ad esempio: le principali banche occidentali hanno provato ad entrare nel mercato cinese sin dagli anni ottanta, trovando enormi ostacoli, sicché il loro ruolo resta tuttora assolutamente marginale e l’ambito di operatività fortemente limitato. Al contrario, alle banche cinesi viene nella più parte dei casi steso il tappeto rosso affinché si stabiliscano in Europa.

Negli scorsi anni si è assistito ad una sorta di competizione tra i paesi europei per attrarre le banche cinesi: il Regno Unito, ad esempio, ha inteso offrire alle banche cinesi la possibilità di aprire delle filiali che, a differenza di società incorporate in Inghilterra, restano quindi sostanzialmente soggette alla vigilanza delle autorità cinesi.

Il Lussemburgo si sta gradualmente affermando come piattaforma bancaria e finanziaria delle imprese e banche cinesi in Europa, che possono poi aprire filiali negli altri paesi Ue beneficiando della morbida normativa e vigilanza lussemburghese (un esempio significativo è quello di Industrial and Commercial Bank of China, Icbc). Banche italiane ed europee non potrebbero neanche sognare questo tipo di opportunità per le proprie attività in Cina.

A questa situazione si può correttamente obbiettare che le concezioni di mercato, di libera concorrenza e di apertura agli investimenti esteri della Cina da un lato e di Italia ed Unione europea dall’altro sono significativamente diverse.

Nonostante negli scorsi anni alcuni paesi Ue abbiano introdotto/rafforzato meccanismi di analisi ed approvazione degli investimenti esteri (esempi significativi sono la Germania nel 2009 e la Francia quest’anno) non ci si auspica certamente una chiusura ulteriore del mercato europeo a investimenti stranieri, che - se ben “gestiti” - possono portare benefici all’economia del vecchio continente.

Sarebbe però necessario utilizzare il principio di reciprocità sopra descritto per chiedere ed ottenere dalle autorità cinesi una maggiore libertà di investimento in Cina per le imprese straniere.

Investimenti in Europa
Mai come ora le imprese cinesi sono interessate ad investire in Europa al fine di acquisire tecnologia, marchi, know-how e quote di un mercato che, seppure in una fase economica non positiva, rappresenta pur sempre più di 500 milioni di persone con un Pil pro-capite medio di sei volte superiore a quello cinese.

Questo interesse può essere utilizzato come contropartita negoziale per ottenere maggiori opportunità per le imprese italiane/europee in Cina, oppure essere trascurato in continuità con le scelte di questi ultimi anni. La questione non può che essere affrontata a livello comunitario, al fine di fare leva sul forte peso che i 28 paesi membri rappresentano congiuntamente.

Nella speranza che tale scenario ideale possa concretizzarsi all’indomani del rinnovo delle istituzioni comunitarie, spetta ai singoli paesi mantenere aperto questo dossier su tutti i tavoli politici, diplomatici e legali.

L’Italia, cui spetta il semestre di turno dell’Unione, ha una responsabilità particolare: anche le relazioni bilaterali Cina-Ue sono parte del cambiamento di verso che occorre imprimere al funzionamento dell’Unione.

Articolo in via di pubblicazione su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Edoardo Agamennone è dottorando SOAS.
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Thailandia. Turbolenze infinite

Asia
L’impossibile normalità della Thailandia
Michelangelo Pipan
16/06/2014
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L'ennesimo colpo di stato sembra confermare l’ "impossibilita di essere normale" della Thailandia. Ma perché un paese come la Thailandia - trentatresima economia mondiale ed influente membro fondatore dell'Asean - non riesce a dare alla sua evoluzione economica e sociale una compiuta espressione politica?

Epoca Shinawatra
La questione ha a che vedere con la profonda transizione attraversata dal paese. Il sostenuto sviluppo economico degli ultimi vent'anni ne ha cambiato la struttura economica e sociale, favorendo l'emersione di nuove classi medie urbane e l'affrancamento economico delle masse rurali, bacino di mano d'opera del boom industriale.

Classi che, sino ad allora tenute ai margini della vita pubblica, hanno iniziato a reclamare un ruolo politico, mentre le tradizionali élites, impreparate ad abbandonare i propri privilegi, non hanno saputo dar vita a un progetto politico di compromesso.

Verso la fine del '900 il magnate delle telecomunicazioni Thaksin Shinawatra ha saputo "dare cittadinanza" ai soggetti politici emergenti, guadagnandosi un sostegno (alimentato, dicono i detrattori, da robuste politiche populiste) che non dà segno di erodersi.

Direttamente o in esilio per sfuggire a una condanna per abuso di potere tramite partiti a lui ispirati, ha da allora dominato ogni elezione, favorito dalla scarsa consistenza del Partito Democratico, sospeso fra logori personaggi delle vecchie élites e nuove leve di tecnocrati.

Successi poi regolarmente sovvertiti da colpi di stato militari o "giudiziari". Da qui i gravi disordini del 2009 e 2010.

Puea Thai, speranze di riconciazione
Nell'estate 2011 la vittoria del Puea Thai aveva fatto sperare in una stagione di riconciliazione nazionale. Speranza alimentata dall'iniziale consolidamento di Yingluck Shinawatra, sorella del controverso Thaksin, sia in patria, grazie a politiche economiche gradite all'elettorato, che all'estero, attraverso una ragguardevole serie di visite, tra le quali quella in Italia.

Incombeva un arduo passaggio obbligato: eliminare i due più significativi lasciti del golpe del 2006: la costituzione del 2007 e la condanna che aveva costretto il fratello all'esilio.

Ostacoli che Yingluck ha cercato di eludere, ma che una volta affrontati - peraltro senza successo- hanno fornito all'opposizione l'atteso pretesto per mobilitare la piazza, sulla base di un surreale "manifesto" politico che pretendeva la cancellazione di ogni regola democratica.

Militari nuovamente al potere
Dopo mesi di disordini e di caos istituzionale, il rischio che le camicie rosse pro-governative scendessero in piazza per un confronto che sarebbe potuto sfociare in guerra civile ha spinto il 22 maggio scorso i militari all'intervento.

L’esercito è stato visto da molti come il male minore. Il generale Phayuth Chan-Ocha leader del golpe, ha infatti lanciato inizialmente segnali contraddittori. Esibendo una forse genuina ambizione di traghettare il paese verso la normalità democratica, non ha saputo rassicurare che non ci sarebbero state derive autoritarie.

Il rapido succedersi degli eventi ha raffreddato le speranze: il Comandante Supremo dell'esercito di fronte al fallimento di frettolosi tentativi conciliatori ha presto avocato a sè tutto il potere, sospendendo la costituzione, senza più darsi un termine di scadenza, genericamente fissato a quando sarà tornata la normalità.

Mentre è difficile prevedere quando i militari torneranno nelle caserme, si profilano già le prime conseguenze sull'economia del paese, esposto alla concorrenza dei vicini Asean.

Se le reazioni iniziali non sono state negative - troppo erano durati caos ed incertezza - è difficile prevedere quali saranno le ripercussioni se la situazione si protrarrà.

I capitali internazionali, che hanno tradizionalmente privilegiato la Thailandia, potrebbero rivolgersi a altri paesi Asean che hanno in questi anni raggiunto condizioni di maturità economico-infrastrutturale tali da costituire appetibili alternative, quali Malaysia, Vietnam, Indonesia o Filippine.

Futuro della monarchia thailandese
Grande assente della vicenda il sovrano Bhumipol Adulyadej, da tempo malato, che non ha dato segno di poter esercitare quel ruolo di mediatore che in altri tempi aveva saputo assumere, sorretto dall'universale rispetto che lo circonda.

Si conferma così il grande quesito, che aleggia impronunciato sullo sfondo di qualsiasi discorso politico in Thailandia, ove l'istituzione monarchica non potrà restare immutata con il venir meno di una personalità tanto carismatica.

Si tratta di un fattore di grande peso nella congiuntura thailandese, che non avrà soluzione duratura che non includa il futuro dell'istituzione monarchica.

In tal quadro complessivo poco potrà fare per contribuire al ritorno alla normalità democratica la comunità internazionale.

L'orgoglio nazionale thailandese, condiviso da ogni componente della società, è profondamente radicato in un paese che non è mai stato sottoposto a dominazione straniera e che ricerca una propria via - "thainess" - in ogni settore di attività, e mal sopporta lezioni e pressioni da qualsivoglia parte provengano.

Michelangelo Pipan, Ambasciatore d'Italia in Thailandia 2009-2013.
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